Bin Laden come Robin Hood
I
lavoratori musulmani che lavorano a Brescia non vogliono
credere che il miliardario saudita sia il mandante degli
attentati di New York. Su tutto prevale il sentimento
antiamericano - rinsaldato dai bombardamenti sull'Afghanistan
- e Osama diventa un eroe che combatte i ricchi e difende i
poveri del mondo MANUELA CARTOSIO - INVIATA A BRESCIA
" Bisognava demistificare Osama bin Laden e,
invece, la guerra l'ha fatto diventato l'eroe, il paladino dei
deboli, il vendicatore degli oppressi. E' un sentimento
diffuso tra gli immigrati, anche tra i non musulmani. Conosco
una ghanese, una cattolica che va a cantare i gospel in
chiesa, una che detesta i taleban dal profondo del cuore per
come trattano le donne. Però, quando si parla di bin Laden,
quasi quasi lo difende. Più gli americani lo accusano e gli
danno la caccia, più il suo mito cresce. Succede così perché
c'è diffidenza e risentimento verso gli Stati Uniti padroni
del mondo". Il senegalese Ibrahima Diallo, responsabile
dell'ufficio immigrati della Cgil, di bresciano non ha solo
preso l'accento, ma anche la ruvida sincerità. La realtà la
guarda in faccia anche quando è urtante o sgradevole, non
l'avvolge in tortuosi diplomatismi o mezza tinte. La
realtà è che un mese dopo la distruzione delle Torri
gemelle ha ancora ampio corso la menzogna dei "4 mila
ebrei che l'11 settembre erano stati avvisati di non andare al
lavoro". Ce la riprone, buttandoci nel più nero sconforto, il
pakistano Iqbal Mazhar, trent'anni, protagonista a Brescia
della bella lotta degli immigrati per il permesso di
soggiorno. L'ha letta sul suo giornale in urdu "e la stessa
cosa l'hanno scritta i quotidiani arabi, tutti quelli che
conosco lo sanno". Sì, purtroppo l'hanno scritta i giornali
arabi e al Jazeera ha diffuso la leggenda senza prenderne le
distanze, ma non è vera. Nel crollo sono morte centinaia di
ebrei e, aldilà della contabilità, bin Laden e il suo
portavoce hanno sostanzialmente rivendicato gli attentati, si
sono rallegrati per la strage. Secondo Iqbal quella di bin
Laden non era una rivendicazione, "ha detto che era contento
per reazione, perché gli americani avevano appena cominciato i
bombardamenti". Non serve a nulla ricordargli che quel
proclama bin Laden l'aveva registrato sicuramente prima
dell'inizio dei bombardamenti sull'Afghanistan. Iqbal non si
arrende neppure di fronte all'evidenza che i 19 dirottatori
kamikaze erano musulmani. "Avevano passaporti di cittadini
dell'Arabia saudita che non c'entrano nulla". Ma, allora, chi
è stato? "Io non lo so, ma per dire che è stato bin Laden ci
vogliono le prove. Se gli americani le hanno, dovevano portare
bin Laden di fronte a un tribunale internazionale. Se è stato
davvero lui è un criminale e io non voglio certo difenderlo, è
giusto che paghi. Ma la guerra non è la soluzione, gli
americani la fanno per continuare a comandare sul mondo e sul
petrolio e, quando bin Laden sarà morto, colpiranno altri
paesi. Comunque, se bin Laden è un terrorista, è una creatura
degli Stati uniti, prima era un loro grande amico".
Contro l'America
In una conversazione difficile (e non solo per ragioni di
lingua) Iqbal non dice mai esplicitamente di stare dalla parte
di bin Laden. Ripete più volte che dell'America lui non si
fida, "perché ha sempre preso in giro noi musulmani". Non ne
fa però una questione di religione, "anche tanti italiani non
sono d'accordo con la politica degli Stati uniti". Fosse stato
in Pakistan in queste settimane Iqbal non avrebbe manifestato
contro Musharraf. "E' stato costretto a schierarsi con gli
Stati Uniti, non poteva fare diversamente. La conseguenza è
che nel mio paese potrebbe scoppiare la guerra civile".
