Corte di cassazione

 

8.10.1999 - Corte di cassazione
Sentenza della Cassazione relativa alla giurisdizione del giudice ordinario in merito al ricorso avverso il diniego di riconoscimento dello status di rifugiato
(4 Febbraio 2000)
1. La Corte di Cassazione attribuisce alla giurisdizione del giudice ordinario le controversie concernenti i dinieghi al riconoscimento dello stato di rifugiato in base alla Convenzione di Ginevra.
Con una clamorosa sentenza datata 8.10.1999 , la Corte di Cassazione sezioni unite civili ha dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario nelle controversie (ricorsi) relativi al mancato riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951, da parte della Commissione centrale di cui all' articolo 1 della Legge 39/90 e al Dpr. 136/90.
La Corte di Cassazione ha preso le mosse dall'avvenuta espressa abrogazione - contenuta nell'articolo 46 della Legge 40/98 - della disposizione dell'articolo 5 della " Legge Martelli" che attribuiva al giudice amministrativo ( TAR) la decisione sull'impugnazione del provvedimento di diniego del riconoscimento dello status di rifugiato. Di conseguenza l'attribuzione al TAR della competenza sui ricorsi avverso le decisioni assunte in prima istanza dalla Commissione centrale non può più ritenersi automatica, ma la giurisdizione in proposito deve essere determinata secondo al Corte di Cassazione in base ai principi generali dell'ordinamento secondo i quali tutte le controversie concernenti lo status delle persone rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario .In appoggio a tale argomento, la Corte di Cassazione ha fatto riferimento alla disposizione contenuta nella Convenzione di Ginevra del 1951 che garantisce ad ogni rifugiato il libero e facile accesso ai tribunali degli Stati contraenti (art. 16), parificando sostanzialmente la sua condizione a quella dei cittadini.
La Corte di Cassazione ha ulteriormente richiamato la sua precedente giurisprudenza volta a far rientrare nella giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria le controversie riguardanti il riconoscimento del diritto di asilo costituzionale (Cass. Sez. unite 26.5.97 n° 4674). La Cassazione ha messo in evidenza la convergenza tra le due situazioni, sebbene distinte sotto il profilo dei requisiti per il riconoscimento ( non richiedendo l'asilo costituzionale l'ulteriore requisito della persecuzione soggettiva richiesta al rifugiato), riferendosi entrambe ad uno status, o diritto soggettivo, con la conseguenza che tutti i provvedimenti assunti dagli organi competenti in materia hanno natura meramente dichiarativa e non costitutiva . Ad ulteriore conferma del ragionamento, la Corte ha citato il trasferimento della giurisdizione dal giudice amministrativo a quello ordinario avvenuta con il varo della legge sull'immigrazione nelle controversie relative alle misure di espulsione degli stranieri. Avendo la Cassazione pronunciato al sentenza a sezioni unite civili questa assume valore vincolante per l'autorità giudiziaria. D'ora in avanti, dunque, i ricorsi avverso i dinieghi al riconoscimento dello status di rifugiato emanati dalla Commissione centrale potranno essere presentati dinanzi al giudice ordinario anziché a quello amministrativo senza il timore che il primo possa pronunciare una propria incompetenza di giurisdizione.

 

27 luglio 1999 - sent. N. 500 - Sezioni Unite della Corte di Cassazione
Una storica sentenza della Corte di Cassazione estende il principio della risarcibilità del danno subito dal cittadino in relazione ad atti della Pubblica Amministrazione che abbiano leso "interessi legittimi".
Le possibili applicazioni nel campo della tutela degli immigrati. In virtù di una giurisprudenza consolidata, la risarcibilità del "danno ingiusto" (prevista dall'art. 2043 del Codice Civile) provocato da un atto della Pubblica Amministrazione poteva essere invocata ed ottenuta in sede giudiziaria solo in caso di lesione di diritti soggettivi e non di interessi legittimi.
Con una storica sentenza resa dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sent. N. 500 del 27 luglio 1999) tale orientamento è stato superato, venendo meno quella che i giudici stessi hanno definito come "un'isola di immunità e di privilegio" di cui godeva la Pubblica Amministrazione e che "mal si concilia con le esigenze più elementari di giustizia". In pratica, per tutti gli atti amministrativi che producevano un danno ai cittadini, si poteva chiedere solo l'annullamento da parte del giudice amministrativo (TAR e Consiglio di Stato), senza però ricevere alcun risarcimento. D'ora in avanti, invece, a seguito della sentenza della Corte di Cassazione, il cittadino che si ritiene vittima di un danno ingiusto prodotto da un atto della PA che abbia violato un suo interesse legittimo, sia a carattere oppositivo (che mira cioè ad evitare un provvedimento sfavorevole) che pretensivo (che voglia ottenere un provvedimento favorevole), potrà proporre dinanzi al giudice ordinario un'azione risarcitoria ex art. 2043 CC. Il risarcimento potrà essere disposto dal giudice solo previo accertamento non solo dell'illegittimità dell'azione amministrativa, bensì in base ad una più complessa valutazione, estesa anche all'accertamento della colpa della PA, che presuppone la violazione delle regole di imparzialità, correttezza e di buona amministrazione cui la PA deve riferirsi nell'esercizio delle sue funzioni. Poiché l'accertamento diretto da parte del giudice ordinario dell'illegittimità dell'azione amministrativa è un elemento costitutivo della valutazione attinente la sussistenza del "danno ingiunto", la sentenza della Corte di Cassazione apre la strada alla possibilità per il cittadino di rivolgersi direttamente al giudice ordinario anche a prescindere dalla declaratoria di illegittimità del provvedimento da parte del giudice amministrativo, naturalmente nei casi in cui non sia prevista la giurisdizione piena ed esclusiva del secondo in base al D.L.vo n. 80/1998.
La sentenza della Corte di Cassazione è suscettibile di possibile ed estese applicazioni anche nel campo della tutela degli interessi legittimi dei cittadini immigrati extracomunitari rispetto ad atti lesivi prodotti dalla Pubblica Amministrazione. Si pensi al caso del cittadino immigrato che si veda rifiutato il rinnovo del permesso di soggiorno ovvero che questo gli venga illegittimamente revocato e da questo atto degli uffici di polizia gli derivi un danno economico, quale la perdita del posto di lavoro precedentemente posseduto. Finora tale cittadino poteva soltanto chiedere l'annullamento del provvedimento di rifiuto/revoca del permesso di soggiorno al giudice amministrativo e, anche in caso di esito favorevole, magari dopo diversi anni, non aveva diritto ad alcuna forma di risarcimento. Oggi, a seguito della sentenza della Corte di Cassazione, potrebbe rivolgersi direttamente al giudice ordinario (civile) per chiedere il risarcimento dei danni in base alla nuova lettura dell'art. 2043 del Codice Civile, e l'eventuale esito favorevole implicherebbe anche la dichiarazione di illegittimità dell'atto amministrativo.

