Al di là di Dio Padre
Monoteismo, maschilismo e violenza bellica si implicano
a vicenda e si fondano sull'immagine di un Dio maschile,
violento e patriarcale. Pubblichiamo ampi stralci della
relazione che la pastora valdese Elisabeth E. Green presenterà
domani al convegno "Pace e guerra nella Bibbia e nel Corano"
ELISABETH E. GREEN
Guerra e monoteismo sono realtà in cui la
differenza sessuale gioca un ruolo determinante. Fino a poco
tempo fa tutto l'apparato militare, gli eserciti di tutto il
mondo erano realtà virili da cui le donne erano rigorosamente
escluse. E la stessissima cosa possiamo affermare del
monoteismo nelle sue forme istituzionalizzate. Se in alcuni
settori del cristianesimo e dell'ebraismo le donne ora
occupano posizioni fino a poco tempo fa riservate solo a
uomini, la maggioranza delle istituzioni che si ispirano al
monoteismo - chiese, moschee, sinagoghe - continua a rimanere
di governo esclusivamente maschile. Anzi possiamo affermare
che la differenza sessuale è una discriminante fondamentale a
livello sia simbolico che sociale nelle religioni
monoteistiche. Poiché la declinazione al maschile delle realtà
che ci interessano è preponderante, potrebbe venire a noi
donne la tentazione di lavarcene le mani e dichiararci
tranquillamente estranee a qualsiasi discorso su pace e guerra
nelle religioni del libro. Preferisco non soccombere a tale
tentazione. Come donne infatti ci troviamo all'interno sia
delle diverse istanze del monoteismo che nei vari apparati di
guerra essendoci stato assegnato un ruolo simbolico
fondamentale.
(...) La nozione di un Dio declinato
esclusivamente al maschile è stata oggetto di critica da parte
di Mary Daly nella sua opera Al di là di Dio Padre.
Semplificando al massimo, Daly (e con lei molte teologhe),
opinano che la figura di un Dio maschile in cielo serve a
legittimare i rapporti diseguali tra uomini e donne sulla
terra. Inoltre, se come opina il sociologo francese Bourdieu,
"l'atto sessuale stesso è concepito dagli uomini come una
forma di dominio, di riappropriazione, di 'possesso'", allora
si profila un nesso tra l'Iddio garante di maschilità, da una
parte, e ciò che Daly chiama la Sacrilega Trinità: stupro,
genocidio e guerra, dall'altra. Se le teologhe in occidente
considerano l'Iddio maschile perno di un violento ordine
sociosimbolico, alcune teologhe asiatiche e africane ritengono
che il problema non sia tanto la configurazione maschile di
Dio quanto la sua natura esclusivista. Come l'esperienza
maschile è stata universalizzata fino a diventare la norma
dell'umano tout court, così il cristianesimo è stato
assolutizzato come norma di ogni fede religiosa. Kwok Pui Lan,
per esempio, afferma che "una comprensione esclusivista del
Cristo eleva il cristianesimo al di sopra di tutte le altre
religioni ed è stata utilizzata per giustificare la conquista,
la colonizzazione e persino il genocidio". In questo modo
viene prospettata l'ipotesi che monoteismo, esclusivismo,
maschilismo e violenza si implichino a vicenda. Il noto
studioso tedesco Gerd Theissen sottolinea il ruolo giocato
dalla maschilità nello sviluppo del monoteismo biblico. Poiché
il monoteismo potesse affermarsi Dio doveva diventare
veramente universale (...). Così la divinità doveva liberarsi
dai legami sia con l'ambiente che con la famiglia. Dovette
sorgere, cioè il Dio "senza immagini" e il Dio "senza
famiglia". (...) E' evidente che tale Dio slegato dai legami
di parentela, alienato dai processi biologici fondamentali,
portatore di "valori più alti del vivere e del sopravvivere"
non poteva che essere maschile.
(...) Ciò che mi preme
evidenziare è che la logica di tali sistemi (religiosi,
ndr) è una logica sessuata secondo cui l'unico Dio
viene declinato al maschile e l'Altro di qualsiasi genere,
colore o fede viene declinato al femminile. (...) Nella
versione cristiana di tale regime l'uomo si rispecchia nel Dio
maschile come il Soggetto Assoluto secondo la cui immagine è
stato creato mentre la donna continua a differenziarsi in
relazione sia a Dio che all'uomo come l'Altro. In questo modo,
il femminile diventa la cifra simbolica di ogni altro Altro,
cioè di qualsiasi nemico ebreo, nero, o omosessuale che sia.
