Con le spalle
rivolte
al futuro
FEDERICO RAHOLA
La singolarità di Auschwitz è un dato che non può essere
acquisito come dogma incommensurabile. Occorre invece definirla,
questa unicità, e interrogarla. Perché la Shoah appare il luogo
di una partita aperta e decisiva sull'uso pubblico della storia,
sul qui e ora del discorso storico: costruirle un altare,
allontanandola dal percorso della modernità, può essere rischioso
quasi quanto è nefasto e volutamente colpevole l'atto ideologico
di relativizzarla. La prospettiva suggerita da Enzo Traverso
assume l'evento che ha lacerato per sempre l'umanità come un
"laboratorio privilegiato per studiare l'immenso potenziale di
violenza della modernità occidentale", paradigma della barbarie
del XX secolo. Ed è proprio l'immediata dimensione pubblica della
storia, il suo definirsi come un campo aperto di tensioni
attuali, a imporre di affermare la singolarità di Auschwitz come
"ipotesi", nella misura in cui ci aiuta a instaurare "una
dialettica feconda tra la memoria del passato e la critica del
presente." All'esigenza di far dialogare la memoria con una
critica del presente si può allora ricondurre la decostruzione
del mito di una "simbiosi ebraico-tedesca", elaborazione che si è
proiettata su tutto l'800 e sino a Weimar, ma che trovò ben pochi
sostenitori quando gli ebrei erano ancora vivi. Da qui prende le
mosse Gli ebrei e la Germania. Auschwitz e la "simbiosi
ebraico-tedesca" (Il Mulino, 1994), in cui Traverso - che
insegna scienze politiche all'università di Amiens - ricostruisce
la trama dell'assimilazione come un "monologo ebraico" segnato
dalla solitudine, guardando però al presente, al "lungo lavoro di
assimilazione a posteriori della cultura ebraico-tedesca
nella Germania di oggi", un lavoro che appare come "il travaglio
di un lutto senza fine, perché la perdita che lo ha generato è
definitiva e irrimediabile". Il suo ultimo libro è Le
totalitarisme. Le XXe siècle en débat (2001, in italiano a
febbraio per Bruno Mondadori). Traverso è stato a Genova in
occasione del convegno Totalitarismo, lager e modernità
- tre giornate organizzate dall'Ilsrec, inaugurate da Hans
Mommsen, Wolfgang Benz, Henry Friedlander e Aldo Natoli e alle
quali hanno partecipato, tra gli altri, Enzo Collotti, Liliana
Picciotto Fargion, Bruno Mantelli.Lei suggerisce un uso critico del concetto di totalitarismo,
categoria che dà spazio a paragoni assoluti, lasciando
"interagire" disinvoltamente nazismo e comunismo (operazione su
cui si alimenta il revisionismo di Nolte e Furet). Dobbiamo
uscire dalla "scatola" del totalitarismo per recuperare le
differenze e il significato dei regimi che hanno percorso il
'900? Il problema esiste soprattutto per gli storici, per chi
cioè non lavora solo con "idealtipi", ma indaga le singolarità,
la genesi e gli sbocchi degli eventi. Credo che il concetto di
totalitarismo sia tuttora di grande utilità per le scienze
politiche e per la filosofia politica, per definire le forme del
potere ed elaborare una tipologia dei regimi politici. Con la sua
miscela inedita di ideologia e terrore, rappresenta un fenomeno
storicamente nuovo, che non rientra nelle categorie del
dispotismo e della tirannide così come sono state formulate dal
pensiero politico classico, da Aristotele fino a Weber. Agli
storici invece pone un problema epistemologico: è possibile
riassumere eventi e fatti, con traiettorie che disegnano una loro
specifica trama di continuità, in una categoria generalizzante
che elimina ogni differenza? Alcuni presupposti del discorso
storico escono liquidati frettolosamente dall'ambiguità di un
concetto che vuole riassumere un secolo, suggerendo identità più
che comparazioni tra nazismo e comunismo sovietico: il
presupposto di coerenza, quello di durata, la stessa dimensione
ideologica. Non credo si possano schiacciare, nella formula
"totalitarismo", due esperienze così diverse, sacrificando
differenze che appaiono irriducibili, a partire innanzi tutto
dalle forme di violenza: da un lato una violenza
interna, di terrore/dominio sulla popolazione;
dall'altro una violenza proiettata verso l'esterno, su
chi non appartiene al "popolo", a una "comunità nazionale"
definita in termini biologici. Come suggerisce Kershaw, il regime
nazista e quello sovietico esprimono un rapporto alla razionalità
radicalmente differente: alla razionalità del piano di
modernizzazione sovietico, perseguito attraverso mezzi autoritari
e criminali che appaiono del tutto irrazionali, si contrappone
