il manifesto - 06 Novembre 2002
Scrivere alla luce della luna
Una figlia di Iside, autobiografia di Nawal El Saadawi. Egiziana, laureata in medicina, accusata di apostasia, finisce sulla lista nera della jihad per il suo impegno contro le mutilazioni sessuali femminili e i divieti imposti alle donne dalla legge islamica. Il racconto teso e avvincente di un'educazione sentimentale segnata dall'amore per la parola della madre
DANIELA PADOAN
«Fu mia madre a insegnarmi a leggere e scrivere. Scrissi per prima la parola Nawal, il mio nome. Ne amavo la forma e il significato: il dono. Quel nome divenne parte di me. Immediatamente dopo imparai a scrivere il nome di mia madre, Zaynab, che accostavo al mio in modo da renderli inseparabili». Così inizia Una figlia di Iside, l'autobiografia che Nawal El Saadawi, intellettuale e femminista egiziana, scrive a 64 anni nell'esilio americano di Duke Forest, North Carolina, quasi a segnare che la narrazione della vita di una donna non può che inscriversi nella genealogia materna (Nutrimenti, trad. di Roberta Bricchetto). «Volevo più bene a lei che a mio padre, finché lui un giorno separò i nostri due nomi e al posto di Zaynab scrisse il proprio. Non riuscivo a spiegarmene la ragione. Quando glielo chiesi rispose: "E' la volontà di Dio". Era la prima volta che sentivo pronunciare la parola "Dio" e venni a sapere che viveva nei cieli. Ma ciò nonostante non riuscivo ad amare l'uomo che aveva separato il mio nome da quello di mia madre, che l'aveva cancellata, come se avesse cessato di esistere. Dentro di me, il responsabile di questo misfatto era diventato Dio». La cifra delle 300 pagine del libro è già tutta in questo attacco. Il nome come dono e il linguaggio come opera materna, interrotta con l'entrata in scena del padre. L'autorità della madre spodestata da un potere dispotico, in un racconto che sembra incarnare il momento in cui, secondo Lacan, con l'accettazione del nome del padre, il bambino divenuto soggetto entra contemporaneamente nell'ordine del simbolo e del linguaggio. Nawal El Saadawi vive in Egitto fino all'età di 60 anni. Laureata a pieni voti, viene nominata direttore del ministero della sanità con delega all'assistenza per le donne ma, nel `72, in seguito alla pubblicazione del libro Women and Sex in cui si schiera contro la circoncisione femminile, perde il lavoro. Nell'81 viene incarcerata senza processo per crimini contro lo stato, nel corso di una retata che coinvolge 1600 intellettuali. La prigionia dura un mese perché Sadat viene assassinato e Mubarak, appena eletto presidente, concede a tutti la grazia. Nel `92, viene messa sulla lista nera della jihad islamica. La sua condanna a morte è scandita dai muezzin dall'alto dei minareti. Non restandole che l'esilio, si trasferisce negli Usa con il marito. Di tutto questo, però, Una figlia di Iside non parla, se non per brevissimi cenni; la narrazione abbraccia l'infanzia e l'adolescenza - quasi che quel periodo sia la chiave di tutto ciò che accade in seguito - per fermarsi sulla soglia segnata dai due momenti che concludono l'«educazione sentimentale» di Nawal, facendosi passaggio per la vita adulta: la scoperta della scrittura come continuazione dell'opera materna e l'incontro con la politica.

