il manifesto - 10 Maggio 2005
Una scienza neutra per migranti assimilati e scontenti
Pubblicato dal Mulino il terzo volume del progetto «Stranieri in Italia» avviato dall'Istituto Cattaneo. Nata con l'intento di «sprovincializzare» l'analisi dei movimenti migratori nel nostro paese, la ricerca si propone la costruzione di un paradigma «normale» rispetto alle «ideologie» che hanno caratterizzato la discussione pubblica
Ma è questa tensione verso una «scienza neutra» che riduce i migranti a un problema di «integrazione» in una società omogenea e esente da conflitti. Mentre vengono relegate in un secondo piano le soggettività espresse dei migranti che chiedono una innovazione profonda del concetto di cittadinanza

SANDRO MEZZADRA e MAURIZIO RICCIARDI
Da poco uscito per la casa editrice il Mulino, il libro a cura di Tiziana Caponio e Asher Colombo, Migrazioni globali, integrazioni locali (pp. 330, € 18, 50) è un'ottima occasione per fare il punto sui risultati di un'ambiziosa operazione editoriale e scientifica, avviata nel 2002 nel quadro delle attività dell'Istituto Cattaneo di Bologna. Migrazioni globali, integrazioni locali è infatti il terzo volume della collana «Stranieri in Italia», che si propone di presentare con cadenza annuale una selezione delle ricerche empiriche svolte sull'immigrazione nel nostro paese. La selezione, come sempre, è tutt'altro che neutra: ed è anzi, del tutto legittimamente, funzionale alla costruzione di un paradigma scientifico «normale» di analisi dei movimenti migratori. Il punto di partenza dell'intera operazione, coordinata da Asher Colombo e Giuseppe Sciortino, è che di fronte a un fenomeno per molti aspetti «nuovo» si sconti in Italia un ritardo rispetto agli standard internazionali della ricerca scientifica sulle migrazioni, e che colmare questo ritardo sia indispensabile anche per contribuire a rinnovare un «discorso pubblico» che si è venuto svolgendo sotto l'ipoteca di opposte retoriche ideologiche. «Consolidare un repertorio, sia pur minimo, di schemi interpretativi condivisi e di conoscenze di base sul fenomeno di cui si parla» equivale così a istituire uno spazio scientifico neutrale, in cui le grandi tensioni che hanno contraddistinto la «politicizzazione» del discorso sulle migrazioni negli ultimi quindici anni possano stemperarsi, facendo subentrare una disincantata presa d'atto dell'«oggettività» del fenomeno.

La scienza e la doxa

Ci sarebbe ovviamente molto da dire a proposito di questo modo di intendere la «scienza», che viene costituendosi a partire da una duplice demarcazione polemica nei confronti di opposte retoriche ideologiche. Si potrebbe ad esempio, sviluppando alcune indicazioni di Pierre Bourdieu, mettere in discussione la pretesa di totale separazione tra il piano della scienza e il piano della doxa, individuando in questa pretesa la radice di una specifica ideologia della scienza. Queste considerazioni non sminuiscono la rilevanza di un tentativo di costruire un paradigma scientifico «normale», che si tratta semmai di discutere nel merito. I tre volumi della collana finora pubblicati sono in ogni caso contributi di notevole rilievo, che hanno tra l'altro il merito non secondario di «sprovincializzare» il discorso sociologico italiano attraverso un riferimento costante al dibattito internazionale sul tema. Estremamente significativi, da questo punto di vista, sono il saggio di Douglas S. Massey (La ricerca sulle migrazioni nel XXI secolo), pubblicato nel primo volume della serie (Assimilati ed esclusi, a cura di A. Colombo e G. Sciortino, Il Mulino), e quello di Ewa Morawska (Immigrati di ieri e di oggi in Europa e fuori: insediamento e integrazione) pubblicato in Migrazioni globali, integrazioni locali. Ma anche indipendentemente da questi contributi, che documentano alcuni degli sviluppi più interessanti della sociologia delle migrazioni degli ultimi anni, è la stessa qualità delle ricerche empiriche italiane presentate a mostrare quanto sia cresciuta nel nostro paese una «comunità scientifica» capace di dialogare produttivamente con gli sviluppi del dibattito internazionale sul tema. La scelta, innovativa nel panorama editoriale e scientifico italiano, di selezionare gli interventi attraverso un call for papers annuale e un meccanismo di valutazione «cieca» (in cui a una serie di esperti si chiede cioè di esprimere un giudizio sulle ricerche proposte senza che ne siano noti autore e provenienza «accademica»), è infine da salutare con favore e dovrebbe garantire elevati standard all'intera impresa.

