il manifesto - 30 Marzo 2002
Il griot che inventò il cinema
Incontro con Mansour Sora Wade, che ha vinto il festival
del cinema africano con «Il prezzo del perdono», Senegal
M. CO.
Dopo Karmen Gei, un altro film ha conquistato
il pubblico con la forza dell'immagine, e non è un caso se proprio Gai
Ramaka ha apprezzato il primo lungometraggio del suo connazionale Sora
Wade, che riprende tutta una tradizione senegalese da Samb Makharam a
Djibril Diop Mambety e che si basa su una narrazione barocca. Le prix
du pardon, in concorso a Milano dove ha vinto il primo premio, è stato
proiettato al cinema Farnese, alla presenza del regista. Un film di grande
forza visiva e di grande impatto che ha avuto una lunga storia, il regista
ha impiegato sette anni a realizzarlo, per motivi di finanziamento e di
produzione. Racconta di un triangolo amoroso e mortale tra una donna,
Maxoye, e due amici/nemici, Mbanick e Yatma, che sembra nascere dalla
notte dei tempi e perpetuarsi all'infinito. Come è nata l'idea del film?
Si tratta in realtà di un libero adattamento del romanzo Le prix du
pardon di Mbissane Ngom, uno scrittore senegalese originario di un
villaggio di pescatori a sud di Dakar. Il film è ambientato proprio in
questo villaggio e la storia è ispirata a una leggenda del luogo. Nel
film però ho introdotto due personaggi che non esistevano nel romanzo:
il vecchio griot e il figlio, ed è proprio dal punto di vista del bambino,
che poi diventerà a sua volta un griot, che è narrata tutta la storia.
Un altro elemento che è stato aggiunto, per trasmettere l'idea della leggenda,
è quello dell'uso dei proverbi che i vecchi del villaggio si scambiano
tra loro e che sono un po' una metafora del film stesso.
La musica ha un ruolo fondamentale nel film. Come ha lavorato con i musicisti?
Wasis Diop, che è un grande musicista e che ha lavorato per molti film
africani, ha scritto appositamente la musica per il film. Di Youssou N'Dour,
invece, ho deciso di prendere una canzone già scritta da lui: Maxoye,
che poi è diventato anche il nome della protagonista del film. Questa
canzone infatti, in cui si parla della notte di nozze di una donna di
cui solo tre persone sapranno se è vergine o no, era già molto vicina
alla storia, al triangolo amoroso tra Maxoye, Mbanick e Yatma.
Il film ha un forte impatto visivo, soprattutto grazie al lavoro sui colori.
Sì, ho cercato di lavorare sul romanzo con la più grande libertà formale,
e i colori rispondono a un gusto estetico ma anche ai personaggi: ogni
colore rimanda a qualcos'altro. Innanzitutto ci sono due tipi di tonalità
fondamentale del colore, uno utilizzato per tutta la parte iniziale in
cui il villaggio è avvolto dalla nebbia, e uno per la seconda parte in
cui il sole torna a splendere. Inoltre ogni personaggio è legato a un
colore in particolare. Il rosso, molto presente nella cultura animista,
è legato al maestro delle tradizioni, ma anche alla sensualità di Maxoye.
Il bianco è stato utilizzato soprattutto per la notte nuziale, come indice
di purezza, ma anche per la sequenza del vecchio saggio musulmano. Mentre
il griot e suo figlio sono i soli a indossare vestiti patchwork, perché
sono i guardiani della memoria e delle storie, che sono fatte appunto
di più trame, di più colori.
A proposito dell'elemento della nebbia, una sorta di maledizione che avvolge
il villaggio all'inizio del film, si ha l'impressione che diventi anch'essa
un personaggio...
La scelta di utilizzare l'immagine e la presenza della nebbia è legata
al fatto che si tratta di una storia immaginaria e dunque ho cercato di
trasporla in una forma altrettanto fantastica. Volevo dare forma a una
storia universale, anche se radicata nel mio universo culturale, anche
per lavorare sull'incontro tra le persone, tra universi differenti. Come
per la storia di Maxoye, non si può perseverare per sempre nell'odio,
bisogna saper andare avanti. Il mio film è legato all'Africa ma si allarga
anche alle altre cinematografie, ho cercato di mediare tra la mia cultura
e un soggetto universale. Prima di realizzare questo film, ho girato documentari
tv sul Senegal, per raccogliere le tradizioni orali, culturali, musicali
del mio paese.
Una traccia di questo interesse è nella sequenza della cerimonia centrale
del film...
Si tratta della cerimonia del Simb, una festa popolare molto importante
in Senegal e che è legata al personaggio leggendario di Peer Ndiaye, che
è anche un personaggio del film. Questa sequenza in effetti risale ai
miei ricordi di infanzia, quando ho partecipato al Simb, ma è anche un
momento centrale che permette a Maxoye di cambiare atteggiamento nei confronti
del suo secondo marito Yatma (interpretato da Hubert Koundé, interprete
di Metisse e La Haine di Mathieu Kassovitz).
Nel film ha un ruolo importante il rapporto tra padri e figli. Si tratta
anche di una questione di potere?
Sicuramente. All'inizio il villaggio è contro Mbanick, perché non vuole
continuare il potere e le conoscenze ancestrali del padre. Poi invece
si assume le sue responsabilità e diviene vittima dell'amico e rivale
Yatma proprio quando perde l'amuleto simbolo del potere. Il film riguarda
anche la trasmissione delle tradizioni e della cultura di padre in figlio.
Nel film ci sono anche degli inserti di ombre cinesi...
Ho scoperto il cinema letteralmente attraverso un buco, a Wakam, il mio
villaggio natale, in un cinema all'aperto. Con gli amici avevamo fatto
un buco attraverso cui guardare tutti i film che venivano proiettati,
soprattutto i western, che allora andavano molto di moda e che noi bambini
ci divertivamo e interpretare... D'altra parte spesso ripeto che il cinema
è sempre esistito in Africa, attraverso i racconti del griot, che racconta
una storia interpretando tutti i personaggi.
Ci sono alcuni aspetti in comune tra il suo film e Karmen Gei:
si tratta di una nuova tendenza del cinema africano?
Il riferimento essenziale per il mio cinema, come per il cinema africano
in generale ma anche per il cinema tout court, è sicuramente Djibril Diop
Mambety, per la libertà con cui, ad esempio in Touki Bouki o in
Hyènes, ha saputo scegliere soggetti universali e adattarli con
il massimo della libertà estetica, sul piano dei colori, dell'immagine,
della musica. Cosa che ho ritrovato anche in Joseph Gai Ramaka. Anch'io
voglio continuare su questa strada, ed evitare di cadere nei clichés.
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