La "little Kabul" di san
Francisco REPORTAGE La guerra? Gli immigrati afghani ne sono
sicuri: è tutta colpa dei pakistani MARCO D'ERAMO - INVIATO A SAN
FRANCISCO
" Il vero responsabile del terrorismo è il
Pakistan, è l'Iis (Intelligence Intereservices, i servizi
segreti di Islamabad), non l'Afghanistan, e Pervez Musharraf è
un bugiardo", mi dice Homa Youn, un uomo magro sulla
quarantina, stempiato, occhiali, occhi neri, barba di due
giorni, inquietezza sorridente, sempre in movimento. E'
proprietario e gestore del "Pamir Food Mart", una specie di
proto-supermercato, di Ur-supermarket, dove vende di
tutto, dalla carne halal alle videocassette, dalle sigarette a
spezie come malangone, alhoiva persiana e cumino nero, dalla
cartoleria per la scuola al pane prodotto nel forno
retrostante. Si trova sul Freemont Boulevard, a Freemont,
sobborgo dell'area metropolitana di San Francisco nella parte
orientale della baia (East Bay), a metà strada tra Oakland a
nord e San José a sud. Di fronte al Pamir Food Mart c'è il De
Afghan Restaurant. Pochi metri più in là, il Maiwand Market,
specializzato in macelleria e in casalinghi. E' il cuore della
"Little Kabul", la maggiore comunità afaghana di tutti gli
Stati uniti, composta da 25.000 immigrati giunti per lo più da
rifugiati politici dal 1980, dopo l'invasione
sovietica. "Appoggio totalmente l'azione degli Stati uniti
in Afganistan" dice con enfasi, deciso a evitare a tutti i
costi il ruolo di "quinta colonna talebana" negli Usa. "Ma -
insisto - lei è proprio contento delle bombe che cadono sulla
sua terra natale e sui suoi familiari rimasti a casa?". "E'
sempre meno del terrore che ci hanno inflitto i talibani in
questi anni". "Allora lei è farsi, non pashtun", obietto. "Che
c'entra? farsi o pasthun siamo tutti afghani! Io parlo tutte e
due le lingue, ma i talibani no, loro non sono afghani, sono
pakistani di etnia pashtun, ma ce li ha mandati l'Iis. Ma ha
visto le manifestazioni di questi giorni in favore di bin
Laden? Perché non ce n'è stata nessuna in Afghanistan e sono
tutte avvenute in Pakistan? E ha visto le facce? Io so
riconoscerle e in quelle folle non c'era un afghano".
S'interrompe per andare da un avventore anziano che tasta
sacchi di riso, segaligno, sandali ai piedi,
telefonino. Allora interviene a convincermi un altro
cliente, dal fisico più robusto, capelli neri e occhi chiari:
"Il vero talibano è l'esercito pakistano. Loro si sono
arricchiti con la guerra in Afghanistan. Sono questi maledetti
arabi che ce l'hanno con noi afghani" (i pakistani non sono
arabi, ndr). Riprende Houma Youn: "Quando sono passato
nell'80 da Peshawar, era il Sahara, non c'era niente, neanche
un negozietto. Ci sono tornato nell'86 ed era una piccola New
York, trovavi tutto". Questi afghani/californiani si devono
esibire in un equilibrismo difficile: devono lottare
letteralmente per la propria sopravvivenza per non fare la
fine - mantenendo tutte le proporzioni - che fecero i tedeschi
durante la I guerra mondiale e i giapponesi nella II quando
furono discriminati, sorvegliati, angariati e in molti casi
internati. E per loro, e per gli altri immigrati
mediorientali, oggi il futuro è ancora più incerto e aleatorio
dopo che il senato Usa ha approvato (96 contro 1) una legge
che dà nuovi poteri alla polizia per "combattere il
terrorismo" (ha votato contro solo il democratico del
Wisconsin Russ Feingold che l'ha considerata liberticida). Un
articolo della legge colpisce soprattutto gli immigrati: la
polizia è ora autorizzata a trattenerli per 7 giorni senza
incriminazione; i democratici gongolano di fierezza libertaria
perché Bush aveva chiesto una detenzione senza limiti e loro
sono riusciti a limitarla a solo (sic!) 7
giorni. Mentre Kabul è bombardata, gli immigrati afghani
