Favole animate
sospese
tra due mondi
Alla Galleria Sales di Roma le opere di Avish
Khebrehzadeh, giovane iraniana costretta all'esilio che torna
alle radici della struttura narrativa persiana per poterci
raccontare
le sue storie. Dove, del rapporto tra occidente e islam,
suggerisce conflitti e contrasti in un'atmosfera onirica
ELENA DEL DRAGO
Camminando nello spazio della Galleria Sales di Roma si ha
l'impressione di avanzare nell'atmosfera magica di favole
lontane. E' di scena infatti Avish Khebrehzadeh, giovane artista
iraniana, poco più che trentenne, che è tornata alle radici della
struttura narrativa persiana per poterci raccontare le sue
storie, corali e solitarie (fino al 10 gennaio 2002, a cura di
Agnes Kohlmeyer). Ci sono carte alle pareti di grandi dimensioni,
che immediatamente comunicano un desiderio di estrema
semplificazione: dalla scelta del supporto, all'essenzialità del
segno. La carta è modesta, il colore tenue giallo-verde non è
altro che olio di oliva, il disegno è appena visibile.
Sono scene di sospensione, quella di un elefante tra gli alberi,
per esempio, quella di una piscina popolata da esseri il cui
movimento appare rallentato in attesa che avvenga qualcosa di
risolutivo, oppure, ancora, quella di una spiaggia movimentata
dal gioco di alcuni bambini. Tutto attorno c'è il mare: "che può
essere buono o cattivo, ma che comunque è sempre giusto e
affidabile", presente anche nei lavori di animazione. Avish
Khebrehzadeh, infatti, crea dai disegni delle sequenze animate,
con la stessa atmosfera rarefatta che contraddistingue i primi,
ma che permettono uno sviluppo della storia più articolato.
Protagonisti esseri indistinti, una marmotta oppure un cane, un
piccolo bambino oppure un orso marino, che arrivano con il mare e
nel mare spariscono alla fine. Sembrano offrirsi al nostro
sguardo per raccontare di una antica armonia tra gli uomini, gli
animali e la natura, la stessa riconciliazione atavica sognata
dalle fiabe persiane.
Ne "La storia di Laila e Madschnun" di Nizami, per esempio si
legge: "Nessuna delle bestie che ha come terreno di caccia la
steppa o il deserto ha mai minacciato il Madschnun, per quanto
tutti ne fossero sorpresi: gradualmente tutti gli animali si
erano abituati, sì, li attraeva. Lo fiutavano già da lontano,
volavano, accorrevano, trottavano, strisciavano: i cerchi con cui
lo attorniavano si facevano sempre più ristretti. Tra di essi vi
erano animali di tutte le specie e le dimensioni e nonostante
ciò, miracolo, non si mangiavano a vicenda e perdevano la paura
reciproca, quando questo caro sconosciuto si tratteneva in mezzo
a loro."
Ci parla anche di una auspicata accettazione della diversità
Avish Khebrehzadeh, costretta a lasciare la famiglia e gli
affetti in Iran, quando la rivoluzione islamica le aveva impedito
di continuare gli studi accademici e di poter dipingere. In
esilio a Washington, negli Stati Uniti, dopo un soggiorno
europeo, a Roma, continua ad essere divisa tra due luoghi in una
condizione di perenne straniamento. Così i piccoli esseri non
identificati che si muovono nei video di Avish Khebrehzadeh, sono
connotati da una forte insicurezza, dall'impossibilità di essere
accettati e dalla solitudine.
In "Itinerant" per esempio, la più cupa, forse, delle storie
video narrate nella mostra romana, un uomo trova uno di questi
esseri abbandonato su una spiaggia. Indeciso sul da farsi, lo
porta in una casa del paese, la casa di Mashti. Qui però questo
strano bambino che non somiglia a niente di conosciuto e non si
comporta come tutti gli altri, non viene capito. Si pensa che
forse sarebbe meglio riportarlo dove è stato trovato, ci si
domanda dove siano mai i suoi genitori. Poi effettivamente una
coppia arriva, forse a riprendersi questo piccolo essere, viene
loro offerta una tazza di tè, ma appena bevuta la bevanda, senza
ulteriori indugi, i due scompaiono. Non resta che tornare al mare
e affidarsi alla sua forza irrazionale.
I protagonisti di queste animazioni restano così in bilico tra la
realtà e un mondo interiore, spesso stridenti, e così facendo
l'artista suggerisce delicatamente conflitti non soltanto
psicologici, ma anche reali, come quello tra l'islam
fondamentalista e la civiltà occidentale (non a caso uno dei
protagonisti si chiama Eslam). Sono contrasti appena accennati,
delicatamente sfumati in un'atmosfera onirica, antitetici
rispetto al lavoro perentorio di un'altra artista iraniana,
Shirin Neshat, che da anni evoca la condizione femminile nel
mondo islamico, facendo ricorso a tutta la forza visiva dei
segni, immediatamente riconoscibili, del vecchio e nuovo Iran. Il
velo nero e le decorazioni ad hennè tracciate sulla pelle,
sguardi sottolineati dal trucco e una pistola, la delicatezza di
una femminilità minacciata dal potere islamico e sottolineata
dalla nitidezza degli scatti in bianco e nero: questo il
messaggio non equivocabile della Neshat.
Allo stesso modo il lavoro di Khebrehzadeh si differenzia da
quello di William Kentridge, al quale inevitabilmente viene
accostata da critici e curatori: i disegni animati dell'artista
sudafricano, infatti, seppure trasfigurati in un'atmosfera
surreale, parlano direttamente della situazione difficile del suo
paese alle prese con il passaggio a una situazione politica e
sociale post-apartheid. Con Avish Khebrehzadeh invece,
l'emarginazione non è connotata in una direzione: l'ambiguità non
soltanto del sesso, ma addirittura della specie che caratterizza
i protagonisti del suo lavoro, ci porta fuori dalle situazioni
reali più immediate, per suggerirne lievemente dinamiche
ancestrali.
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