il manifesto - 12 Gennaio 2003
Corpi prigionieri per legge
Esce finalmente in Italia «Dalla schiavitù al lavoro salariato», la monumentale opera dello studioso francese Yann Moulier Boutang. Un lungo e ambizioso lavoro storico che mette al centro dell'analisi la produzione normativa volta al controllo delle figure sociali interessate dal processo capitalistico
FRANCO BARCHIESI
Il senso generale di un'opera assai complessa come Dalla schiavitù al lavoro salariato (Manifestolibri, pp. 717, € 49) di Yann Moulier Boutang, finalmente tradotta in italiano, si può cogliere a partire dal sottotitolo dell'edizione originale: «economia storica del proletariato imbrigliato». Economia storica è, infatti, un'espressione particolarmente adeguata a rendere conto del progetto epistemologico dell'autore. Da questo punto di vista lo scopo del libro è né più né meno che tracciare i lineamenti di un ripensamento complessivo dell'economia politica marxiana (o, nelle parole dell'autore, di «restituire la politica» all'economia marxiana) a partire dalle forme normative e istituzionali attraverso cui, in un percorso secolare che in larga parte predata l'origine stessa del capitalismo, si è andato costituendo il rapporto di «lavoro dipendente». Il compito è svolto da Moulier Boutang attraverso una serie impressionante di excursus che ad una padronanza eccezionale dei termini del dibattito teorico combina una ricerca la cui vastità di orizzonti temporali e diversità di casi trattati rimangono ineguagliate. La genesi del rapporto capitalistico di lavoro è infatti affrontata attraverso un'indagine che si dipana, con rigore e coerenza espositiva, tra il XIV e la prima metà del XX secolo, prendendo in considerazione contesti estremamente diversificati come la formazione del mercato del lavoro salariato nell'Europa occidentale, la schiavitù nelle Americhe, le economie minerarie e di piantagione in Brasile, le migrazioni a contratto dei coolies, fino alla nascita dell'apartheid sudafricano. Nel corso di questa traiettoria, Moulier Boutang fissa alcuni punti di riferimento concettuali che marcano risultati innovativi, spesso sorprendenti. In questo senso, l'opera può ben meritare l'appellativo di «monumentale».

Allo stesso tempo, l'urgenza di questo lavoro di rinnovamento concettuale è dettata all'autore dalla consapevolezza di trovarsi di fronte a ciò che egli chiama un «nuovo continente» rimasto a lungo escluso dalle mappe ufficiali dell'ortodossia marxista variamente codificata. Lo scenario storico dell'accumulazione capitalistica si sviluppa nel libro secondo coordinate che sfidano consolidate versioni strutturaliste (o «esternaliste», per usare ancora le parole di Moulier Boutang). Queste ultime avevano confinato la codificazione del rapporto di lavoro nel capitalismo al terreno della «sovrastruttura»: la garanzia formale di diritti e libertà individuali del lavoratore, con obblighi corrispondenti, svolgeva in questa prospettiva la funzione di rendere possibile e mascherare allo stesso tempo lo sfruttamento inerente a una compravendita di forza-lavoro che, rispetto a quei diritti e libertà, è antecedente e costitutiva nella sua dinamica essenzialmente economica di espropriazione e dominazione. Il lavoro salariato si presentava quindi, in quella luce, come la forma più compiuta, cumulativamente perfezionata e necessariamente universale di messa al lavoro del proletariato da parte del capitale.

Moulier Boutang ribalta completamente i termini della questione e mostra come il rapporto di lavoro salariato si sia storicamente costituito solamente come una delle fattispecie di lavoro dipendente attraverso cui il capitale, sin da molto prima della nascita del capitalismo, ha cercato di rispondere al proprio imperativo, e sfida, centrale: immobilizzare il corpo del proletario, legarlo alla relazione di lavoro, prevenirne la «fuga», la rottura del contratto, il rifiuto del lavoro. All'interno del capitalismo globale, altre forme di sfruttamento sono quindi coesistite in maniera spesso instabile e mutevole a fianco del lavoro salariato «libero» e il lavoro non libero si è spesso trovato in una condizione di complementarità con quest'ultimo nel vasto ambito di strategie miranti a disciplinare le classi subalterne.

Lungi dal rappresentare meri arcaismi, aggiustamenti transitori o residui di arretratezza in società «tradizionali» destinati ad essere spazzati via dalla «modernizzazione» - in nome della quale larga parte del riformismo novecentesco appoggiò vari regimi coloniali e neocoloniali - le forme di impiego servili, schiavistiche o di indentured labour hanno svolto un ruolo costituente nella traiettoria storica del capitalismo. E, suggerisce l'autore, continuano a svolgerlo nella misura in cui l'Occidente industrializzato combina l'affrancamento e i diritti di cittadinanza goduti da lavoratori autoctoni, quali condizioni per «fidelizzarl» a processi produttivi a crescente intensità di «capitale umano», con la permanenza di politiche di controllo burocratico dei flussi migratori, limitazione di status giuridico e di mobilità attraverso cui le nuove moltitudini migranti vengono, viceversa, legate al loro lavoro in occupazioni maggiormente vulnerabili, ricattabili e oppressive.