Ciò detto, alcune considerazioni critiche, riferite essenzialmente all'impostazione generale del progetto, si impongono. Risulta in primo luogo discutibile il ruolo che viene assegnato al quadro istituzionale all'interno del paradigma scientifico proposto, a cui pare corrispondere l'idea di una sociologia che costruisce il suo oggetto di indagine espellendo dal suo ordine discorsivo il diritto e la politica. Si badi: non è che non siano indagati gli effetti delle politiche messe in atto dalle istituzioni locali; anzi, saggi come quello di Francesca Campomori su Prato, Vicenza e Caserta analizzano puntualmente le politiche di diverse amministrazioni locali e le condizioni che ne motivano le differenze. Ciò che viene abbondantemente trascurato è però il peso determinante del quadro stabilito dalla legge Bossi-Fini in Italia, che, in modo piuttosto sorprendente, non viene mai nominata nelle introduzioni ai tre volumi. Di più: essa non compare neppure nell'introduzione a un altro volume, specificamente dedicato alla sanatoria dell'autunno 2002 (I sommersi e i sanati. Le regolarizzazioni degli immigrati in Italia, a cura di M. Barbagli, A. Colombo e G. Sciortino, Il Mulino, 2004), che, pur non facendo parte della collana in questione, è comunque pienamente ascrivibile all'intento politico-scientifico che la motiva. Stupisce così che di una regolarizzazione che ha avuto un modello normativo assai peculiare, rivolgendosi ai datori di lavoro e non ai migranti, vengano rilevati soprattutto gli elementi di continuità con quelle precedenti e non il suo essere la mossa conclusiva e pressoché obbligata dell'introduzione del contratto di soggiorno per lavoro che è l'architrave del governo delle migrazioni previsto dalla legge Bossi-Fini.

Il punto è che la legge Bossi-Fini non è stata un effetto del provincialismo italiano, ma la specifica interpretazione di un modello di governo delle migrazioni che si sta rapidamente espandendo in Europa, tanto da essere continuamente richiamato nelle direttive europee e da comparire in filigrana nella stessa sanatoria in corso nella Spagna di Zapatero. Anche laddove, come accade in un volumetto di taglio efficacemente divulgativo pubblicato lo scorso anno da Colombo e Sciortino quasi a coronamento dell'impresa avviata con la collana «Stranieri in Italia» (Immigrati in Italia, Il Mulino, 2004), la legge Bossi-Fini è esplicitamente analizzata nel quadro di una ricostruzione delle politiche migratorie italiane degli ultimi decenni, quel che sembra emergere è l'idea che tale legge costituisca un mero incidente di percorso sulla via virtuosa che era stata tracciata dal governo di centro-sinistra nella seconda metà degli anni `90. Nell'intero discorso affiora così il fantasma benevolo della legge Turco-Napolitano, chiave di un processo di normalizzazione delle politiche migratorie che, nella prospettiva dei ricercatori dell'Istituto Cattaneo, dovrebbe corrispondere alla progressiva normalizzazione degli stessi movimenti migratori che interessano l'Italia. Un'immigrazione normale si intitola assai significativamente il secondo volume della serie, uscito nel 2003, quasi a riecheggiare il «paese normale» di d'alemiana memoria.

A noi pare che emergano qui le implicazioni maggiormente discutibili (si badi: maggiormente discutibili prima di tutto dal punto di vista «scientifico») del programma di costruzione di un paradigma scientifico «normale» di cui «Stranieri in Italia» intende essere la realizzazione. Il processo di normalizzazione, per dirla sinteticamente, non sembra limitarsi alle categorie teoriche e agli strumenti di indagine, ma investe l'oggetto stesso della ricerca, rimuovendone gli aspetti che, sia sul piano delle politiche di governo delle migrazioni sia sul piano dei movimenti migratori, resistono all'agognata immagine della «normalità». Scompaiono così elementi che caratterizzano in modo sempre più marcato in tutta Europa il governo normale delle migrazioni, come la detenzione amministrativa e la quotidiana brutalità delle espulsioni. Ma a essere relegati sullo sfondo sono anche le domande complesse, l'imprevedibilità e il disordine che caratterizzano l'esperienza migratoria contemporanea, che filtrano attraverso molte delle ricerche etnografiche presentate (per fare un solo esempio: nel bel saggio di Margherita Baldisseri sulle relazioni familiari nell'immigrazione delle peruviane a Firenze) ma che non sembrano elaborate sotto il profilo concettuale nel paradigma analitico proposto. Anche le ricerche che affrontano direttamente il problema delle condizioni lavorative dei migranti (anche qui per limitarci a due esempi: quella di Lorenza Maluccelli, Da prostitute a domestiche: storie di mercati «sommersi» e donne «in transizione», pubblicato nel primo volume, e quella di Sebastiano Ceschi sugli operai senegalesi nelle fabbriche della provincia di Bergamo, pubblicato nel terzo) portano alla luce condizioni di discriminazione e domande soggettive di mobilità che difficilmente si lasciano ricondurre all'immagine di una «immigrazione normale». L'impermeabilità delle condizioni del lavoro migrante a dinamiche di «integrazione» regolarmente dispiegate al di fuori dei territori della produzione pare essere del resto uno degli elementi strutturali del modello di governo delle migrazioni a cui si faceva cenno in precedenza parlando della legge Bossi-Fini.