 

La Corte europea dei diritti umani

 

Marzo 2000 - Corte europea dei diritti umani
La Corte europea dei diritti umani afferma che i governi europei non possono applicare automaticamente i criteri della Convenzione di Dublino in merito alle determinazione dell'unico paese responsabile dell'esame dell'istanza di asilo, senza considerare le possibili implicazioni contrarie al principio di "non-refoulement" di cui all'art. 3 della Convenzione europea per la tutela dei diritti dell'uomo.
Con una sentenza emanata alla fine di marzo, la Corte europea di diritti dell'uomo di Strasburgo ha affermato che l'allontanamento di un richiedente asilo da uno Stato membro del Consiglio d'Europa in un paese dove potrebbe essere esposto a maltrattamenti viola la Convenzione europea sui diritti Umani, indipendentemente se i maltrattamenti vengano praticati dalle pubbliche autorità o dai cosiddetti agenti "non statali".
La decisione non sarebbe una novità se non riguardasse un caso di allontanamento indiretto verso il paese di origine, nell'ambito dell'applicazione della Convenzione di Dublino sulla determinazione dell'unico paese all'interno dell'unione Europea responsabile dell'esame dell'istanza di asilo. La decisione della Corte infatti ha riguardato il caso di un cittadino srilankese che ha chiesto asilo nel Regno Unito dopo che la sua istanza di asilo era già stata rigettata in Germania. Il richiedente asilo aveva giustificato la riproposizione dell'istanza di asilo con la motivazione che il Regno Unito non fa distinzione tra agenti di persecuzione statali e non ai fini dell'interpretazione della nozione di rifugiato, al contrario della Germania, dove i richiedenti asilo che fuggono da persecuzioni nei paesi di origine non determinate da agenti statali non vengono riconosciuti quali rifugiati e corrono il rischio del rimpatrio.
Le autorità del Regno Unito avevano deciso di non esaminare nel merito l'istanza dell'interessato, decidendo di rinviarlo in Germania in base agli impegni contenuti nella Convenzione di Dublino. La Corte europea non si è opposta al rinvio del richiedente asilo in Germania, ma solo in quanto il governo tedesco ha fornito precise garanzie che non avrebbe espulso l'interessato nello Sri Lanka.
I giudici di Strasburgo tuttavia hanno espressamente ricordato che i governi non possono applicare automaticamente i meccanismi di trasferimento previsti dalla Convenzione di Dublino, senza tenere in debita considerazione le possibili implicazioni negative sul rispetto, che deve essere pieno ed assoluto, del principio di "non-refoulement" contenuto nell'art. 3 della Convenzione europea sui diritti dell'uomo, che vietando i trattamenti inumani e degradanti, è stata interpretata da una consolidata giurisprudenza come vietante pure l'allontanamento e/o l'espulsione di stranieri verso paesi ove tali trattamenti potrebbero verificarsi. L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati ha espresso piena soddisfazione per la decisione della Corte europea. In un comunicato, diffuso il 5 aprile scorso, Erika Feller, responsabile della sezione per i diritti dei rifugiati dell'UNHCR, ha affermato che "per la prima volta, una corte internazionale per i diritti umani conferma che il principio di non refoulement deve riguardare anche i "rimpatri indiretti" o "espulsioni a catena" che possono comportare situazioni di pericolo per gli interessati. Questa è stata da sempre la posizione sostenuta dall'UNHCR".
Ma la sentenza della Corte europea è destinata ad incidere anche sulla formazione di una politica europea comune in materia di asilo, a partire dalla revisione orami prossima dei criteri e dei contenuti della Convenzione di Dublino. Una delle critiche che fin dall'inizio sono state mosse alla Convenzione è che , negando di fatto la possibilità per il richiedente asilo di scegliere in quale paese essere esaminato, si basa sull'assioma fittizio che essendo tutti i paesi dell'Unione Europea firmatari della Convenzione di Ginevra, essi applicano gli stessi criteri di interpretazione della nozione di rifugiato e forniscono le stesse garanzie. In realtà, come messo a nudo dalla vicenda esaminata dalla Corte di Strasburgo, la stessa definizione di rifugiato viene interpretata in maniera difforme tra i diversi paesi dell'Unione Europea, con particolare riguardo a questioni delicate come quella degli "agenti non statali" della persecuzione e dei differenti regimi complementari di protezione. Tali difformità nelle legislazioni nazionali in materia di asilo debbono quindi necessariamente condurre ad una valutazione del possibile rischio di non refoulement insito in ogni decisione di trasferimento conseguente all'applicazione della Convenzione di Dublino. Il testo della sentenza della Corte Europea dei diritti dell'Uomo può essere richiesto alla segreteria organizzativa dell'ASGI (e-mail: ledaz@tin.it ).

 

 

Contributo di Walter Citti all'edizione del 2000 del documento ECRE sulla giurisprudenza relativa alle alle situazioni in cui l'agente della persecuzione non e' statale (25 luglio 2000)

 

 

Luglio

 

Ordinanza del TAR del Veneto relativa al ricorso, presentato dall'Avv. Tallarico, per l'annullamento del decreto di rigetto della domanda di regolarizzazione presentata da un cittadino straniero (31 luglio 2000)

 