devono perciò esibire indefessa fedeltà agli Usa, fiducia
ferrea nella democrazia americana, e nello stesso tempo non
fare i volta gabbana, tradendo la patria d'origine. Ecco
perché alcuni rifiutano di parlare a estranei - i gestori e i
clienti del Maiwand Market - o invece - al Pamir Food - si
costruiscono questa storia che ognuno mi ripete quasi
identica, come fa Rafi, un pashtun paffuto, capelli scuri e
occhi chiari: "Noi avevamo avvertito gli Usa che il loro vero
nemico erano il Pakistan e gli Iis, ma allora c'era
quell'Albreight, non ci ha ascoltato. Quando è morto il
comandante Massud, in Afghanistan hanno pianto tutti, farsi e
pashtun". A onor del vero, a "Little Kabul" (California)
non si vedono veli neri, né donne infagottate. Me ne vado
mentre l'energico Homa Youn vende quattro confezioni di nan
afghano, che somiglia non al nan indiano, ma
piuttosto alla pizza bianca che in Italia si farcisce con la
mortadella. "Domani viene a intervistarmi la Bbc" dice
l'afghano ormai più famoso negli Usa, portavoce di fatto della
sua comunità. Torno a San Francisco attraverso suburbi
lindi e una serie ininterrotta di parchi tecnologici, istituti
politecnici, imprese tecnologiche, d'informatica, ingegneria
genetica, software: edifici a un piano per lo più in vetro
scuro riflettente, con posteggiati attorno ernomi fuoristrada
Suv (Sport Utilivty Vehicles), ombreggiati dagli alberi (ma i
pendii circostanti sono desertizzati), utopie di un'industria
pulita, non inquinante: questa patria della new economy
è un'oasi di felicità e benessere precarizzata dalla
recessione: proprio ieri è stato registrato il maggior crollo
mensile delle vendite al dettaglio dal 1992: il 2,4% in
meno. Mi chiedo come l'alhoida persiana, il nan
afghano e il pollo halal s'integrino in questa precaria
struttura di tecnologia avanzatissima, o se piuttosto non
siano coesistenze ignare l'una dell'altra, ognuna nella
propria traiettoria: la piccola Kabul che si arrabatta nella
sua ansia di ascesa sociale, senza sfiorare il mondo
dell'hi tech, come le piante si abbarbicano alle
fessure dei muri. La radio rafforza il quadro di esistenze
simultanee e schizofreniche: uno speaker spiega -
certissimo del suo buon diritto - perché questa è una guerra
giusta: "perché il danno inferto al nemico è commisurato alla
sua minaccia". Mentre nel notiziario la Nasa annuncia che, per
ricordare i morti dell'11 settembre, a novembre lancerà 6.000
bandiere americane (come reagirà il silenzio degli infiniti
spazi?). Poi ecco un altro accento inglese dalle inflessioni
mediorientali, quello del principe Al Walid bin Talal bin
Abdul Aziz, nipote del monarca saudita, presidente della
Kingdom Holding Co., classificato a luglio come il sesto uomo
più ricco del mondo dalla rivista Forbes. Il principe è
venuto a New York per consegnare al sindaco Rudolph Giuliani
un assegno di 10 milioni di dollari per il World Trade Center
Fund. Il principe condanna ogni terrorismo e dice che perciò
"gli Stati uniti dovrebbero riesaminare le proprie politiche
nel Medio Oriente e adottare una posizione più bilanciata
verso lo stato palestinese". Il comune di New York ha subito
reagito definendo "profondamente inapporpriate queste
osservazioni" che collegano l'attacco alle Twin Towers con la
questione dello stato palestinese. Il sindaco Giuliani ha
rimandato l'assegno al mittente: è il primo incidente
diplomatico tra Usa e Arabia Saudita. Ma anche il principe
miliardario di una monarchia feudale deve fare i conti con la
sua opinione pubblica. "Da voi non ci sono ragazzi
fondamentalisti islamici?" avevo chiesto a Freemont al pashtun
Rafi. La risposta era la più rassicurante possibile: "Ci sono,
pochi, ma il loro estremismo rifiuta la
violenza".
|