"Urlavano dalla stiva"
Parla uno dei dieci sopravvissuti al naufragio di Natale del 1996
nel canale di Sicilia
MASSIMO GIANNETTI -
PALERMO
Chandren cammina a piedi nudi sul pavimento di piastrelle
di marmo lucidissime del suo piccolo appartamento. Abita insieme
al fratello maggiore al secondo piano di un vecchio palazzo di
piazza Amendola, nel centro storico di Palermo, a due passi dal
"negozio del popolo", luogo di incontro della numerosa comunità
Tamil residente nel capoluogo siciliano. E' qui, in questo
piccolo locale in cui le immagini sacre sono appese ovunque tra
gli scaffali di generi alimentari, che alcuni ragazzi asiatici ci
avevano parlato di lui, della presenza in città di uno dei dieci
sopravvissuti al naufragio del 26 dicembre del 1996, nel canale
di Sicilia.
Incontrarlo non è stato facile, giacché Chandren, 30 anni -
ultimo di sette figli tutti immigrati in Europa - divide le sue
giornate lavorando ad ore, facendo il pendolare tra Palermo e
Terrasini, dove ogni mattina si reca per fare le pulizie
nell'abitazione di uno dei suoi tanti datori di lavoro. E'
tornato da poche settimane dallo Sri Lanka, dove è andato per
sposare la sua fidanzata, Shanthy, che non vedeva da più di
cinque anni, da quando lasciò clandestinamente la sua città,
Jaffna, per sfuggire alla persecuzione perché di etnia Tamil.
"Anche il mio matrimonio è stato un po' clandestino - racconta
Chandren offrendoci del tè e dell'acqua minerale - i miei
familiari non hanno voluto che tornassi a Jaffna perché troppo
rischioso. Così, d'accordo con i genitori della mia fidanzata, ci
siamo incontrati nella capitale, a Colombo, perché lì i controlli
dei militari sono meno severi e poi è più facile confondersi tra
i turisti. I miei genitori, che sono molto anziani, non sono
potuti venire, ma sono stati lo stesso contenti del mio
matrimonio. Adesso spero che mia moglia possa raggiungermi presto
qui a Palermo, forse potrà farlo tra qualche mese, ma il suo non
sarà un viaggio clandestino come il mio. Verrà in aereo,
regolarmente, non appena le daranno il permesso di soggiorno",
aggiunge Chandren sorridendo. Un sorriso che gli si spegne
lentamente sugli occhi quando gli chiediamo di raccontarci cosa
accadde la notte del naufragio. Prende tempo, come se volesse
dare un ordine a quei terribili momenti della notte dopo il
Natale di sei anni fa. E il primo pensiero va ai suoi amici, ai
suoi compagni di viaggio che non ce l'hanno fatta. "Come faccio a
dimenticarli? Io sono vivo, sono qua. Loro invece sono morti.
Abbiamo trascorso molte settimane insieme sulla Iohan. Ci siamo
persi nel momento del disastro, sembrava di essere sul Titanic,
ce l'ha presente le immagini del film? Ecco era così. Ricordo le
urla di chi era finito in mare, di quelli che stavano con me
sotto la stiva del peschereccio che affondava e battevano sul
portellone chiedendo aiuto. Non dimenticherò mai".
Erano in viaggio da diverse settimane, forse dodici, trasbordati
da una nave all'altra galleggiando su diversi mari, dalla Turchia
all'Egitto. "Con la Iohan siamo rimasti fermi diversi giorni in
mezzo al mare, aspettando il momento buono per tentare lo sbarco.
In certi momenti, quando c'era bel tempo e il cielo era chiaro,
vedevamo le montagne in lontananza, ma non sapevamo che fosse la
Sicilia. "Non sapevamo nemmeno che giorno fosse; che era Natale,
ce lo disse il comandante della Iohan". Era il 24 dicembre, due
giorni prima dell'incidente. Dalla terra ferma, sguarnita di
guardie costiere per via delle feste, era finalmente arrivato il
via libera per lo sbarco. I membri dell'equipaggio festeggiarono,
poi, ubriachi, alcuni cominciarono a litigare, forse per soldi. A
bordo della Iohan era salito anche il capitano del pescereccio
arrivato appositamente da Malta e con il quale gli immigrati
avrebbero dovuto fare l'ultimo tratto del viaggio.