La Corte Costituzionale dichiara legittima la rimessione in termini da parte del giudice di merito del ricorso tardivo avverso il provvedimento espulsivo qualora questo sia stato notificato omettendo la traduzione in lingua conosciuta dallo straniero destinatario. La Corte Costituzionale, con sentenza 8-16 giugno 2000, n. 198 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, 1.a Serie Speciale, 21.06.2000, n. 26) ha dichiarato infondata la questione di illegittimità costituzionale sollevata dal Pretore di Modena riguardo all'art. 13 c. 8 del D.lgs.. n. 286/98 nella parte in cui non consentirebbe la rimessione in termini del ricorso tardivo avverso il provvedimento espulsivo notificato allo straniero omettendo la traduzione in lingua a lui conosciuta. Nel motivare la sentenza, la Corte Costituzionale ha affermato che lo straniero presente nel territorio nazionale deve godere pienamente ed effettivamente del diritto alla difesa, costituzionalmente previsto all'art. 24, e che pertanto, gli atti della Pubblica Amministrazione destinati ad incidere sulla sua condizione giuridica debbono essere resi concretamente conoscibili, mediante traduzione nella lingua a lui nota ovvero in una delle lingue internazionalmente più diffuse, come prescritto dall'art. 13 del T.U. in merito ai provvedimenti espulsivi. In mancanza di detta traduzione, secondo la Corte lo "strumento di conoscibilità dell'atto espulsivo" viene messo in discussione e, conseguentemente, anche il termine perentorio per la sua ricorribilità (cinque giorni secondo il TU delle norme sull'immigrazione) può essere disapplicato dal giudice di merito che accerti, di volta in volta, che l'omessa traduzione abbia effettivamente influito sull'esercizio del diritto di difesa dello straniero, non consentendogli di presentare il ricorso nei termini prescritti. Ne consegue la possibilità, sancita dai principi generali del diritto, per il giudice di merito di rimettere in termini il ricorso tardivo, cioè eventualmente presentato oltre il termine di legge fissato in cinque giorni, senza che il giudice sia al contrario obbligato a dichiararne l'inammissibilità. Il pronunciamento della Corte Costituzionale è importante perché potrebbe consentire ai giudici di rimettere in termini e dichiarare ammissibili ricorsi avverso provvedimenti espulsivi, allorché i destinatari non abbiano potuto rispettare il termine di legge (di particolare brevità: cinque giorni) anche per situazioni analoghe a quella ora discussa, ad es. per caso fortuito, forza maggiore, ove non vi sia colpa addebitabile all'interessato, rendendo così meno restrittivo il dettato legislativo fissato dall'art. 13 del Tu così come modificato dal D.lgs. n. 113/99.

 

La Corte Costituzionale dichiara inammissibili o non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate da alcuni pretori in merito alle norme della legge sull'immigrazione relative agli strumenti di difesa avverso i provvedimenti espulsivi. Con sentenza n. 161 del 25/31.05.2000 (red. Guizzi), la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibili o non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dai pretori di Ancona, Padova, Palermo e dal TAR Toscana riguardo alle norme della legge sull'immigrazione (l. n. 40/98) e a quelle del precedente decreto-legge "Dini" n. 269/96 relative ai mezzi di impugnazione e difesa avverso i provvedimenti espulsivi. Riguardo alle censure sollevate dai pretori di Padova e Palermo e ai dubbi di incostituzionalità da loro sollevati dell'art. 13 commi 8 e 9 del D.lgs. n. 286/98 per i termini ritenuti eccessivamente brevi sia per l'impugnativa del provvedimento di espulsione, sia per la definizione del procedimento, la Corte Costituzionale ha evitato di assumere una posizione definitiva e di merito. Essa si è limitata infatti ad un giudizio di inammissibilità, considerando la questione priva di rilevanza "giacchè l'asserita brevità (del termine con presunta violazione del diritto costituzionale di difesa ex art. 24 ndr) ) non ha impedito l'esercizio del diritto e l'eventuale declaratoria di illegittimità non modificherebbe l'esito del giudizio". Il giudice costituzionale rileva infatti che non solo i provvedimenti espulsivi erano stati impugnati nei termini previsti, ma che nemmeno veniva indicato per quali ragioni la difesa doveva ritenersi carente in ragione del termine ritenuto eccessivamente breve per l'inoltro del reclamo. Si può tuttavia giungere indirettamente ad una valutazione "di merito" di legittimità costituzionale del termine di cinque giorni per l'impugnazione del provvedimento espulsivo, previsto dalla legge n. 40/98, considerando le valutazioni espresse dal giudice costituzionale nella medesima sentenza riguardo alle censure di illegittimità costituzionale sollevate dal TAR Toscana verso la norma del decreto-legge "Dini" n. 269/96 che limitava a soli sette giorni il termine per la ricorribilità dinanzi al giudice amministrativo del provvedimento espulsivo dello straniero. Qui il giudice costituzionale parte dalla considerazione che "per valutare la congruità di un termine in relazione al principio sancito dall'art. 24, occorre comparare non soltanto l'interesse di chi è onerato dal rispetto di esso, ma anche il generale interesse dell'ordinamento al celere compimento dell'attività processuale soggetta al termine di decadenza" e che "nel caso in specie la necessità di una sollecita definizione del procedimento di impugnazione risponde senza dubbio all'interesse generale di un razionale ed efficiente controllo dell'immigrazione da Paesi extracomunitari". La Corte Costituzionale rileva inoltre che la determinazione dei termini processuali rientra nella piena discrezionalità del legislatore, con il solo limite della ragionevolezza, che nel caso in specie non appare violato, sia per le considerazioni sopra svolte circa le funzioni generali di ordine pubblico che un termine breve di ricorribilità soddisfa, sia per le caratteristiche peculiari del procedimento in oggetto. Il giudice costituzionale non ritiene nemmeno fondate le censure sollevate dai pretori di Padova e Palermo nei confronti delle parti dell'art. 13 del dlg. n. 286/98 che non consentono di sospendere, in via cautelare, l'efficacia del provvedimento espulsivo impugnato. La Corte Costituzionale ritiene infatti che la tutela cautelare anticipatoria non sia necessaria, proprio per la brevità dei termini previsti dalla legge per la definizione del procedimento giudiziario di opposizione al provvedimento espulsivo dello straniero. Peraltro, la Corte Costituzionale non esclude ipotesi nelle quali il giudice possa legittimamente esercitare la tutela cautelare e sospendere dunque l'efficacia del decreto prefettizio espulsivo impugnato, qualora per ragioni obiettive il procedimento non possa concludersi nei dieci giorni fissati dalla legge (ad es. per legittimo impedimento del giudice, per sua astensione o ricusazione, ovvero per interruzione necessitata del provvedimento). Ciò in ragione del fatto che la mera proposizione del ricorso non impedisce l'esecutività dell'espulsione allo scadere dei quindici giorni successivi alla sua notifica , al contrario delle previsioni di caducazione dei provvedimenti impugnati in caso di mancato rispetto dei termini di decisione da parte del giudice in relazione alle misure cautelari sulla libertà personale nel procedimento penale. La sentenza della Corte Costituzionale, peraltro, evita di pronunciarsi sulla legittimità dell'adozione da parte del giudice civile di misure cautelari di sospensione del provvedimento espulsivo impugnato in ragione della pendenza di procedimenti giudiziari precedenti o contemporanei in relazione di pregiudizialità, ex art, 295 c.p.c. (si pensi ad esempio al caso dell'impugnazione del provvedimento espulsivo emanato nei confronti dello straniero che si sia trovato privo di permesso di soggiorno per la revoca di quello precedentemente in suo possesso ed avverso la quale egli abbia presentato ricorso al TAR in base a quanto previsto dall'art. 6 c. 10 d.lgs. n 286/98). Peraltro, sussiste già una ricca giurisprudenza favorevole alla possibilità per il giudice di esercitare in questi casi il potere cautelare (per tutte, ordinanza 18.09.1999 del Tribunale di Trieste, in "Diritto, Immigrazione e Cittadinanza", Franco Angeli, Milano, n. 1/2000, pp. 125-127).