«Se provo a ricordare che cosa è successo quando sono venuta al mondo tutto quello che so è che sono nata donna. Sentivo dire che Dio crea il maschio e la femmina, e che, molto prima che nascessi, le neonate venivano sepolte vive... Ma i miei erano tempi migliori. Quando veniva alla luce una bambina non le si faceva niente: semplicemente la vita si fermava». Tuttavia Nawal si rende presto conto che nascere segnata dalla differenza costituita dall'essere donna non vuol dire necessariamente un destino di subordinazione. Nel libro si sviluppa un orizzonte di libertà reso possibile dalla forza femminile, in cui sono centrali le relazioni con la madre, la nonna, le compagne di studi. Gli uomini - eccetto il padre schierato contro l'occupazione inglese, figura circonfusa da un alone eroico - sono poco più che comparse. La presenza maschile è invece immanente nell'ordine sociale, nelle prescrizioni e nei divieti religiosi, nelle angustie e nelle sofferenze volute da Dio. Il maschile è il fato, il destino, la punizione che si abbatte dal cielo, l'ordine divino. La vita visibile delle donne ruota attorno al matrimonio, parola avvolta da molti segreti. Ogni volta che risuona nell'aria, la zia divorziata impallidisce, la zia zitella torce le labbra in segno di disprezzo, sul viso della madre passa una tristezza impalpabile. «La nonna smetteva di bisbigliare e di girare i grani del rosario tra le dita, gli occhi si fissavano e assumevano il colore dell'acqua melmosa e stagnante... La sentivo mormorare: "Sia lode a Lui, perché solo Lui va lodato per le sofferenze che ci toccano"». Nawal comincia a capire che quella terza persona cui le donne della famiglia si riferiscono con «Lui» è Dio, colui dal quale provengono tutte le disgrazie che si abbattono sulla sua casa. E, per quanto piccola e incapace di comprendere il significato condiviso della parola «Dio», mentalmente l'associa a «disgrazia», a sua volta legata all'oscura parola «matrimonio».

Nonostante provenga da una famiglia di mentalità aperta, in cui il marito rispetta le opinioni della moglie e l'istruzione è tenuta in gran conto, a 6 anni una daya - l'ostetrica - le si avvicina con un rasoio e, dopo averla immobilizzata insieme ad altre tre donne della famiglia, le asporta il clitoride. Sarà una ferita dell'anima, insanabile. E' il destino di tutte le bambine, così come è normale che a 10 anni venga scelto per loro un marito. Il futuro sposo attende Nawal in salotto, seduto in poltrona accanto al padre, lo scacciamosche in mano, il fez rosso sulle ventitré. Nawal sta per entrare reggendo il vassoio del caffè, bambina travestita da donna dalle zie delle due famiglie, i denti sbiancati a forza col sale, gambe e braccia depilate col miele, guance e labbra truccate, il passo malfermo sui tacchi alti indossati per la prima volta. Ha già preso in considerazione l'ipotesi di tagliarsi le vene, di dare fuoco alla casa, e invece si ferma davanti allo specchio nel corridoio, si strofina via il rossetto, affonda i denti in una melanzana cruda che fa venire le macchie sui denti, avanza fin davanti al pretendente e gli rovescia addosso il vassoio, inciampando nel tappeto. Non sarà che il primo matrimonio mandato a monte. Nawal non vuole saperne di seguire il destino della madre, cacciata da scuola dal padre a bastonate e data in sposa a un uomo di sedici anni più vecchio, che aveva incontrato solo sul letto nuziale, dove si era lasciata ingravidare del primo figlio senza nemmeno togliersi i vestiti o guardarlo. «Anno dopo anno, nell'oscurità della notte, mia madre restò incinta dieci volte e diede alla luce nove bambini. Subì un aborto con il decimo, prima di raggiungere il trentesimo anno di età, e il tutto senza aver mai provato ciò che viene definito "piacere sessuale". Poi morì, era ancora giovane, stringendo la mia mano nella sua, con gli occhi di bambina color miele che mi guardavano con meraviglia».