"C'era brutto tempo - ricorda ancora Chandren - faceva freddo e
il mare era un inferno di onde, ma quando ci dissero che dovevamo
trasbordare sul ferry boat maltese nessuno di noi si oppose.
Anche perché avevamo una pistola puntata contro. A questo punto
pensammo che se tutto fosse filato liscio, il giorno seguente
saremmo arrivati in Italia, e invece..." Invece finì nel peggiore
dei modi: morirono quasi tutti, in 283, tra cingalesi, pakistani
e indiani, annegati in quel tratto di mare di nessuno, tra Malta
e la Sicilia, che ancora grida vendetta. In dieci si salvarono e
dio solo sa come.
"Sono un miracolato", ripete Chandren proseguendo il suo
racconto: io mi trovavo nella stiva insieme ad altre 150 persone.
Stretti l'uno contro l'altro. Non riuscivamo neanche a respirare.
A un certo punto il peschereccio cominciò a imbarcare acqua. Lo
dicemmo al comandante, che ci rispose di toglierla con le mani".
Il ferry boat maltese, per motivi che Chandren non sa spiegare,
cominciò a girare intorno alla Iohan sbattendogli contro.
Improvvisamente - prosegue - il peschereccio subì un guasto al
motore. La Iohan intanto si era allontanata. "Non so dove
andasse. Forse in Grecia, sulla nave c'erano rimasti molti dei
nostri compagni di viaggio, quelli che non erano riusciti a
entrare sul ferry boat troppo pieno". Dal peschereccio maltese in
avaria parte così l'Sos al comandante della Iohan, il quale,
sempre secondo il racconto di Chandren, fa marcia indietro per
dare soccorso. "Arrivò dopo un'ora, credo". Ma nel momento in cui
la Iohan stava per accostarsi, il nostro comandante riesce a far
ripartire il motore del fery boat". Ci fu una seconda collisione
che creò uno squarcio in una fiancata del pescereccio che
cominciò a riempirsi di acqua. Fu l'inizio della fine.
"Ognuno cercava di aggrapparsi a qualcosa. Io non so come ho
fatto a salvarmi, non lo so, davvero - dice Chandren con gli
occhi lucidi -. Ricordo solo che dalla stiva mi sono ritrovato
sulla piattaforma della barca mezza rovesciata da un lato. Le
onde erano di una tale violenza che facevano sobbalzare il
pescereccio scaravendandolo addosso alla Iohan. Così credo di
essere riuscito ad aggrapparmi a una finestra della nave. Quelli
che erano rimasti sulla Iohan avevano lanciato delle corde, due o
tre non di più. E tutti cercavamo di agguantarne una. Era un
inferno, non si vedeva nulla, si sentivano solo le grida...".
Riuscì ad agguantare una delle funi e a risalire la Iohan. Come
lui altre nove persone. Il peschereccio maltese si era intanto
rovesciato quasi completamente. Molti dei suoi compagni finiti in
mare erano stati già risucchiati dalle onde. Altri erano rimasti
imprigionati nella stiva del ferry boat, che di lì a poco
affonderà. "Io non l'ho visto affondare, non ho avuto il coraggio
di guardare indietro", conclude Chandren.
La Iohan, con i pochi superstiti a bordo, rimane altri dieci
minuti sul luogo della strage. Poi riparte alla volta della
Grecia. Il comandante, tal Yussef El Halal, libanese, arrestato
negli anni successivi in Francia, al processo iniziato l'altranno
a Siracusa, dirà che non c'era nient'altro da fare. Tanto erano
tutti morti.
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