 

 

Una storica sentenza della Corte di Cassazione estende il principio della risarcibilità del danno subito dal cittadino in relazione ad atti della Pubblica Amministrazione che abbiano leso "interessi legittimi". Le possibili applicazioni nel campo della tutela degli immigrati. In virtù di una giurisprudenza consolidata, la risarcibilità del "danno ingiusto" (prevista dall'art. 2043 del Codice Civile) provocato da un atto della Pubblica Amministrazione poteva essere invocata ed ottenuta in sede giudiziaria solo in caso di lesione di diritti soggettivi e non di interessi legittimi. Con una storica sentenza resa dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sent. N. 500 del 27 luglio 1999) tale orientamento è stato superato, venendo meno quella che i giudici stessi hanno definito come "un'isola di immunità e di privilegio" di cui godeva la Pubblica Amministrazione e che "mal si concilia con le esigenze più elementari di giustizia". In pratica, per tutti gli atti amministrativi che producevano un danno ai cittadini, si poteva chiedere solo l'annullamento da parte del giudice amministrativo (TAR e Consiglio di Stato), senza però ricevere alcun risarcimento. D'ora in avanti, invece, a seguito della sentenza della Corte di Cassazione, il cittadino che si ritiene vittima di un danno ingiusto prodotto da un atto della PA che abbia violato un suo interesse legittimo, sia a carattere oppositivo (che mira cioè ad evitare un provvedimento sfavorevole) che pretensivo (che voglia ottenere un provvedimento favorevole), potrà proporre dinanzi al giudice ordinario un'azione risarcitoria ex art. 2043 CC. Il risarcimento potrà essere disposto dal giudice solo previo accertamento non solo dell'illegittimità dell'azione amministrativa, bensì in base ad una più complessa valutazione, estesa anche all'accertamento della colpa della PA, che presuppone la violazione delle regole di imparzialità, correttezza e di buona amministrazione cui la PA deve riferirsi nell'esercizio delle sue funzioni. Poiché l'accertamento diretto da parte del giudice ordinario dell'illegittimità dell'azione amministrativa è un elemento costitutivo della valutazione attinente la sussistenza del "danno ingiunto", la sentenza della Corte di Cassazione apre la strada alla possibilità per il cittadino di rivolgersi direttamente al giudice ordinario anche a prescindere dalla declaratoria di illegittimità del provvedimento da parte del giudice amministrativo, naturalmente nei casi in cui non sia prevista la giurisdizione piena ed esclusiva del secondo in base al D.L.vo n. 80/1998. La sentenza della Corte di Cassazione è suscettibile di possibile ed estese applicazioni anche nel campo della tutela degli interessi legittimi dei cittadini immigrati extracomunitari rispetto ad atti lesivi prodotti dalla Pubblica Amministrazione. Si pensi al caso del cittadino immigrato che si veda rifiutato il rinnovo del permesso di soggiorno ovvero che questo gli venga illegittimamente revocato e da questo atto degli uffici di polizia gli derivi un danno economico, quale la perdita del posto di lavoro precedentemente posseduto. Finora tale cittadino poteva soltanto chiedere l'annullamento del provvedimento di rifiuto/revoca del permesso di soggiorno al giudice amministrativo e, anche in caso di esito favorevole, magari dopo diversi anni, non aveva diritto ad alcuna forma di risarcimento. Oggi, a seguito della sentenza della Corte di Cassazione, potrebbe rivolgersi direttamente al giudice ordinario (civile) per chiedere il risarcimento dei danni in base alla nuova lettura dell'art. 2043 del Codice Civile, e l'eventuale esito favorevole implicherebbe anche la dichiarazione di illegittimità dell'atto amministrativo.

 

Sentenza della Corte costituzionale sulla illegittimita' costituzionale dell’art. 19, comma 2, lett. d) del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (3 Agosto 2000)

 

 

Agosto

 