La violenza bellica, quindi, trae forza dalla misoginia
costitutiva dell'ordine sociosimbolico patriarcale, ordine a
sua volta legittimato dal Dio maschile. Vorrei portare un
esempio di questa tesi prendendo in esame l'addestramento
militare. Pare che l'esercito per creare la docilità
necessaria all'ubbidienza incondizionata del soldato debba
trasformare i suoi maschi in "femmine". Gli insulti urlati
alle reclute, per esempio, si riferiscono alle donne e
soprattutto a quelle parti dell'anatomia femminile legate alle
funzioni riproduttive. Durante il combattimento, l'odio che il
soldato sente verso il "femminile" dentro di sé, viene
mobilitato e proiettato sul nemico il quale diventa,
simbolicamente, una donna da distruggere (...). Nella
Bibbia, il nesso tra discriminazione della donna e sterminio
del nemico viene illuminato dal libro di Ester. Il primo
capitolo infatti ci regala un quadro quasi perfetto del
meccanismo dell'ordine imperiale in cui gli uomini comandano e
le donne ubbidiscono. Quando la regina Vasti si oppone
all'ordine del re, rifiutando di esporsi come oggetto allo
sguardo maschile, il re emana un decreto per ristabilire
l'uomo come capo famiglia in ogni casa del reame. La
successiva ribellione di Mardocheo viene a ricalcarsi sulla
storia di Vasti cosicché il popolo ebraico assume una
posizione simbolica femminile. Come tutte le donne andavano
punite per la disubbidienza della regina, così tutti gli ebrei
saranno puniti per la disubbidienza di Mardocheo, con però
un'importante differenza: mentre Vasti viene ripudiata e le
donne sottomesse, il popolo ebraico va annientato. La
posizione subalterna della donna è la premessa di un regime
pronto ad annientare coloro che di volta in volta vengono
costruiti come nemico. (...) Sebbene Ester emerga viva dal
conflitto, per molte donne la storia è diversa. Nell'ordine
sociosimbolico patriarcale il rapporto sessuale è stato
costruito in termini di dominio cosicché lo stupro è diventato
la metafora di qualsiasi atto di dominazione. Fine ultimo
degli stupri di guerra commessi durante non importa quale
conflitto (...) è l'affermazione della propria maschilità
attraverso l'assoluta umiliazione del nemico. In tempi di
guerra, inoltre, migliaia di donne sono state rapite e tenute
prigioniere per offrire servizi sessuali ai soldati. All'epoca
della guerra in Vietnam, per esempio, l'esercito americano
aveva adibito alcune isole del Pacifico alla prostituzione
mentre dal '32 al '45 l'esercito giapponese teneva fino a
200.000 donne coreane come schiave. Lo stupro sistematico
delle donne dell'Altro e il massiccio sfruttamento sessuale
delle donne da parte degli eserciti in tempo di guerra sono
una terribile spia del nesso tra maschilismo e violenza
bellica. Se monoteismo, maschilismo e violenza bellica si
implicano a vicenda si potrebbe pensare che l'opposizione alla
guerra e la speranza della pace possano provenire dalla donne
tout court. Tale idea emerge con forza nell'800,
segnando settori del movimento delle donne e continua ad
esercitare ancora oggi un certo fascino. Alcune iniziative
delle donne a favore della pace sono riuscite infatti ad unire
non solo donne del monoteismo (come le Donne in Nero nel Medio
oriente o le donne cattoliche e protestanti dell'Irlanda) ma
anche donne di diverse o nessuna esperienza religiosa. Ma
basare un'etica della pace su una presunta natura femminile
universale è problematico. L'alterità femminile,
imprescindibile nel produrre l'alterità altrui, ha difficoltà
a creare quell'identità solidale propria di altri gruppi
sociali. (...) Se maschilismo, monoteismo, esclusivismo e
violenza bellica si intrecciano tanto nella storia quanto
nella teologia, quali speranze di pace possono provenire dal
monoteismo? (...) E' importante rilevare che quando le
teologhe mettono sotto accusa la maschilità del monoteismo,
non accusano la maschilità tout court bensì la
maschilità configurata in termini patriarcali. (...) Dio Padre
diventa il garante di un ordine sociosimbolico attraversato da
rapporti "di diseguaglianza egemonica, di controllo -
dominio/sottomissione, oppressore/oppresso - caratterizzati da
paternalismo, imperialismo, colonialismo ed elitismo". Come è
difficile dire un femminile al di fuori di questa economia
(cui si è dedicato il movimento delle donne), così è difficile
per gli uomini dire la propria sessuazione parziale (cui si
sono dedicati un po' meno). E se Dio venisse in loro aiuto? La
prima risposta alla nostra domanda consiste nel fare leva
sulla maschilità di Dio per poter dire un modo di essere
uomini non più al servizio dell'ordine violento del
patriarcato. In Mt 23 Gesù esclude la possibilità
che gli uomini si appellino a Dio per legittimare rapporti di
natura gerarchica. Dicendo "Ma voi non vi fate chiamare
Maestro perché uno solo è il vostro Maestro", Gesù afferma che
nessuno può arrogarsi del titolo divino per porsi in una
posizione di superiorità nei confronti dell'altro. Inoltre,
viene messa in evidenza la natura patriarcale di tali
rapporti: "Non chiamate nessuno sulla terra vostro padre,
perché uno solo è il Padre vostro, quello che è nei cieli". In
altre parole, Gesù si appella alla paternità divina non per
mistificare i rapporti diseguali bensì per smascherarli.
