18 Ottobre 2001
 
 
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Razza, una bugia lunga tre secoli
La confutazione definita del paradigma della "razza" giunge insieme alla conferma molecolare, attraverso lo studio del Dna mitocondriale, dell'origine unica, recente e africana dell'Homo sapiens
GIANFRANCO BIONDI - OLGA RICKARDS


Al concetto di "razza" è stato riservato il destino piuttosto singolare di essere formalizzato addirittura prima che l'antropologia fisica nascesse come scienza autonoma verso la fine del XVIII secolo. Nell'atto di fondazione della moderna biologia, il Systema naturae pubblicato da Linneo nel 1735, l'umanità risultava già divisa in quattro varietà: europei, americani, asiatici e africani. Si può davvero ritenere quindi che quello della "razza" sia stato un paradigma che ci ha accompagnati, e ossessionati, per tre secoli e che non poteva rimanere estraneo all'attuale dibattito sull'origine della nostra specie. Anzi, uno dei modelli che hanno cercato di spiegare la formazione dell'uomo moderno gli ha fornito una nuova vitalità. Si tratta dell'ipotesi della continuità regionale che ha ipotizzato l'evoluzione parallela dei gruppi umani, nei diversi continenti del Vecchio Mondo, a partire da forme arcaiche di Homo fino ai sapiens attuali: ergaster in Africa, heidelbergensis e neanderthalensis in Europa, erectus in Asia. In un quadro siffatto, gli uomini antichi non si sarebbero evoluti in tante specie diverse solo grazie all'elevato flusso genico, o mescolamento, che avrebbe interessato le popolazioni locali che vivevano in regioni adiacenti. E così, il concetto di "razza" non solo è stato mantenuto come realtà concettuale dalla lunghezza della fase evolutiva che avrebbe portato alla nostra formazione, ma è diventato essenziale per garantire la coerenza logica interna dell'ipotesi stessa.
Sul versante opposto si sono collocati gli studi molecolari. All'inizio degli anni '70 del XX secolo Richard Lewontin, dell'università di Harvard, ha fornito una critica empirica molto solida al concetto di "razza", dimostrando l'impossibilità di suddividere l'umanità in categorie sistematiche sottospecifiche, perché la variabilità genetica all'interno delle singole popolazioni è molto più alta, circa l'85% dell'intera variazione che caratterizza l'uomo come specie, di quella che si riscontra tra popolazioni diverse, il rimanente 15%. (...)
Ma la definitiva confutazione della "razza" è giunta assieme alla conferma molecolare dell'origine unica, recente e africana dell'Homo sapiens. I circa 200.000 anni della divergenza genetica, e le poche decine di migliaia di anni di quella morfologica, non possono essere stati sufficienti per differenziare l'umanità in categorie separate, come gli antropologi hanno creduto per quasi tre secoli. Questo non vuol dire che le popolazioni non siano tra loro anche molto diverse biologicamente, ma semplicemente che i gruppi "razziali" classici non consentono di ricostruire la loro struttura filogenetica. Il punto centrale della questione sta qui: la suddivisione degli organismi viventi in diverse classi tassonomiche serve per evidenziare i loro rapporti di parentela, cioè quale sia il gruppo progenitore e quale l'erede, e proprio a questo fine la "razza" si è dimostrata inadeguata. Il concetto di "razza" biologica umana può al massimo consentirci di ricostruire la storia ecologica della nostra specie, mai la nostra evoluzione. Ecco perché possiamo affermare che le "razze" umane non esistono. L'unità degli uomini moderni, come ci hanno insegnato gli antropologi molecolari della California, è una realtà biologica (compatta, con le radici assai vicine nel tempo e collocate in terra africana) e non più il semplice desiderio politico di "visionari" sognatori egualitari. (...)
Le Americhe. Il passaggio di gruppi di sapiens asiatici dal Vecchio al Nuovo Mondo avvenne attraverso la via circumartica della Siberia e dell'Alaska. Durante l'ultima glaciazione (12.000-70.000 anni fa), un ponte naturale di terre emerse ha congiunto le due aree, divenendo un facile varco per l'accesso alle Americhe. Quella lingua di terra, lunga 1.500 km e chiamata Beringia, l'attuale stretto di Bering. (...) Tra i modelli recenti sul popolamento delle Americhe, quelli più accreditati sono due. Il primo, basato su dati biologici e linguistici, ha proposto tre ondate migratorie successive. La più antica, tra 15.000 e 30.000 anni fa, avrebbe dato origine a un gruppo di popolazioni molto diversificate, gli amerindi, e distribuite sulla gran parte del vastissimo territorio; la seconda, tra 10.000 e 15.000 anni fa, sarebbe stata alla base della formazione dei na-denè, i popoli dell'area nord occidentale degli Usa; l'ultima, tra 6.000 e 9.000 anni fa, avrebbe assicurato l'occupazione della parte più inospitale del continente, dove si è sviluppata la cultura aleutino-inuit. Per molti studiosi, la tripartizione mostrava il difetto di compattare (...) un fenomeno assai più complesso, il quale prevedeva che al posto della prima migrazione ci fossero stati addirittura tutta una serie di arrivi. (...) Altri scienziati hanno opposto il modello denominato "fuori dalla Beringia". In esso, la Beringia non è stata considerata solo una terra di ingresso, ma ha assunto un ruolo ben maggiore, perché proprio lì le popolazioni che avrebbero dato origine ai nativi americani si sarebbero stanziate a seguito di una singola migrazione, per poi andare incontro a un processo piuttosto spinto di diversificazione e infine partire per colonizzare l'intero paese. (...)
