il manifesto - 12 Gennaio 2003
Movimenti verso la libertà
Migranti e non solo Le tesi delle studioso francese alla prova delle diverse legislazioni europee sull'immigrazione che subordinano i diritti di cittadinanza al lavoro
SANDRO MEZZADRA

Chi volesse trovare un esempio concreto del raffinato discorso di Yann Moulier Boutang sull'«imbrigliamento» del lavoro, sulle «forme difformi» di regolazione del rapporto lavorativo e sull'effetto che esse hanno sulla condizione complessiva del lavoro e della cittadinanza, non ha da guardar lontano. Con limpida prosa il legislatore italiano, all'articolo 6 della legge 189/2002 (meglio nota come Bossi-Fini), ci offre questo esempio attraverso l'introduzione della figura giuridica del «contratto di soggiorno». Che cosa significhi per il migrante il sottile slittamento linguistico dal permesso al contratto di soggiorno lo spiegano egregiamente, tra gli altri, Alessandra Ballerini e Alessandro Benna nel loro Il muro invisibile. Immigrazione e Legge Bossi-Fini (Fratelli Frilli Editori): nella misura in cui la stipula del contratto di lavoro diviene esplicitamente condizione per l'ottenimento del permesso di soggiorno, lo status giuridico dell'immigrato è reso in tutto «dipendente dalla sussistenza del contratto di lavoro e quindi, in ultima analisi, dalla volontà del datore di lavoro».

Si badi: non è che le cose stessero molto diversamente con la precedente legge voluta dal centro-sinistra. Ma siccome i reazionari hanno spesso il pregio di parlar chiaro, ora è sancito dalla legge che esiste nel nostro paese una classe di uomini e donne per cui l'arendtiano «diritto ad avere diritti», e dunque un elemento per eccellenza pubblico, deriva da (ed è logicamente subordinato a) un contratto privato, quello di lavoro. Anziché funzionare come principio di «scioglimento» e di dinamizzazione delle relazioni sociali, secondo quanto da tempo immemorabile non si stanca di ripetere il discorso politico liberale, il contratto è qui appunto all'origine di una condizione di imbrigliamento. Non dovrebbe essere la cosa più facile del mondo, almeno formalmente, rinunciare a un posto di lavoro per cercarne un altro, in una società capitalistica? Dipende, per qualcuno significa contare i giorni in attesa del momento in cui uno zelante poliziotto può presentargli un deportation order.

Il libro di Moulier Boutang, che a buon diritto Franco Barchiesi definisce «monumentale», non è certo soltanto un libro sulle migrazioni. Tuttavia, proprio nell'indicare il rilievo cruciale dei movimenti migratori nella storia e nella struttura del capitalismo sta uno dei suoi aspetti più rilevanti. E' auspicabile che non solo la ricerca teorica, ma anche la pratica politica legata alla condizione dei migranti tragga profitto nel nostro paese dalla meritoria opera di traduzione intrapresa dalla manifestolibri. Moulier Boutang, infatti, offre sia al ricercatore sia all'attivista strumenti preziosi con cui rivolgere lo sguardo a quegli spazi di frontiera nei quali, come scrivono Stefano Galieni e Antonella Patete in un bel libro da poco pubblicato per le Edizioni Città Aperta (Frontiera Italia), «l'adrenalina è alta e la vita scorre turbinosa»: lungi dall'essere teatro di vicende marginali, questi spazi, al pari dei centri di detenzione per migranti in attesa di espulsione, sono veri e propri laboratori in cui viene quotidianamente fabbricata la filigrana della cittadinanza europea.

Ma non è tutto. Forse ancor più importante è l'enfasi posta nelle pagine di Dalla schiavitù al lavoro salariato sulla dimensione soggettiva della mobilità del lavoro. I migranti, che molti anche a sinistra continuano a considerare vittime inerti della «mobilitazione globale» del capitale neoliberista, emergono dall'analisi di Moulier Boutang come soggetti sociali a tutto tondo, protagonisti di una vicenda secolare, e nondimeno sempre segnata da caratteristiche peculiari che si tratta di volta in volta di porre in rilievo, di rifiuto del dispotismo e di contestazione di quella tentazione autoritaria permanente che accompagna come un basso continuo lo sviluppo del mercato del lavoro tra la rivoluzione industriale inglese, l'«età liberale» e il capitalismo di welfare novecentesco.

«Migranti e rifugiati stanno ormai facendo saltare in tutto il mondo le barriere territoriali e sociali»: con queste parole si apre un prezioso volume collettivo uscito un paio di mesi fa in Germania (Die Globalisierung des Migrationsregimes. Zur neuen Einwanderungspolitik in Europa, Assoziation A, ordinabile attraverso il sito www.scwarzerisse.de), che, riprendendo esplicitamente le tesi di Yann Moulier Boutang, apporta un primo contributo al grande compito di tracciare una cartografia «globale» dei movimenti migratori contemporanei che valorizzi la loro dimensione soggettiva.

Più in generale, in ogni caso, è opportuno segnalare che negli ultimi tempi è andato crescendo a livello internazionale il numero sia dei ricercatori sia degli aggregati militanti (dai tedeschi di Kanak Attak ai francesi del Mouvement d'Immigration et Banlieu, dal network transnazionale NoBorder alle reti di attivisti che lavorano attorno alla cintura della maquilladora, al confine tra Messico e Stati uniti, o che si battono contro i centri di detenzione in Australia) che utilizzano con diversi accenti la formula, in buona misura derivata dalle analisi di Moulier Boutang, dell'«autonomia delle migrazioni». Sia chiaro: questa formula non intende porre in secondo piano le cause «oggettive» che continuano ad agire all'origine dei movimenti migratori, né proporre un'immagine estetizzante della condizione dei migranti.

E' ovvio che non si possono comprendere le migrazioni contemporanee senza tenere conto di guerre e miserie, di carestie e dispotismi sociali e politici, così come la soggettività dei migranti non può essere ricostruita prescindendo dalla sofferenza, dalla paura e dagli stigmi che ne segnano il profilo: chi parla di una autonomia delle migrazioni non si sogna minimamente di negarlo. E tuttavia, nel porre l'accento sui comportamenti autonomi delle donne e degli uomini che delle migrazioni sono protagonisti, evidenzia da quali potentissime tensioni, da quali istanze materiali e da quali complesse trame simboliche sia attraversato lo spazio sociale in cui la condizione del migrante prende forma. Ricordando al tempo stess
o come «la defezione anonima, collettiva, individuale» delle moltitudini in fuga di cui parla Yann Moulier Boutang ci racconti qualcosa di fondamentale sulla libertà, e ci sfidi anzi quotidianamente a sottrarre questo prezioso concetto alle esauste retoriche dominanti.