Tuttavia Gesù non si limita a criticare l'ordine
sociosimbolico patriarcale ma addirittura lo sovverte. Ad
essere i primi non sono più i padri bensì gli ultimi nella
gerarchia domestica dell'epoca i servi. (...) Gesù utilizza la
figura del servo per opporsi a chi vuole riprodurre rapporti
patriarcali all'interno del suo movimento. Nell'ordine
sociosimbolico patriarcale i servi, e quell'altra figura
prediletta di Gesù, il bambino - occupano una posizione
femminile. Che Gesù si presenti e viene presentato come servo,
quindi, sconvolge sia le nostre nozioni di Dio che i ruoli
sociali predicati sulla differenza di genere. Poiché è
soprattutto in relazione alla sua morte che Gesù viene
chiamato servo non c'è da sorprendersi se, nel racconto della
passione Gesù come vittima occupa la posizione femminile per
eccellenza. (...) Mary Daly afferma: "Le qualità che il
cristianesimo idealizza, specialmente nelle donne, sono
anch'esse quelle di una vittima: amore sacrificale, passiva
accettazione della sofferenza, umiltà, mansuetudine ecc". Io,
invece sto affermando che la vita di Gesù dimostra
precisamente le qualità cui una maschilità distorta dalle
relazioni patriarcali abbisogna. La vita di Gesù intacca alle
radici quel modo di relazionarsi che porta in ultima analisi
alla violenza bellica. (...) La morte di Gesù avvenuta porta
al culmine un processo in cui Dio stesso diventa Altro.
Facendosi Altro, Dio si è spogliato dalla sua maschilità
violenta e patriarcale indicando nuove piste al
maschile.
(...) Secondo Theissen, per diventare
universale l'Iddio degli Israeliti doveva liberarsi dalle
immagini. La seconda risposta che danno le donne al nostro
quesito si appella direttamente a questo divieto alle
immagini. Insistendo sulla paternità di Dio i teologi hanno
creato un'immagine linguistica di Dio Padre non meno idolatra
di sculture fatte di legno o di metallo. (...) Che cosa fanno
le donne di questo discorso? Affermano che se ogni discorso su
Dio utilizza un linguaggio mitico, e se la donna è immagine di
Dio tanto quanto l'uomo, allora si può parlare di Dio "se così
si può dire" in termini femminili. Non si tratta di aggiungere
ad un Dio maschile degli attributi cosiddetti femminili (...).
Si tratta, invece, di dire Dio completamente al femminile
mostrando che ciò che sta in gioco nella paternità divina non
è tanto la maschilità di Dio quanto la sua
genitorietà. (...) Secondo Adriana Cavarero, la tradizione
filosofica di Occidente è imperniata su una simbolica di
morte; l'essere umano viene definito a partire dalla morte,
siamo infatti "mortali". Se è la morte a definirci, allora il
ruolo di Dio consiste nel salvarci da essa, garantendoci
l'immortalità. L'idea di un Dio che salva l'essere umano dalla
corruzione e dalla morte è fondamentale nel pensiero cristiano
ed è lo stesso Dio a giustificare il dominio su tutto ciò che
ricorda la mortalità umana (maschile) come appunto le donne,
la corporeità, la polvere della terra. La negazione della
morte, insieme agli sforzi di dominarla vanno quindi a pari
passo con una profonda misoginia. (...) Esiste, però un
qualcosa che ancor prima della morte determina l'essere umano:
la nascita. E se ci considerassimo non più mortali,
determinati dalla morte bensì natali definiti dalla nascita?
Così Grace Jantzen si propone di dire Dio non come Colui che
vince la morte ma come Colei che "dà vita alla
vita".
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