Douglas Wallace e i suoi colleghi di Atlanta, hanno studiato il Dna mitocondriale degli amerindi evidenziando quattro gruppi di linee fondatrici, detti aplotipi, tre dei quali (l'A, il C e il D) giunti in America tra 26.000 e 34.000 anni fa, mentre l'ultimo (il B) solo 12.000-15.000 anni fa. In seguito, gli stessi aplotipi sono stati trovati negli altri nativi americani, ma la loro età è risultata decisamente più giovane. Le linee A, C e D sono presenti anche nei Siberiani e ciò proverebbe che sono stati proprio i loro antenati a dare origine alla diffusione verso le nuove terre. L'aplotipo B invece deve essere stato portato necessariamente da popoli provenienti da una diversa area del continente asiatico. I dati relativi all'mtDna sembravano convalidare il modello dei popolamenti successivi, sebbene altri ricercatori abbiano interpretato le stesse evidenze a supporto di una singola migrazione. A favore di quest'ultima ipotesi sono giunti gli studi sul Dna del cromosoma Y, che hanno dimostrato la presenza di un aplotipo fondatore principale, forse unico, in tutte le popolazioni native americane. Esattamente quello che richiedeva il modello "fuori dalla Beringia". (...)
Il Pacifico. La prima colonizzazione di quelle che oggi si presentano come due isole continentali separate, l'Australia e la Nuova Guinea, avvenne 35.000 anni fa da parte di uomini moderni provenienti dal sud est asiatico. Da allora, e fino a 7.000-9.000 anni fa, l'espansione dei ghiacci nella parte boreale della terra causò l'abbassamento del livello del mare fino a scoprire un istmo capace di congiungere le due masse in un'unica area, alla quale fu dato il nome di Sahul. Tuttavia, la contrazione delle acque non fu mai tanto spinta da permettere il collegamento verso ovest con il supercontinente della Sonda, per raggiungere la piattaforma di Sahul, i sapiens dovettero attraversare circa 70 km di mare. (...)
Le datazioni con il radiocarbonio hanno fatto risalire il primo stanziamento umano nella Polinesia occidentale attorno a 3.500 anni fa e decretato esaurito il processo solo 2.500 anni più tardi, con il popolamento della Nuova Zelanda. In tal modo, la domanda relativa al "quando?" ha ottenuto una risposta certa e così il dibattito si è concentrato sulla provenienza degli antichi colonizzatori. L'attuale diffusione delle lingue austronesiane, dalle isole del sud est asiatico fino alla Melanesia e alla Polinesia, depone a favore dell'ipotesi secondo la quale i migranti dovevano servirsi di un simile idioma, la cui struttura è completamente diversa dal papua utilizzato dagli abitanti della Nuova Guinea, e pertanto il punto di origine dell'espansione dovrebbe essere ricercato proprio nell'arcipelago indonesiano. (...) Dal 1.000 al 1.600 a.C. la ceramica Lapita si diffuse per oltre 4.000 km, dalle isole dell'Ammiragliato fino a Samoa, senza lasciare altro che scarsissime testimonianze della sua presenza tra i papua. La tesi più accreditata è che i produttori lapita fossero degli agricoltori austronesiani originari delle isole dell'Asia sud orientale, i quali si sarebbero spinti verso la Melanesia occidentale, stabilendo dei contatti con le popolazioni papua che incontrarono lungo il cammino. Poi, in possesso di tecniche di navigazione abbastanza avanzate, avrebbero raggiunto le Figi intorno al 1.500 a.C. e, dopo una pausa, le isole polinesiane più orientali. La grande velocità con la quale questa cultura e le sue genti si sarebbero spostate dalla congestionata Melanesia agli spazi disabitati della Polinesia ha fatto sì che il modello fosse denominato "treno espresso per la Polinesia". Quel "treno" però, secondo altri, avrebbe trasportato non già gli agricoltori provenienti dall'Asia meridionale, bensì dalla Cina attraverso Taiwan. Un altro gruppo di studiosi ritiene che non sia affatto necessario ricorrere all'origine extra-Pacifico. Per essi la lingua austronesiana e la ceramica Lapita potrebbero essere null'altro che il prodotto di un'evoluzione culturale locale, della Nuova Guinea-Melanesia. (...)