La Corte Costituzionale estende il divieto di espulsione anche al marito convivente della donna in stato di gravidanza o che ha partorito da non oltre sei mesi. Dal ragionamento seguito dalla Corte si può ricavare un profilo di illegittimità costituzionale anche della norma che esclude dalla regolarizzazione in loco il genitore straniero naturale di minore regolarmente residente nel caso in cui il figlio sia di cittadinanza straniera. Con sentenza n. 376 del 12 luglio 2000, la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 19 comma 2 lett. d) del Testo Unico sull'immigrazione (D.Lgs. n. 286/98), nella parte in cui non estende il divieto di espulsione al marito convivente della donna in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi al parto. Il giudizio di legittimità costituzionale era stato promosso con ordinanza del Pretore di Termini Imerese a seguito del ricorso avverso l'espulsione decretata dal Prefetto di Palermo nei confronti di un cittadino albanese coniugato e convivente con una sua concittadina in stato di gravidanza. Nell'assumere la decisione, la Corte ha preso le mosse dalla particolare ratio delle norme che prevedono benefici a favore delle donne nel periodo immediatamente precedente ed in quello successivo al parto e cioè l'intento di tutelare non solo la salute della donna, ma anche il rapporto che in tale periodo necessariamente si svolge tra madre e figlio, con riferimento tanto alle esigenze biologiche quanto a quelle affettive e relazionali collegate allo sviluppo della personalità del bambino (sent. C. Cost. 1/1997). Di conseguenza, la norma in esame riporta all'esigenza di assicurare una speciale protezione alla famiglia e ai figli minori, in conformità alle previsioni costituzionali e alle disposizioni contenute in numerosi trattati internazionali ratificati dall'Italia, che configurano il diritto-dovere dei genitori di mantenere, educare ed assistere i figli, quale diritto fondamentale della persona e perciò spettante in via di principio anche agli stranieri (sent. C.Cost. n. 28/95, sent. n. 203/97). Proseguendo il proprio ragionamento, la Corte Costituzionale rileva che tale diritto-dovere di assistenza e tutela dei figli minori sussiste in capo ad entrambi i genitori e non solo alla madre in base ad un "principio di paritetica partecipazione di entrambi i coniugi alla cura e all'educazione della prole, senza distinzione o separazione di ruoli fra uomo e donna, ma con reciproca integrazione di essi" (sent. Corte Cost. n. 341/91). Pertanto, la Corte conclude che deve ritenersi illegittima la norma che non prevede un divieto di espulsione anche nei riguardi del coniuge convivente della donna incinta o che ha partorito da non oltre sei mesi, sempre che non sussistano motivi di ordine pubblico o di sicurezza nazionale. Alla luce del ragionamento sviluppato dai giudici costituzionali, altre norme del TU sull'immigrazione palesano un evidente difetto di legittimità costituzionale. Tra queste, va citato in particolare l'art. 30 comma 1 lett. d) del D.lgs. n. 286/98, nella parte in cui prevede un diritto soggettivo del genitore straniero, anche naturale, di un minore residente in Italia, di regolarizzare la propria presenza, mediante l'automatico acquisto di un permesso di soggiorno per motivi familiari, limitatamente ai casi del genitore di minore di cittadinanza italiana ed escludendosi tale beneficio per il genitore naturale di minore straniero. Se la ratio della norma era quella di attuare e soddisfare nella legislazione sull'immigrazione gli obblighi di tutela del minore e del suo diritto all'unità familiare derivanti dai principi costituzionali e dagli strumenti internazionali di tutela dei diritti fondamentali, tale obiettivo viene parzialmente vanificato dall'introduzione di un principio di discriminazione tra minori di cittadinanza italiana e non, che la Corte Costituzionale ritiene assolutamente illegittimo, per i motivi che abbiamo indicato. Il rilievo di incostituzionalità dell'art. 30. 1 lett. d) del TU per il principio discriminatorio in esso contenuto è tanto più fondato se consideriamo che già la Corte Costituzionale, nella vigenza della normativa precedente sull'immigrazione (leggi n. 943/86 e 39/90), aveva sanzionato come incostituzionale la norma che non prevedeva a favore del genitore straniero extracomunitario il diritto al soggiorno in Italia per motivi di coesione familiare, semprechè avesse potuto godere di normali condizioni di vita, per ricongiungersi al figlio considerato minore secondo la legislazione italiana, legalmente residente e convivente in Italia con l'altro genitore, ancorché solo more uxorio e non unito in matrimonio (sentenza n. 203/97, in "Guida del diritto", Il Sole-24 ore, 12 luglio 1997, n. 26, pp. 28-36, all. 10). Tale sentenza era stata pronunciata nell'ambito di un giudizio di legittimità costituzionale promosso dal TAR F.V.G. a seguito di un ricorso di una cittadina bulgara espulsa dall'Italia, nonostante la legale residenza in Italia di una figlia nata dalla convivenza more uxorio con l'altro genitore pure di cittadinanza bulgara e legalmente residente. Di conseguenza, la Corte Costituzionale ha già avuto modo di pronunciarsi sull'illegittimità costituzionale di una normativa sull'immigrazione che non consenta la regolarizzazione "in loco" ed automatica del genitore extracomunitario per ricongiungimento con il figlio minore pure extracomunitario regolarmente residente e convivente con l'altro genitore, sempre che il nucleo famigliare sia in grado di assicurare nel suo complesso normali condizioni di vita e di mantenimento. In conclusione, è del tutto evidente che presenta un profilo netto di illegittimità costituzionale la discriminazione operata dal legislatore a danno del genitore naturale del minore di cittadinanza straniera rispetto a quello di minore italiano, di cui all'art. 30 comma 1 lett. d) del TU.

 

La Corte Costituzionale dichiara legittima la rimessione in termini da parte del giudice di merito del ricorso tardivo avverso il provvedimento espulsivo qualora questo sia stato notificato omettendo la traduzione in lingua conosciuta dallo straniero destinatario. La Corte Costituzionale, con sentenza 8-16 giugno 2000, n. 198 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, 1.a Serie Speciale, 21.06.2000, n. 26) ha dichiarato infondata la questione di illegittimità costituzionale sollevata dal Pretore di Modena riguardo all'art. 13 c. 8 del D.lgs.. n. 286/98 nella parte in cui non consentirebbe la rimessione in termini del ricorso tardivo avverso il provvedimento espulsivo notificato allo straniero omettendo la traduzione in lingua a lui conosciuta. Nel motivare la sentenza, la Corte Costituzionale ha affermato che lo straniero presente nel territorio nazionale deve godere pienamente ed effettivamente del diritto alla difesa, costituzionalmente previsto all'art. 24, e che pertanto, gli atti della Pubblica Amministrazione destinati ad incidere sulla sua condizione giuridica debbono essere resi concretamente conoscibili, mediante traduzione nella lingua a lui nota ovvero in una delle lingue internazionalmente più diffuse, come prescritto dall'art. 13 del T.U. in merito ai provvedimenti espulsivi. In mancanza di detta traduzione, secondo la Corte lo "strumento di conoscibilità dell'atto espulsivo" viene messo in discussione e, conseguentemente, anche il termine perentorio per la sua ricorribilità (cinque giorni secondo il TU delle norme sull'immigrazione) può essere disapplicato dal giudice di merito che accerti, di volta in volta, che l'omessa traduzione abbia effettivamente influito sull'esercizio del diritto di difesa dello straniero, non consentendogli di presentare il ricorso nei termini prescritti. Ne consegue la possibilità, sancita dai principi generali del diritto, per il giudice di merito di rimettere in termini il ricorso tardivo, cioè eventualmente presentato oltre il termine di legge fissato in cinque giorni, senza che il giudice sia al contrario obbligato a dichiararne l'inammissibilità. Il pronunciamento della Corte Costituzionale è importante perché potrebbe consentire ai giudici di rimettere in termini e dichiarare ammissibili ricorsi avverso provvedimenti espulsivi, allorché i destinatari non abbiano potuto rispettare il termine di legge (di particolare brevità: cinque giorni) anche per situazioni analoghe a quella ora discussa, ad es. per caso fortuito, forza maggiore, ove non vi sia colpa addebitabile all'interessato, rendendo così meno restrittivo il dettato legislativo fissato dall'art. 13 del Tu così come modificato dal D.lgs. n. 113/99.