Lo stesso saggio di Ewa Morawska precedentemente citato sembra poi riconoscere nel carattere strutturale della presenza di immigrati «irregolari» uno degli elementi fondamentali che segnano la differenza tra le migrazioni contemporanee in Europa e quelle di altri periodi storici. Sarebbe in questo senso interessante collegare questo aspetto dell'analisi svolta da Morawska a un altro punto del suo saggio, quello in cui l'attenzione si rivolge alle ripercussioni sulla condizione dei migranti del processo di «sovranazionalizzazione della cittadinanza» in atto in Europa. Questo processo, scrive Morawska, «privilegia chi è dentro o, più precisamente, alcuni degli insiders, quelli che possono dimostrare una piena appartenenza civico-politica ai paesi membri dell'Ue. La situazione degli outsiders insiders immigrati, provenienti dall'esterno dell'Unione europea, è differente». A noi sembra un punto davvero decisivo: quel che qui è riconosciuto è un processo di tendenziale stratificazione gerarchica dello spazio della cittadinanza europea, in cui la presenza di migranti irregolari finisce per segnare il limite estremo della produzione di una pluralità di status pienamente funzionale alla riarticolazione del mercato del lavoro all'insegna della tanto celebrata flessibilità.

L'effetto specchio

Le condizioni dei migranti, segnate da una strutturale instabilità dei diritti e della garanzie sul terreno del lavoro, dovrebbero poi trovare un risarcimento, lo si accennava, nell'integrazione nelle società di «insediamento». Non è certamente un caso che la ricerca sulle condizioni e sulle prospettive di integrazione dei migranti in Italia sia una costante di questa impresa scientifica, segnandone in qualche modo l'orizzonte «propositivo». Ancora una volta, tuttavia, si deve ricordare che la categoria di integrazione non è neutra, ma è piuttosto caricata di specifici contenuti storici e politici, così come all'atto pratico è possibile soltanto in forme giuridiche determinate. Vi è intanto da segnalare come il concetto di integrazione, certamente utile per analizzare specifiche politiche istituzionali o specifiche strategie di adattamento degli stessi migranti, quando viene assunto come guida di un'analisi complessiva del rapporto tra migrazioni e cittadinanza non pare sfuggire a un'implicazione affatto peculiare di quello che il sociologo algerino Abdelmalek Sayad definiva l'«effetto specchio» della condizione dei migranti: esso produce cioè, quasi per contrappasso, l'immagine di una «società di insediamento» compattamente unificata dai propri codici normativi, elidendo le crepe e le linee di frattura che ne segnano la struttura.

Se questo rilievo vale in generale per quel che concerne la categoria di integrazione, esso ci pare ancor più cruciale in una situazione come quella contemporanea, in cui i meccanismi integrativi sembrano girare a vuoto anche per una quota crescente di popolazione «autoctona». Si può forse generalizzare il discorso e avanzare la tesi che uno degli elementi maggiormente innovativi dei movimenti migratori contemporanei consista precisamente nel fatto che per la prima volta questi movimenti non si producono in una fase storica caratterizzata da un ciclo espansivo della cittadinanza. La definizione usata da Morawska per indicare la posizione dei migranti in Europa - insiders outsiders - può in realtà essere impiegata per descrivere, fatte salve tutte le differenze, una pluralità di posizioni soggettive che non riguardano soltanto i migranti. I dibattiti su flessibilità e precarizzazione del lavoro, letti dal punto di vista di una teoria della cittadinanza, ci sembrano muovere precisamente in questa direzione. Lungi dal poter funzionare da specchio di una pretesa normalità della società italiana ed europea, la condizione dei migranti ci parla oggi di un insieme di tensioni e di conflitti che, a partire dal terreno della mobilità, costituiscono lo sfondo della nostra esperienza quotidiana. Sono queste tensioni e questi conflitti ciò che non sembra trovare posto nella scienza «normale» proposta dai ricercatori dell'Istituto Cattaneo, interamente costruita sul paradigma dell'integrazione.