L'orgoglio ferito dei musulmani
Preghiera affollata alla grande
moschea di Roma. Qui non si sentiamo proclami di guerra ma i
commenti amareggiati dei fedeli: la stampa occidentale non
distingue tra islam e terrorismo. "Se ci fosse la pace in
Palestina non ci sarebbe tutto questo". "I bimbi afghani non
hanno bisogno del dollaro dei bambini americani, ma di pace"
MARINA FORTI - ROMA
Non è alla grande moschea di Roma che
sentiremo proclami infiammatori o appelli a prendere le armi.
Non certo dai religiosi responsabili del maggiore luogo di
culto musulmano in Italia: anzi, l'Imam ieri ha scelto per la
sua predica di metà giornata una sura del Corano che parla
dell'importanza di conoscersi e comprendersi tra religioni
diverse. Ma neppure tra i fedeli che ieri hanno affollato la
grande moschea sentiamo appelli alla guerra. Sentiamo
amarezza, rabbia, questa sì: persone offese di sentirsi
descritte come "terroristi", e perché quelle bombe che cadono
sui poveri afghani suscitano un senso di
ingiustizia... Dopo la preghiera delle 13,30, la più
affollata, il mercatino che compare ogni venerdì sul viale
della Moschea si riempie. Chiedere un'opinione significa
suscitare un capannello (e di giornalisti che fanno domande ce
ne sono parecchi). "Il problema è che la stampa occidentale
non distingue, fa di terrorismo e islam la stessa cosa",
sbotta Mohamad, che è tunisino e a Roma fa il cuoco:
"L'occidente fa la guerra a noi musulmani tout court, come
civiltà. Dobbiamo tornare a parlare delle crociate?". Ci
spostiamo per chiedere l'opinione di un signore che si
presenta come Saf, è di origine palestinese e fa il
commerciante: "Ho un profondo dispiacere per quello che è
successo negli Stati uniti. E' molto grave. Ma dobbiamo
meditare: l'ingiustizia porta a sfoghi violenti. La sofferenza
del mondo arabo, soprattutto dei palestinesi e degli iracheni,
produce atti disperati". Non lo dice per giustificare il
terrorismo, precisa, ma "dobbiamo sapere perché succede: gli
Usa hanno sempre addossato ai palestinesi la colpa di non
volere la pace. Ma sono gli israeliani che hanno le armi".
Mohamad rincara: "Il più forte è rispettato, questa è la
logica del mondo. L'israeliano che è andato a sparare alla
moschea di Hebron hanno detto che era un pazzo, non un
terrorista". "Non è un problema di religione, è politico.
Se c'era la pace tra Israele e Palestina tutto questo non
succedeva", dice uno giovane (niente nomi). Un compagno
rincara: "Ci dispiace perché non è giusto ammazzare gente
innocente", e si riferisce alle seimila persone perite nelle
Twin Towers di New York: "Ma il problema è la pace. Gli
americani parlano tanto di diritti umani ma cosa dicono dei
palestinesi che muoiono ogni giorno?". Un signore dalla
barba brizzolata mostra la copertina di un settimanale
italiano: sulla foto di un manifestante arabo scrive
"Quest'uomo ti odia. E tu?". E' infuriato: "Dicono che noi
odiamo i cristiani, fanno una gran confusione, etichettano chi
è integralista e chi no". Lui si chiama Abdullah ed è
algerino, anzi berbero precisa, e riprende a spiegare che
l'Islam non è contro le altre religioni del Libro. "Nessuno
vuole la violenza, ma la ragione di tutto questo è politica.
Ora ci sono morti civili, già 200 sotto le bombe in
Afghanistan. La violenza chiama violenza". Farida Enenhas,
marocchina, insiste: "Ci sono tanti ignoranti", ha l'accento
romanesco, "Mettono il terrorismo e l'islam nello stesso
bunker". Bin Laden? "Io non lo difendo di certo". Ma chi è
poi Bin Laden? "Il dubbio che sia davvero lui il responsabile
degli attentati dell'11 settembre ce l'abbiamo tutti", dice
Saf. Accanto a un banchetto che prepara gustosi falafel
(le polpettine di fave egiziane) un ragazzo ride: "Non le
sembra strano che venti minuti dopo il crollo delle torri
avevano già dato la colpa a Bin Laden? Con che prove? Forse
solo perché loro lo conoscono bene". Ormai la folla si è
diradata, le telecamere sono partite, i capannelli sciolti.
"Mi dispiace di cuore quello che è successo in America", dice
una signora maghrebina vedendo il taccuino e la penna: "Là
sono morti seimila innocenti. Di loro si parla. Ma nessuno
parla di quanti arabi, palestinesi, sono morti in 50 anni. O
del milione di iracheni, donne vecchi e bambini. Per gli
americani i popoli arabi non contano". Mustafà, egiziano, sta
sgomberando la sua bancarella. "Io non so nulla di nulla. Non
mi piace la violenza, la guerra è sempre brutta, non importa
se colpisce musulmani, cristiani o ebrei". Ma poi si scalda:
"E' l'ingiustizia nel mondo la causa di tutto. Non mescolate
la religione con la politica, non c'entra nulla. Bin Laden non
so chi sia. Io non lo conosco. Gli americani sì, lo conoscono:
ha studiano negli Usa, ha lavorato per loro. Quello che so è
che c'è un miliardo e 300 milioni di Bin Laden nel mondo, c'è
la politica, c'è il petrolio, e qui può scoppiare la terza
guerra mondiale". Una signora lo interrompe: è Maryam, somala,
ha un hijjab blu. "Voglio che Bush sappia una cosa. Lui
dice ai bambini americani di dare un dollaro per i bambini
afghani. Ma i bambini dell'Afghanistan non hanno bisogno un
dollaro, hanno bisogno la pace a casa loro. Quella di Bush non
è guerra: è terrorismo, è una
vendetta".
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