 

La Corte Costituzionale dichiara inammissibili o non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate da alcuni pretori in merito alle norme della legge sull'immigrazione relative agli strumenti di difesa avverso i provvedimenti espulsivi. Con sentenza n. 161 del 25/31.05.2000 (red. Guizzi), la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibili o non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dai pretori di Ancona, Padova, Palermo e dal TAR Toscana riguardo alle norme della legge sull'immigrazione (l. n. 40/98) e a quelle del precedente decreto-legge "Dini" n. 269/96 relative ai mezzi di impugnazione e difesa avverso i provvedimenti espulsivi. Riguardo alle censure sollevate dai pretori di Padova e Palermo e ai dubbi di incostituzionalità da loro sollevati dell'art. 13 commi 8 e 9 del D.lgs. n. 286/98 per i termini ritenuti eccessivamente brevi sia per l'impugnativa del provvedimento di espulsione, sia per la definizione del procedimento, la Corte Costituzionale ha evitato di assumere una posizione definitiva e di merito. Essa si è limitata infatti ad un giudizio di inammissibilità, considerando la questione priva di rilevanza "giacchè l'asserita brevità (del termine con presunta violazione del diritto costituzionale di difesa ex art. 24 ndr) ) non ha impedito l'esercizio del diritto e l'eventuale declaratoria di illegittimità non modificherebbe l'esito del giudizio". Il giudice costituzionale rileva infatti che non solo i provvedimenti espulsivi erano stati impugnati nei termini previsti, ma che nemmeno veniva indicato per quali ragioni la difesa doveva ritenersi carente in ragione del termine ritenuto eccessivamente breve per l'inoltro del reclamo. Si può tuttavia giungere indirettamente ad una valutazione "di merito" di legittimità costituzionale del termine di cinque giorni per l'impugnazione del provvedimento espulsivo, previsto dalla legge n. 40/98, considerando le valutazioni espresse dal giudice costituzionale nella medesima sentenza riguardo alle censure di illegittimità costituzionale sollevate dal TAR Toscana verso la norma del decreto-legge "Dini" n. 269/96 che limitava a soli sette giorni il termine per la ricorribilità dinanzi al giudice amministrativo del provvedimento espulsivo dello straniero. Qui il giudice costituzionale parte dalla considerazione che "per valutare la congruità di un termine in relazione al principio sancito dall'art. 24, occorre comparare non soltanto l'interesse di chi è onerato dal rispetto di esso, ma anche il generale interesse dell'ordinamento al celere compimento dell'attività processuale soggetta al termine di decadenza" e che "nel caso in specie la necessità di una sollecita definizione del procedimento di impugnazione risponde senza dubbio all'interesse generale di un razionale ed efficiente controllo dell'immigrazione da Paesi extracomunitari". La Corte Costituzionale rileva inoltre che la determinazione dei termini processuali rientra nella piena discrezionalità del legislatore, con il solo limite della ragionevolezza, che nel caso in specie non appare violato, sia per le considerazioni sopra svolte circa le funzioni generali di ordine pubblico che un termine breve di ricorribilità soddisfa, sia per le caratteristiche peculiari del procedimento in oggetto. Il giudice costituzionale non ritiene nemmeno fondate le censure sollevate dai pretori di Padova e Palermo nei confronti delle parti dell'art. 13 del dlg. n. 286/98 che non consentono di sospendere, in via cautelare, l'efficacia del provvedimento espulsivo impugnato. La Corte Costituzionale ritiene infatti che la tutela cautelare anticipatoria non sia necessaria, proprio per la brevità dei termini previsti dalla legge per la definizione del procedimento giudiziario di opposizione al provvedimento espulsivo dello straniero. Peraltro, la Corte Costituzionale non esclude ipotesi nelle quali il giudice possa legittimamente esercitare la tutela cautelare e sospendere dunque l'efficacia del decreto prefettizio espulsivo impugnato, qualora per ragioni obiettive il procedimento non possa concludersi nei dieci giorni fissati dalla legge (ad es. per legittimo impedimento del giudice, per sua astensione o ricusazione, ovvero per interruzione necessitata del provvedimento). Ciò in ragione del fatto che la mera proposizione del ricorso non impedisce l'esecutività dell'espulsione allo scadere dei quindici giorni successivi alla sua notifica , al contrario delle previsioni di caducazione dei provvedimenti impugnati in caso di mancato rispetto dei termini di decisione da parte del giudice in relazione alle misure cautelari sulla libertà personale nel procedimento penale. La sentenza della Corte Costituzionale, peraltro, evita di pronunciarsi sulla legittimità dell'adozione da parte del giudice civile di misure cautelari di sospensione del provvedimento espulsivo impugnato in ragione della pendenza di procedimenti giudiziari precedenti o contemporanei in relazione di pregiudizialità, ex art, 295 c.p.c. (si pensi ad esempio al caso dell'impugnazione del provvedimento espulsivo emanato nei confronti dello straniero che si sia trovato privo di permesso di soggiorno per la revoca di quello precedentemente in suo possesso ed avverso la quale egli abbia presentato ricorso al TAR in base a quanto previsto dall'art. 6 c. 10 d.lgs. n 286/98). Peraltro, sussiste già una ricca giurisprudenza favorevole alla possibilità per il giudice di esercitare in questi casi il potere cautelare (per tutte, ordinanza 18.09.1999 del Tribunale di Trieste, in "Diritto, Immigrazione e Cittadinanza", Franco Angeli, Milano, n. 1/2000, pp. 125-127).

 

 

 