l'assoluta "irrazionalità" del disegno nazista di un
rimodellamento biologico dell'umanità, che ricorre invece a mezzi
tipici della razionalità strumentale moderna (Auschwitz come
fabbrica produttrice di cadaveri). Del resto, persino un liberale
lucido come Aron aveva riconosciuto questa differenza: se l'esito
dei gulag sovietici è il lavoro forzato, quello dei lager nazisti
è la camera a gas. I teorici del totalitarismo propongono un'interpretazione di
nazismo e comunismo fondata sull'interazione: l'uno come reazione
all'altro in una spirale di radicalizzazione inarrestabile. Questa interpretazione non è falsa, ma mi sembra
unilaterale, al limite fuorviante. Certo, il fascismo presenta
una dimensione antibolscevica e controrivoluzionaria, ma si
tratta solo di una delle sue componenti. Se inscriviamo questo
movimento interattivo e sincronico in una prospettiva di lunga
durata, si scoprono continuità molto più significative. Nel suo
sforzo di industrializzazione autoritaria, il comunismo sovietico
rielabora tratti dispotici che appartengono alla tradizione
dell'assolutismo zarista. E il nazismo, a sua volta, si inscrive
in una trama europea fatta di nazionalismo, antisemitismo,
razzismo e imperialismo che ha radici profondissime. La sua idea
di "spazio vitale" (Lebensraum), ad esempio, si colloca
nel solco di un'espansione imperialista che ha la sua matrice
nella visione ottocentesca del mondo extraeropeo come spazio
colonizzabile: l'idea dell'"estinzione delle razze inferiori",
della sottomissione/sterminio di una "sotto-umanità" come "legge"
della Storia, sono luoghi comuni già dell'imperialismo britannico
e francese, appartengono a una cultura satura di
socialdarwinismo, di scientismo, di eugenismo. Lo stesso
colonialismo tedesco aveva portato nel 1904 allo sterminio degli
herero nell'attuale Namibia, un episodio spesso dimenticato da
chi attribuisce la violenza sterminatrice del nazismo ad un
presunto modello "asiatico", al comunismo russo. L'appiattimento
sincronico sull'interazione tra bolscevismo e nazismo elude poi
un'altra influenza, generalmente rimossa dalle teorie classiche
del totalitarismo: quella del fascismo italiano, assunto fino al
1933 come modello da Hitler. Come andrebbe, dunque, utilizzato, il concetto di
totalitarismo? Il concetto di totalitarismo può e deve essere conservato
per indicare la cifra di un secolo in cui si è consumato un
naufragio del politico, inteso come un campo aperto al
conflitto, alla divisione del corpo sociale, all'alterità, ciò
che Hannah Arendt definisce come l'"infra": la pluralità degli
esseri umani. I regimi totalitari hanno cercato di spezzare
questo rapporto, annullando la società nello Stato. Non a caso i
totalitarismi sono figli della Grande Guerra, che fu il primo
gigantesco tentativo di statizzazione della società. Da questo
punto di vista, le letture del totalitarismo come fenomeno di
matrice ideologica (Popper e Talmon nel dopoguerra; Courtois,
Furet, Pipes e Malia oggi) sono davvero aberranti. L'idea
comunista definita da Marx prefigura l'estinzione dello Stato nel
corso dell'autoemancipazione della società. Il totalitarismo,
così come lo definivano Mussolini, Gentile e Schmitt era
esattamente il contrario: l'assorbimento della società civile
dentro lo Stato. Questo spiega perché negli anni Trenta dei
marxisti libertari come Serge e Marcuse fossero tra i più
coerenti teorici dell'antitotalitarismo. E' proprio questo richiamo a una direzione diacronica, che mette
in luce le continuità, l'incistamento nella modernità del nazismo
e della Shoah, a porre in questione il ricorso sistematico alla
parola totalitarismo... Oggi il concetto di totalitarismo è usato come "apologia
negativa" del liberalismo. La tendenza è quella di avallare
l'idea che la storia riprenda finalmente la sua strada su binari
normali dopo la parentesi delle tirannidi del '900. Le radici
occidentali del totalitarismo sono così completamente rimosse. A
ben vedere, il nazismo si fonda sui presupposti di ciò che
Norbert Elias definisce (attribuendogli però un segno positivo)
il "processo di civilizzazione": il monopolio statale dei mezzi
di coercizione (una violenza di regime), la razionalità
amministrativa e produttiva (lo sterminio burocratico e
industriale), l'autocontrollo delle pulsioni (la distruzione
pianificata e senza odio), la deresponsabilizzazione etica degli
attori sociali (la "banalità del male" di gente come Eichmann).