D'altronde, come mostra l'importante Citizen and Subject di Mahmood Mamdani (Princeton University Press, 1996), la coesistenza di «cittadinanza» e forme coercitive e non-democratiche di «soggezione» costituisce anche in ciò che continua ad essere riferito come il «sud» del mondo un tratto distintivo del capitalismo nel suo farsi globale.

La messa in discussione del concetto di «lavoro salariato» conduce Moulier Boutang ad una conclusione di grande rilevanza teorica e portata politica: il proletariato come soggetto astrattamente unitario dell'oppressione capitalistica inteso nella vulgata marxiana come presupposto della liberazione e orizzonte teleologico della resistenza tende a scomparire dall'orizzonte. Al suo posto troviamo molteplici soggettività che, a partire da condizioni affatto specifiche, esercitano un diritto di resistenza alla disciplina del lavoro sulla base, nondimeno, di una strategia comune e riscontrabile attraverso i secoli: la fuga.

La rilevanza della fuga, della diserzione, della rottura del contratto di lavoro, della migrazione come movimento collettivo di una forza-lavoro che si oppone a divenire proletariato, e comunque non vede in tale condizione la base di futuri progressi sociali, porta l'autore a una lettura del capitalismo che non ne mette più al centro il momento della dominazione, confinando la «resistenza» ad un ruolo puramente reattivo o di preparazione all'inverarsi di una qualche «necessità storica». Allo stesso tempo, ciò consente a Moulier Boutang di evitare di cadere nelle trappole contrapposte di assecondare una visione illuministica della libertà individuale o di idealizzare una dimensione di testimonianza «micro-storica» della comunità come residuo di forme sociali «estranee» al capitalismo. E' invece la traiettoria storica di quest'ultimo a uscire dal libro come accidentata, tortuosa, largamente incompleta nella misura in cui l'insorgenza antagonista della soggettività che si vuole mettere al lavoro determina l'emergere di nuove forme normative e contrattuali, una gerarchizzazione di diritti e nuove combinazioni tra lavoro libero e non libero, le quali sono però subito dopo investite dall'emergere di nuove forme di fuga, di rifiuto della moltitudine a lasciarsi codificare in quella che si vuole come un'ordinata divisione, ormai globale, del lavoro. E' proprio nel sottolineare il ruolo delle norme e delle istituzioni nella definizione di forme contrattuali di codificazione del diritto che Moulier Boutang segna un secondo, decisivo punto di separazione dalla tradizione del «marxismo strutturalista».

Il capitalismo non è, cioè, visto innanzitutto come l'estensione inarrestabile del mercato e della mercificazione universale delle condizioni di sussistenza tramutate in fattori produttivi, nei cui confronti il diritto e le istituzioni svolgono una funzione essenzialmente di codificazione, perpetuazione, mascheramento. Curiosamente, su una tale visione concordano tanto la versione leninista dell'estinzione dello stato, quanto la lettura keynesiana dello stato come correttivo all'inaffidabilità dei mercati, quanto l'approccio liberista dello «stato minimo» e della centralità del mercato autoregolato. Secondo Moulier Boutang, qui in aperta polemica con Karl Polanyi (in maniera simile all'analisi di Mark Granovetter del mercato capitalistico come profondamente «radicato», o embedded, nelle forme sociali), le istituzioni e le norme regolative non intervengono meramente ex post, a rimediare alle indesiderabili conseguenze sociali prodotte da un mercato «sregolato». Al contrario, le forme giuridiche e politiche di controllo sul lavoro riacquistano in questo libro una posizione centrale nel vasto armamentario di strategie attraverso cui il capitale cerca costantemente di venire a capo, potendo vantare solo successi parziali, del dilemma posto dalla «facoltà di fuga» del lavoratore.

Moulier Boutang sviluppa il suo ragionamento su questo punto a partire da una lettura assolutamente originale della tradizione metodologica del «neo-istituzionalismo», dell'economia delle convenzioni e dei costi di transazione così come sistematizzata, tra gli altri, da Oliver Williamson. Da questo ripensamento critico di correnti teoriche appartenenti al mainstream esce confermata una lettura del capitalismo - lontana da quella impersonale e ordinatrice dei suoi apologeti - come modo di produzione che, ben lungi dall'adottare metodi e strategie di impiego del lavoro «ottimali» dal punto di vista della razionalità e dell'efficienza, deve costantemente ricorrere a vincoli, barriere, limitazioni giuridicamente imposte per controllare «esternalità» indipendenti dal suo disegno. Come mostra attraverso un ricco repertorio di strategie quotidiane di sovversione sociale anche un recente e fondamentale libro di Ashwin Desai, We Are the Poors. Community Struggles. Post-apartheid South Africa (Monthly Review Press), la più resistente di queste «esternalità», a cui ogni lettura del capitalismo che non voglia relegare la soggettività della moltitudine ai margini deve fare riferimento, è data da una costante volontà di fuga animata da un mondo di socialità, affetti, sensualità semplicemente refrattari al paradigma del lavoro.