il manifesto - 30 Luglio 2003
Viaggio nelle vecchie e nuove povertà/2. Gli invisibili di Roma
Un piazzale per casa
Accampamento Tiburtina Uno spiazzo dietro lo scalo ferroviario: è l'ultima «abitazione» di circa duecento persone, tra rumeni e africani, che da un anno vagano alla ricerca di un tetto. Ogni volta che lo trovano vengono sbomberati
GIOVANNA BOURSIER
ROMA
Si entra scavalcando il muro che circonda la stazione Tiburtina. Si alza una delle grate che ci sono sopra e si passa. Da una parte hanno messo un vecchio frigo, dall'altra un pneumatico. A fare da gradini. Si arriva su un piazzale enorme di una desolazione quasi surreale. Oltre il muro corrono i treni e si stagliano i palazzoni della zona. Qui c'è solo una tettoia di metallo e una specie di casa sul fondo. Tutto proprietà delle ferrovie dello stato. Intorno immondizia, calcinacci e rottami. Poi compaiono esseri umani che sembrano sopravvissuti a chissà cosa: un'anziana che spinge un passeggino carico di bottiglie d'acqua, un bambino che prende a calci una bacinella, un ragazzo marocchino che sembra vecchio e chiama tutti «sorella e fratello» chiedendo sigarette. Lui e altri africani abitano «contro il muro da tempo», ci dice, e beve birra. «Mi ubriaco - aggiunge - per non pensare. Poi mi siedo e guardo di là, dove ci sono le case di chi le ha». Sono quasi le otto di sera quando arriva Ulis. E' un rom di trentacinque anni, rumeno di Craiova, da dove è scappato qualche anno fa con la famiglia. E' sfinito e muore di caldo. Su questo piazzale ci è arrivato sabato pomeriggio, insieme a un'ottantina di altri rom, uomini, donne e bambini, persino una neonata di otto giorni. Non sanno più dove andare. Per questo si sono aggiunti a chi, sul piazzale, già ci abitava. Tutti vagano per la città alla ricerca di un luogo dove stare. In verità Ulis e gli altri rom un posto l'avevano ma qualche giorno fa sono stati cacciati. «Sgomberati», dicono loro. Anche lì era proprietà delle ferrovie dello stato. Nel «vecchio campo» ci stavano da più di un anno. E' a poche centinaia di metri da qui, accanto a una discarica. Intorno un altro muro e un cancello, ora chiuso con catena e lucchetto. Ma si può vedere dentro: sotto delle specie di tettoie i rom avevano organizzato le loro misere case. I topi scorrazzano ovunque, schifosi e enormi, su quello che è rimasto: letti, cucine a gas, televisioni e una specie di bagno puzzolente. E giocattoli, vestiti, borse, scarpe, persino una bandiera italiana su un albero. Tutto abbandonato, come fossero fuggiti all'improvviso. Adesso davanti al cancello le ferrovie ci hanno messo le guardie della Sipro: «dobbiamo controllare che i rom non rientrino. Ci provano sempre. Ma come facevano a vivere lì? E' pieno di topi. Noi chiudiamo i buchi del muro con delle bottiglie perché se no escono in continuazione. Sul piazzale Ulis continua a raccontare: «Abbiamo dovuto lasciare tutto e non ci permettono di riprendercelo. E' strano. Come se fosse sequestrato. Eppure siamo persone regolari, con permessi di soggiorno. Certo il campo non era autorizzato. Ma nessuno è autorizzato quando prende un posto». Poi spiega che qualche giorno fa è arrivata la polizia: «Hanno detto che dovevamo andarcene. C'erano poliziotti, assistenti sociali e vigili. Sono venuti alle 6 del mattino e alle 9 era tutto finito. Ci hanno lasciati in mezzo alla strada». Tutti dicono di avere il permesso di soggiorno e che la polizia li ha controllati. Molti lavorano e Petresku si lamenta che adesso non può farlo: «faccio il muratore ma sono quattro giorni che non vado. Non so se mi terranno il posto. Molti di noi sono musicisti, suonano nella metro, altri idraulici o carpentieri, spesso in nero. Le donne chiedono l'elemosina. Ma come facciamo senza un campo? Senza acqua? Come facciamo con i bambini?».

«Ci avevano detto - continua Ulis - di stare tranquilli. Anche le associazioni e gli assistenti sociali ci avevano promesso un posto. Vi sistemiamo per un po' e poi il comune vi trova dove stare. Allora siamo usciti. Invece niente. Abbiamo aspettato nella piazzetta vicino per due giorni. Dormivamo sui cartoni. Poi sono venuti a dirci che non c'era un altro posto ma che potevano portarci in una casa di accoglienza. Era anche un bel nome e siamo andati. In via Assisi. Non ci hanno dato neanche un pezzo di pane. La mattina presto ci hanno detto di andare via. Potevamo tornare la sera. Si può stare solo qualche notte e di giorno in mezzo alla strada. Allora abbiamo deciso di non tornare e stare insieme per cercare una casa abbandonata. Siamo tornati sulla piazzetta, altri due giorni. Ma di notte è tornata la polizia. Abbiamo avuto davvero paura. Ci hanno insultati e volevano bruciare la nostra roba. Ci siamo dispersi e, quando se ne sono andati, ci siamo ritrovati. E alla fine ci siamo messi in una casa abbandonata dalle parti dell'ospedale Pertini». «Non davamo fastidio a nessuno - interviene Stefan - non c'era niente intorno. Era del Comune, ce lo avevano consigliato per non essere sgomberati. Ma anche questo era finto. Dopo due ore é venuta ancora la polizia. Ci hanno detto di andarcene e che non potevano aiutarci. Siamo di nuovo andati via. E siamo arrivati su questo piazzale».