13. La Corte europea dei diritti umani afferma che i governi europei non possono applicare automaticamente i criteri della Convenzione di Dublino in merito alle determinazione dell'unico paese responsabile dell'esame dell'istanza di asilo, senza considerare le possibili implicazioni contrarie al principio di "non-refoulement" di cui all'art. 3 della Convenzione europea per la tutela dei diritti dell'uomo. Con una sentenza emanata alla fine di marzo, la Corte europea di diritti dell'uomo di Strasburgo ha affermato che l'allontanamento di un richiedente asilo da uno Stato membro del Consiglio d'Europa in un paese dove potrebbe essere esposto a maltrattamenti viola la Convenzione europea sui diritti Umani, indipendentemente se i maltrattamenti vengano praticati dalle pubbliche autorità o dai cosiddetti agenti "non statali". La decisione non sarebbe una novità se non riguardasse un caso di allontanamento indiretto verso il paese di origine, nell'ambito dell'applicazione della Convenzione di Dublino sulla determinazione dell'unico paese all'interno dell'unione Europea responsabile dell'esame dell'istanza di asilo. La decisione della Corte infatti ha riguardato il caso di un cittadino srilankese che ha chiesto asilo nel Regno Unito dopo che la sua istanza di asilo era già stata rigettata in Germania. Il richiedente asilo aveva giustificato la riproposizione dell'istanza di asilo con la motivazione che il Regno Unito non fa distinzione tra agenti di persecuzione statali e non ai fini dell'interpretazione della nozione di rifugiato, al contrario della Germania, dove i richiedenti asilo che fuggono da persecuzioni nei paesi di origine non determinate da agenti statali non vengono riconosciuti quali rifugiati e corrono il rischio del rimpatrio. Le autorità del Regno Unito avevano deciso di non esaminare nel merito l'istanza dell'interessato, decidendo di rinviarlo in Germania in base agli impegni contenuti nella Convenzione di Dublino. La Corte europea non si è opposta al rinvio del richiedente asilo in Germania, ma solo in quanto il governo tedesco ha fornito precise garanzie che non avrebbe espulso l'interessato nello Sri Lanka. I giudici di Strasburgo tuttavia hanno espressamente ricordato che i governi non possono applicare automaticamente i meccanismi di trasferimento previsti dalla Convenzione di Dublino, senza tenere in debita considerazione le possibili implicazioni negative sul rispetto, che deve essere pieno ed assoluto, del principio di "non-refoulement" contenuto nell'art. 3 della Convenzione europea sui diritti dell'uomo, che vietando i trattamenti inumani e degradanti, è stata interpretata da una consolidata giurisprudenza come vietante pure l'allontanamento e/o l'espulsione di stranieri verso paesi ove tali trattamenti potrebbero verificarsi. L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati ha espresso piena soddisfazione per la decisione della Corte europea. In un comunicato, diffuso il 5 aprile scorso, Erika Feller, responsabile della sezione per i diritti dei rifugiati dell'UNHCR, ha affermato che "per la prima volta, una corte internazionale per i diritti umani conferma che il principio di non refoulement deve riguardare anche i "rimpatri indiretti" o "espulsioni a catena" che possono comportare situazioni di pericolo per gli interessati. Questa è stata da sempre la posizione sostenuta dall'UNHCR". Ma la sentenza della Corte europea è destinata ad incidere anche sulla formazione di una politica europea comune in materia di asilo, a partire dalla revisione orami prossima dei criteri e dei contenuti della Convenzione di Dublino. Una delle critiche che fin dall'inizio sono state mosse alla Convenzione è che , negando di fatto la possibilità per il richiedente asilo di scegliere in quale paese essere esaminato, si basa sull'assioma fittizio che essendo tutti i paesi dell'Unione Europea firmatari della Convenzione di Ginevra, essi applicano gli stessi criteri di interpretazione della nozione di rifugiato e forniscono le stesse garanzie. In realtà, come messo a nudo dalla vicenda esaminata dalla Corte di Strasburgo, la stessa definizione di rifugiato viene interpretata in maniera difforme tra i diversi paesi dell'Unione Europea, con particolare riguardo a questioni delicate come quella degli "agenti non statali" della persecuzione e dei differenti regimi complementari di protezione. Tali difformità nelle legislazioni nazionali in materia di asilo debbono quindi necessariamente condurre ad una valutazione del possibile rischio di non refoulement insito in ogni decisione di trasferimento conseguente all'applicazione della Convenzione di Dublino. Il testo della sentenza della Corte Europea dei diritti dell'Uomo può essere richiesto alla segreteria organizzativa dell'ASGI (e-mail: ledaz@tin.it ).

 

 

 

 

Impiegare immigrati clandestini non costituisce "favoreggiamento" (La Cassazione annulla una sentenza di condanna)

 

Articolo di Silvia Bucciarelli su un'ordinanza della Corte costituzionale relativa alla legittimita' costituzionale dell'espulsione dello straniero convivente con cittadino italiano (20 Novembre 2000)

 

Ordinanza n. 313/2000 della Corte Costituzionale relativa alla legittimita' costituzionale dell'espulsione dello straniero convivente con cittadino italiano (20 Novembre 2000)

 

 

 

2002

 

Con l'ordinanza n. 50 del 23 maggio 2002 il Tribunale Amministrativo Regionale dell'Emilia Romagna ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 32 del D. Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, nella parte in cui non prevede che, al compimento della maggiore età, il permesso di soggiorno possa essere rilasciato nei confronti dei minori stranieri sottoposti a tutela, ai sensi degli articoli 343 e seguenti del Codice civile, ma solamente al minore nei cui confronti sia stato disposto un affidamento ai sensi della legge 184/1983. Spetterà ora alla Corte Costituzionale pronunciarsi sulla questione. (briguz)

 

Il Tribunale di Vercelli ha sollevato d'ufficio la questione di legittimità costituzionale dell'art. 33, comma 2 bis, D. Lgs. 286/1998 nella parte in cui non prevede la competenza del Tribunale per i minorenni in ordine ai ricorsi contro i provvedimenti del Comitato per i minori stranieri (briguz)

 

Il Tribunale di La Spezia ha accolto il ricorso contro il provvedimento di espulsione ricevuto da una cittadina rumena, irregolarmente presente sul territorio italiano, la cui presenza era stata segnalata dal medico dell'ospedale presso il quale era stata ricoverata. Il Tribunale ha accolto il ricorso, giudicando illegittimo l'invio della segnalazione da parte del medico (d.lgs. 286/98, art. 35, comma 5°), considerando, inoltre, l'assenza di precedenti penali da parte della cittadina straniera e l'importanza della sua prestazione di assistenza familiare come "socialmente utile" .

 

La prima sezione penale della Corte di Cassazione , con la sentenza n. 6487, depositata in cancelleria il 16 febbraio 2002, ha annullato in parte la sentenza con cui la Corte di Appello di Napoli il 10 aprile 2001confermava la sentenza del Tribunale di Nola, con la quale era stato condannato un imprenditore campano per aver impiegato nove lavoratrici straniere prive di regolare permesso di soggiorno nel suo istituto geriatrico . Fonte: Sole 24 ore - Guida Normativa - 28 febbraio 2002

 

La Suprema Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, con la sentenza n. 2513/2002, ha accolto il ricorso di un cittadino bulgaro che aveva chiesto ai giudici di pronunciarsi sul provvedimento del Prefetto di Gorizia con cui gli veniva negata la revoca del decreto di espulsione emesso nei sui confronti.


Il Tribunale Amministrativo della Toscana, con la sentenza n.880/2002, ha accolto il ricorso avverso al diniego del rilascio del permesso di soggiorno per motivi di attesa occupazione presentato da un cittadino straniero titolare di un permesso per minore età al compimento della maggiore età, non sussistendo sul piano degli effetti giuridici alcuna apprezzabile differenza fra la posizione del minore non accompagnato affidato ad un tutore con provvedimento del giudice tutelare ed il minore destinatario del provvedimento di affidamento emesso dal Tribunale per i minorenni ex art. 2 e 4 della legge 184 del 1983 e ritenendo di nessun rilievo giuridico la circolare ministeriale 13.11.2000 n. 300/c/2000/785/P/12.229.28/I^ Div.