Le conclusioni tratte dagli antropologi molecolari non hanno dato adito a dubbi: la maggior parte dell'mtDna polinesiano sarebbe giunta dal sud est asiatico, mentre assai modesto risulta il contributo dei popoli del Pacifico occidentale, forse solo "rimorchiato" dai fabbricatori della ceramica Lapita durante il viaggio ad est. Coerenti con questa interpretazione sono arrivate anche le analisi relative al Dna del cromosoma Y, secondo le quali ci sarebbero state due migrazioni indipendenti dal sud est dell'Asia, una verso Taiwan e l'altra verso la Polinesia attraverso le isole indonesiane.(...)
Il Vecchio Mondo. Per il continente africano, i dati mitocondriali hanno suggerito che quasi il 90% dell'attuale genoma si sia formato tra 60.000 e 80.000 anni fa e quindi che esso sarebbe lo stesso di quello posseduto dai colonizzatori dell'Eurasia. Solo la piccola frazione rimanente è risultata più antica, di un'epoca nella quale il genoma degli uomini era verosimilmente più variabile dell'attuale. Gli studi sulle popolazioni asiatiche sono ancora agli inizi e hanno permesso solo di osservare che le sequenze più comuni sono uguali a quelle trovate in America.
(...) Il lavoro fondamentale è quello del gruppo di Luigi Luca Cavalli-Sforza, il quale, costruendo una mappa sintetica della distribuzione delle frequenze geniche, ha messo in evidenza la presenza di variazioni geografiche clinali. La similarità di questa carta con quella della diffusione dell'agricoltura dal Vicino Oriente ha portato alla formulazione del modello del popolamento dell'Europa per espansione demica, che prevede la lenta migrazione di una popolazione "madre" neolitica, originaria della parte occidentale dell'Asia, verso il continente europeo. A determinare la necessità di occupare nuove terre sarebbe stato l'aumento demografico avviato dalla maggiore disponibilità di cibo, che avrebbe portato alla sostituzione completa, o almeno all'assimilazione, dei preesistenti gruppi di cacciatori-raccoglitori paleo/mesolitici. L'effetto sul pool genico degli europei sarebbe stato drammatico (...) Un modello alternativo ha previsto invece una minima intrusione di genti moderne dal Vicino Oriente. Per esso, i cacciatori-raccoglitori europei raggiunsero la fase della cultura neolitica indipendentemente, o a seguito di contatti commerciali con gli altri popoli, e pertanto il patrimonio genetico degli abitanti del continente non andò incontro a drastiche variazioni. Alcuni recentissimi studi sul Dna mitocondriale hanno convalidato questa seconda ipotesi. I tempi di divergenza di certe sequenze specifiche, che corrispondono a circa il 10% di tutte quelle identificate, hanno suggerito che il loro arrivo nel nostro continente sia da collocare durante il Paleolitico, tra 40.000 e 50.000 anni fa, e quindi a seguito della prima migrazione della nostra specie fuori dall'Africa: in definitiva lo "zoccolo antico" del nostro genoma. Altri aplotipi invece, circa il 70%, sono risultati decisamente più giovani, non andando oltre i 25.000 anni fa, un'epoca nella quale in Europa i ghiacci cominciarono a regredire. Solo l'ultimo 20% delle sequenze mitocondriali giunse nelle nostre contrade tra 6.000 e 10.000 anni fa, forse con gli agricoltori levantini. Nel complesso, i dati mitocondriali si sono dimostrati conformi all'ipotesi che la maggior parte degli europei moderni discenda dai sapiens migrati a nord, a seguito di numerose ondate, durante il Paleolitico superiore. C'è però anche l'indicazione di una successiva colonizzazione dal Medio Oriente, che potrebbe coincidere con la diffusione dell'agricoltura, il cui impatto sul pool genico europeo attuale sarebbe stato comunque scarso. E lo stesso scenario è stato disegnato
dagli studi sull'Y-Dna. La rianalisi dei marcatori classici ha evidenziato che solo pochi geni sostenevano inequivocabilmente il modello della diffusione demica, tanto da convincere Cavalli-Sforza che solo una piccola proporzione di agricoltori neolitici contribuì all'evoluzione della popolazione europea. E' evidente quindi che la trasformazione dell'economia di caccia e raccolta in quella basata sull'agricoltura deve essere avvenuta per diffusione tecnologica piuttosto che per sostituzione di popoli. Una volta in più le molecole ci hanno raccontato la "vera" storia.

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