Critica l'Islam "troppo stretto e chiuso" dei taleban, per lui
le donne devono poter studiare e lavorare "però divise, senza
mescolarsi con gli uomini come succede qui da voi". Iqbal, che
è emigrato nove anni fa, progetta di tornare per la prima
volta in Pakistan prima del Ramadan. Ora che ha il permesso di
soggiorno può viaggiare e ha scritto a sua madre di
scegliergli una sposa di cui lui, al momento, non conosce
neppure il nome. La sposa resterà per un anno in Pakistan,
"poi quando avrò un lavoro sicuro la farò venire in Italia".
La moglie di Iqbal non andrà a lavorare fuori casa e "quando
gli amici suoneranno il campanello entreranno solo se ci sarò
io". Andrea Tortelli fa servizio civile all'Ufficio
immigrati della Cgil. E' contro la guerra, come tutti gli
immigrati che si rivolgono allo sportello, "ma su bin Laden
sono in minoranza". Cerca di convicerli che "è un criminale
reo confesso", ma non c'è niente da fare, "lo difendono come
una bandiera, uno che con i suoi miliardi pensa ai poveri". Si
impuntano, come Iqbal, sulle "prove che non ci sono", non
hanno gioito per la strage, "anzi ne ho visto tanti davvero
commossi", ma sono contrari alla politica degli Stati Uniti e
percepiscono bin Laden come "l'unico che ad essa si oppone".
E' così anche per i non musulmani, conferma Andrea, la
religione non spiega tutto. "E' la divisione tra chi ha il
potere e chi non ce l'ha, tra chi è ricco e chi è povero. Io
obietto che mettere la causa dei poveri nelle mani di un
miliardario terrorista non è una grande idea. Ma i miei
argomenti non fanno breccia".
Dopo i bombardamenti
Ibrahima Diallo è convinto che sia stata la guerra a
accendere i "sentimenti" filo bin Laden tra gli immigrati (non
ne sono altrettanto sicura). Da quando sono cominciati i
bombardamenti "la gente è cambiata da così a così". Subito
dopo gli attentati, oltre al dolore per i morti, "c'era paura
e preoccupazione per le conseguenze che ci sarebbero state
contro noi immigrati, per la caccia al musulmano". La guerra
ha cambiato tutto. Il "messaggio" di bin Laden era noto da
tempo, prima però faceva presa solo su esigue minoranze.
"Adesso trova rispondenza anche tra chi, fino a qualche
settimana fa, ignorava persino l'esistenza di bin Laden". Più
si allarga la guerra, più i musulmani e i poveri del mondo "si
schiereranno spontaneamente con bin Laden o con chi prenderà
il suo posto". Bin Laden, in questo senso, ha vinto la sua
battaglia anche se lo prenderanno: "ha seminato la paura e
l'angoscia in tutto l'occidente ed è divento un leader
riconosciuto tra i musulmani". Entra in ufficio un
marocchino che in una fabbrica di Brescia ci ha rimesso la
salute; intossicazione da piombo, deve fare la dialisi. E' uno
di quelli che bin Laden non l'aveva mai sentito nominare. Dice
che la "guerra non va bene, è pericolosa per tutti anche per
noi che stiamo qui". Non difende l'uomo che dalla caverna ha
dichiarato la guerra santa all'occidente, però da quella
registrazione una cosa gli è rimasta impressa: "ha detto che i
palestinesi hanno diritto a una loro terra e uno stato. E' una
cosa giusta e l'America che ha tanto potere avrebbe dovuto
risolvere da tempo il problema della Palestina". In
redazione a Milano troviamo una conferma a quel che abbiamo
raccolto a Brescia. L'algerino che fa il pony express dice che
bin Laden avrà pure i miliardi però "è troppo piccolo per aver
fatto tutto questo. E poi quel giorno a New York 4 mila ebrei
non si erano presentati al lavoro...". La fonte, questa volta,
è un giornale algerino. Segue analogo tentativo per ricondurre
alla ragione il nostro interlocutore che, allora, imbocca
l'altra strada: "un vero musulmano non può averlo fatto". E
all'obiezione che bin Laden, prima dell'11 settembre, aveva
rivendicato altri attentati, la replica è "allora è un pazzo".
Ma ci resta il forte dubbio che il nostro pony express abbia
detto così per troncare il discorso e non esporsi
oltre. Alla disperazione per la guerra oggi aggiungiamo
questo fardello di amarezza per i tanti che ci stanno vicini e
che, all'improvviso, scopriamo
lontani.
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