Lo stalinismo, dal canto suo, si vuole un difensore zelante della
"civilizzazione" e del "progresso", se si riducono questi
concetti alla loro dimensione puramente materiale. Se
interpretiamo il nazismo e lo stalinismo come figli dell'Europa
moderna, scopriamo l'altra faccia del processo di civilizzazione.
La violenza "totalitaria" si inscrive proprio in questo processo,
rivelandone una forma patologica. Usando un lessico
francofortese, si potrebbe dire che il nazismo disegna il
"processo di imbarbarimento" che accompagna dialetticamente
quello di civilizzazione. Auschwitz realizza la fusione del
razzismo e dell'antisemtismo con la prigione, la fabbrica,
l'amministrazione burocratico-razionale, la meccanizzazione e
l'industrializzazione dei dispositivi di messa a morte avviati
dalla ghigliottina e culminati nello sterminio di massa della
prima guerra mondiale. Per studiarla ci servono Foucault, Marx,
Weber, Arendt e anche Taylor. E' ovvio che la Germania nazista e
la Russia sovietica sono stati dei regimi "illiberali", negatori
delle libertà individuali e dello Stato di diritto, ma ciò non
toglie che l'Europa liberale dell'800 sia stata il laboratorio
storico delle violenze totalitarie. Proprio Arendt, ne "Le origini del totalitarismo", analizzando la
situazione dei profughi negli anni tra le due guerre definisce i
campi di internamento come un "surrogato di patria", l'unica
soluzione che il mondo ha saputo offrire agli apolidi. Trova in
queste parole la possibilità di far dialogare l'assoluto di
Auschwitz con il presente, con le "zones d'attente" e i centri di
permanenza temporanea per gli immigrati, i "nuovi apolidi"? L'intuizione di Arendt è forte, e in un certo senso
fondamentale per ciò che riguarda le conseguenze estreme della
non appartenenza, di chi ha perso il diritto di avere diritti, di
chi è "fuorilegge" perché la sua esistenza non è contemplata
dalla legge. Arendt sottolinea che l'apparizione di questi gruppi
di esseri umani incatalogabili per i criteri dello Stato-nazione
sia la premessa indispensabile della loro persecuzione, infine
del loro sterminio. Il processo di globalizzazione rende oggi
ancora più attuale questa riflessione. Ma occorre fare delle
distinzioni. Arendt lavorava su un materiale empirico piuttosto
limitato. La mia sensazione è che i profughi le appaiano
soprattutto come un'invenzione di Versailles. Denuncia con forza
i "massacri amministrativi" dell'imperialismo britannico, ma non
si rende conto che i primi campi di concentramento nascono in uno
scenario coloniale, a Cuba per mano degli spagnoli e in Sud
Africa, imposti dagli inglesi, per generalizzarsi poi alle
popolazioni civili europee con la I guerra mondiale. Tuttavia
sono in parte d'accordo con il senso della sua domanda. Ma la
dimensione delle zones d'attente, la condizione dei
sans papiers, dei clandestini, non può consentire una
lettura della nostra situazione politica, dell'Europa di
Schengen, come totalitaria. E questo anche per non banalizzare il
fascismo e il nazismo. Una matrice comune c'è, e per questo
ritengo indispensabile denunciare con forza l'esistenza di questi
luoghi, intervenire attraverso petizioni e manifestazioni che
diano visibilità ai sans papiers. Ma questa matrice
comune si inscrive in sistemi politici qualitativamente diversi.
Insomma non si tratta di assimilare questi centri di internamento
a Buchenwald o alla Kolyma, il che sarebbe assurdo, ma di dire
che dopo Buchenwald e la Kolyma la loro esistenza è assolutamente
inaccettabile. Non va dimenticato che i campi creati nella
Francia a fine anni Trenta per accogliere i rifugiati della
guerra civile spagnola divennero, durante la drôle de
guerre, dei campi di internamento per gli stranieri
irregolari, poi dei centri di smistamento per gli ebrei prima
della loro deportazione verso i lager. Negli ultimi anni, in risposta alla relativizzazione o alla
rimozione della storia e della voce dei testimoni imposte dal
revisionismo e dal negazionismo, si sono sviluppati due
atteggiamenti diversi nei confronti della memoria della Shoah:
una tesa a riscattare dall'oblio le parole dei sopravvissuti;
l'altra orientata verso un'analisi più specifica dei presupposti
storici del discorso di testimonianza. Banalizzando, da una parte
l'operazione di Spielberg, dall'altra quella, tra gli altri, di
Annette Wieviorka e, per certi versi, di Agamben. Lei come si
colloca? Un confronto tra Steven Spielberg e Annette Wiewiorka mi
sembra difficile. Il primo è il regista che ha più contribuito
alla reificazione della memoria di Auschwitz. Schindler's
List inscrive il genocidio degli ebrei nella memoria
collettiva come parte dell'immaginario hollywoodiano, sostituendo
la spettacolarizzazione e la condensazione emotiva alla coscienza
storica, la riflessione, la comprensione. La sua fondazione crea
poi un fenomeno nuovo: la testimonianza standardizzata,
serializzata e archiviata secondo i procedimenti della produzione
di massa. L'aura della memoria e la soggettività del testimone,
si potrebbe dire con Benjamin, sono così annullati dalla loro
"riproducibilità tecnica". Annette Wiewiorka è invece una storica
della memoria. I suoi lavori possono essere discussi ma meritano
la più grande attenzione. Rispetto ad Agamben, invece, e in
questo riprendo ancora la domanda precedente, credo che la
ricerca sulla dimensione biopolitica dei campi di concentramento
sviluppata in Homo sacer sia interessante. Il
totalitarismo è una politica dei corpi; implica un'umanità
ridotta a alla sua dimensione zoologica, fatta di esseri plasmati
come "materiali", di cui i campi sono illustrazione parossistica.
Molto più perplesso, al contrario, mi lascia il suo lavoro sulla
testimonianza e sulla memoria. In particolare, proprio nel
ricorso a Primo Levi e a I sommersi e i salvati: fare
del musulmano descritto da Levi il paradigma del testimone, per
dedurne l'impossibilità assoluta della testimonianza è cosa che
rischia di annullare la memoria come fenomeno storico e come
pezzo vivente del passato. E allora comprendo l'irritazione degli
ex deportati nei confronti di un libro come Quel che resta
di Auschwitz, e anche le critiche di Levi della Torre, di
Ginzburg o, più di recente, di Mesnard e Kahan (Giorgio
Agamben à l'épreuve d'Auschwitz). Credo che la dimensione del
lavoro storico sulla Shoah debba far dialogare le testimonianze,
la singolarità assoluta della memoria dei "salvati", con quella
sempre relativa della storia: un filo sottile e instabile tra
soggettività e lunghe durate, tra la tensione della memoria a
singolarizzare l'evento e quella della storia a
"razionalizzarlo", entrambe confrontate, per dirla con Kracauer,
a una "realtà irredenta". Di questo gli storici devono essere
consapevoli.
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