Nawal, incoraggiata dalla madre riesce a iscriversi alla Scuola Superiore Femminile Helwan, dove spicca tra le allieve migliori. A 17 anni, in occasione dei festeggiamenti per la Eid Al-Hajira, le viene chiesto di tenere un discorso sulla vita di Maometto. Fino al giorno prima non ha fatto che pregare Dio perché le faccia terminare le mestruazioni, di modo che l'offesa del sangue non la colpisca proprio in quel frangente, vietandole di citare i versi del Corano. Il flusso si ferma e Nawal, dritta come un fuso, inizia a declamare il discorso con un tono simile a quello di suo padre. Quando conclude pronunciando il nome di Allah l'Onnipotente, la voce vibrante di sacro fervore, nel salone rimbombano gli applausi. Inizia così ad addentrarsi, affascinata, in quell'ordine simbolico fatto di assoluti, di universali, che vuole condurre il tutto a Uno. «Nella mia mente la letteratura araba cominciò a legarsi all'Islam. Il credo religioso, insieme all'amore per mio padre, divenne parte dei miei sentimenti più radicati. Non so come, ma mi dimenticai dell'infanzia. Da bambina dubbiosa della giustizia di Dio mi trasformai in una ragazza profondamente religiosa... Iniziai così, con il passo sicuro di mio padre, la discesa verso un credo assoluto, diventando un modello di pietà e virtù morali per le altre ragazze». Ma alla fine le domande della bambina riprendono il sopravvento sovvertendo la realtà data, e la scrittura, che si presenta irruente e necessaria, diventa riunione alla madre. E' proprio la scrittura a far sì che l'influenza del padre, creduta in quel momento più significativa, si stemperi. Da allora sarà sempre figlia di Zaynab e, simbolicamente, di Iside, la dea luna che ha impersonato in una recita scolastica e che ha costituito la sua prima apparizione nel mondo. Le parole che Noot dice a Iside prima di morire, le resteranno impresse come cifra dell'esistenza femminile: «Figlia mia, tu che erediterai il trono dopo la mia morte, governerai con giustizia e clemenza e non dipenderai dal sacro potere per esercitare la tua autorità».

L'altro passaggio che, parallelamente, fa da soglia all'ingresso nella vita adulta, è la partecipazione al Cairo, il 14 novembre 1951, alla cosiddetta «manifestazione silenziosa» che fu una delle ultime spallate contro il dominio coloniale inglese. In quell'occasione Nawal incontra l'uomo di cui si innamora, colui che, chiamandola tra la folla, le restituisce il nome. «Di nuovo quel nome, ma adesso mi arrivava alle orecchie con un suono diverso... Era davvero il mio nome? E perché riecheggiava così nell'universo? Perché aveva un suono nuovo?» L'autobiografia termina con queste parole, con il nome nato a una vita nel mondo, con quell'esistenza pubblica che sola, secondo Hannah Arendt, racchiude l'apparizione della libertà, resa possibile, però, in virtù dell'autorizzazione materna e della relazione d'amore con l'altro.

Se, in Una figlia di Iside, il succedersi dei ricordi segue il corso accidentato della memoria, in un qui americano visitato da momenti del passato - immagini, suoni, colori, resi preziosi dalla distanza dell'esilio - il lettore percorre parallelamente un'altra biografia narrata dalle foto in bianco e nero. La prima ritrae Nawal a due mesi, i grandi occhi già curiosi del mondo; nel `56 con la madre a Giza; nel `70 all'inaugurazione dell'Associazione delle scrittrici egiziane, nell'82 nello Yemen con Arafat; nel `96 all'università dell'Illinois dove riceve il dottorato ad honorem, l'espressione commossa, il tocco posato sulla criniera leonina ormai candida. In quel profilo che sembra racchiudere infinite emozioni è impressa l'impronta di un'intera esistenza, e forse anche quell'albero solitario davanti alla sua casa di Giza: «Un giorno aprii la finestra: l'albero solitario non c'era più. Era arrivata una ruspa e lo aveva sradicato... Al disopra di un muro si erge il minareto di una nuova moschea, immersa nel biancore delle luci al neon. Sul muro opposto era cresciuta un'insegna di McDonald's... Mi abituai a tenere chiuse finestre e imposte di giorno e di notte, ma il frastuono e le luci pulsanti non smettevano di attraversarmi il corpo, mescolati all'odore di hamburger, al rimbombo della discoteca e alle grida: "Allah è il grandissimo... Venite alla preghiera." Durante quelle dolorose notti insonni mi chiedevo se Allah e McDonald's non avessero stretto un patto per allontanare il sonno che mi pesava sulle palpebre e mandarmi via dal posto in cui vivevo».