Il Tribunale Amministrativo Regionale del Piemonte, con la sentenza n. 952/2002, ha accolto il ricorso avverso al diniego del rilascio del permesso di soggiorno per motivi di attesa occupazione presentato da un cittadino straniero titolare di un permesso per minore età al compimento della maggiore età, alla luce dei principi di uguaglianza, proporzionalità e ragionevolezza, dettati dall’art. 3 della Costituzione e dell’art. 32 del suddetto d.lgs. n. 286 del 1998.

 

Il Tribunale di Trento ha accolto il ricorso congiunto presentato dalle cittadine straniere vittime di un provvedimento di espulsione del Prefetto a seguito delle perquisizioni nei giardini di Trento. Il giudice ha affermato che vanno riconosciuti i diritti inviolabili dell'uomo, sanciti dalla Costituzione italiana, rispetto alle esigenze di regolamentazione del flusso migratorio . Le straniere, pur irregolari, avevano intrapreso l'attività di assistenza domiciliare che le mette ora in grado di regolarizzare la propria posizione lavorativa e di residenza in Italia. L'espulsione, perciò, sarebbe stata un ingiustificato trattamento che avrebbe leso i loro diritti fondamentali .



Il Tribunale Amministrativo Regionale del Piemonte, con sentenza n.168/2002, ha accolto il ricorso avverso al rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro, presentato da un cittadino straniero.Il TAR ha ritenuto illegittimo il diniego di permesso di soggiorno opposto sulla sola base di una sentenza di condanna penale, non potendo il diniego derivare automaticamente dall’esistenza di una simile pronuncia, e occorrendo invece un’adeguata motivazione in ordine ai necessari presupposti di ordine e sicurezza pubblica, anche alla luce della condotta complessiva del soggetto successivamente alla commissione dei fatti penalmente rilevanti.


Il Tribunale Amministrativo del Friuli Venezia Giulia ha accolto il ricorso di un cittadino senegalese contro il diniego del rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro autonomo.La Questura di Trieste, secondo il giudice amministrativo, ha valutato in modo errato le capacità redittuali del cittadino straniero, commerciante ambulante, mancando di verificare eventuali altri mezzi di sostentamento e non prendendo in considerazione l’ultradecennale permanenza regolare in Italia dello straniero.

Il Tribunale Amministrativo del Veneto ha accolto il ricorso di un cittadino marocchino contro il diniego della concessione della cittadinanza italiana .Il giudice amministrativo non ha ritenuto fondante la ragione del diniego- condanna ex articolo 444 cpp- in quanto la sentenza pronunciata ex articolo 444 cpp (cosiddetto patteggiamento) non costituisce un accertamento compiuto dei fatti ovvero della colpevolezza dell’imputato.


Il Tribunale Amministrativo della Lombardia ha accolto il ricorso di un cittadino straniero contro il diniego della concessione della carta di soggiorno in quanto titolare nei cinque anni precedenti di un permesso di soggiorno per motivi di giustizia, non rinnovabile indeterminate volte..Il T.A.R. ha ricordato che, in base al Dlgs. 286/98, i requisiti per ottenere la carta di soggiorno sono una regolare permanenza in Italia per almeno cinque anni e il possesso di un permesso di soggiorno che consente un numero indeterminato di rinnovi solo al momento della richiesta di tale titolo di soggiorno.


Il Tribunale Amministrativo del Piemonte ha accolto il ricorso di un cittadino straniero, titolare di un permesso di soggiorno per minore età, in merito alla richiesta di rinnovo di titolo di soggiorno al compimento dei 18 anni, ribadendo l'illegittimità di ogni automatismo per la conversione di permesso rilasciato per minore età, né in caso di rinnovo né in caso di rifiuto per il semplice raggiungimento della maggiore età, ma ricordando il potere-dovere dell’Amministrazione di valutare la sussistenza dei requisiti per l’ottenimento di un titolo di soggiorno ai sensi del Dlgs. 286/98.Il T.A.R. ha ribadito, inoltre, che va considerata valida l'istanza di richiesta di permesso di soggiorno inviata tramite ufficiale giudiziario, affermando il dovere dell'Amministrazione a rispondere alla richiesta con provvedimento motivato.

 

Il TAR del Piemonte ha accolto il ricorso di un cittadino straniero rom contro il diniego di rinnovo del permesso di soggiorno. Il TAR ha annullato il provvedimento in quanto il Prefetto aveva omesso di considerare la presenza di un'offerta di lavoro per lo straniero, depositata in Prefettura prima dell'adozione del decreto di rigetto e non aveva provveduto a compiere una valutazione complessiva della situazione di fatto e di diritto del ricorrente, avendo limitato l'indagine al solo reddito fiscalmente assoggettabile, senza tenere in considerazione anche la situazione familiare e l'esistenza di altre fonti legittime di sostentamento

 

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Toscana ha accolto la domanda incidentale di sospensione contro il decreto di rimpatrio emesso dal Comitato per i Minori Stranieri presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri avverso un minore straniero non accompagnato. In allegato

 

Il Tribunale per i Minorenni di Firenze - sezione civile - ha emanato una sentenza con cui autorizza la permanenza in Italia di una cittadina straniera per il periodo di un anno a decorrere dalla comunicazione del provvedimento visti gli artt. 31 L. 286/98, al fine di garantire assistenza dei figli minori in Italia. In allegato

 

Con provvedimento del xxx. Il Giudice Monocratico del Tribunale di Genova dr. Martinelli ha annullato il decreto di espulsione di Reggane Bouchaib (appello pubblicato su ASGI News n. 2). In precedenza lo stesso Giudice aveva accolto l'istanza di sospensiva del decreto di espulsione, presentata contestualmente al deposito del ricorso, in quanto il cittadino marocchino espulso eraa potuto rientrare in Italia prima della scadenza del termine di 30 giorni dalla notifica e contestuale esecuzione dell'espulsione, in quanto convocato dalla Procura per essere sentito come testimone

 

*** Il Comune di Milano è stato condannato per discriminazione nei confronti degli immigrati.Con una sentenza emessa dalla prima sezione civile, il Tribunale della città ha definito «discriminatorio» il sistema di assegnazione degli alloggi pubblici. È la prima decisone di questo tipo in Italia, la prima volta che una pubblica amministrazione viene condannata ai sensi degli articoli del testo unico sull'immigrazione che riguardano le «discriminazioni per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi».