Da domani a Torino un convegno sul
rapporto tra violenza e monoteismo IAIA VANTAGGIATO
Con Giobbe in questi giorni - e ad essere
credenti - verrebbe da esclamare: "Dio mio, perché mi hai
abbandonato". E invece è proprio il nome di dio che sembra
ispirare la prima guerra del terzo millennio. Fedeli ad Allah,
si armano gli eserciti islamici e la stessa lingua parlano
devoti e combattenti; fedeli a dio onnipotente, rispondono gli
occidentali e a loro volta si armano. E intanto ad una sempre
più martoriata Gerusalemme, un dio senza volto sembra incapace
di assicurare anche un solo giorno di pace. Certo si sa,
del nome di dio gli uomini si servono per mascherare avidità e
potere, desiderio di conquista e volontà di potenza. Ma la
forza che emana dal volto di Osama bin Laden quando incita
alla guerra santa, l'adesione che le sue parole raccolgono, la
risposta - pure quella ispirata - di Bush e quel nome
infelice, "Giustizia infinita", scelto all'inizio per definire
l'operazione antitalebani; tutto questo impone di chiedersi se
la violenza bellica sia solo un portato esterno degli intrecci
politici in cui soprattutto cristianesimo e Islam si sono da
sempre trovati coinvolti. Vale, insomma, la pena chiedersi - e
proprio in questi giorni - fino a che punto la violenza
bellica risieda "nella logica stessa di questi sistemi
religiosi, nel loro regime di verità, nella necessità di
imporre la fede dell'unico Dio contro l'idolatria o la non
fede trasformando l'Altro, renitente alla conversione, in
nemico". Con queste parole Giovanni Filoramo interroga i
relatori del convegno "Pace e guerra nella Bibbia e nel
Corano" che si terrà a Torino, a Palazzo Carignano, da domani
sino a domenica. L'incontro - organizzato dall'associazione
laica di cultura biblica "Biblia" - si offre come luogo di
ospitalità e di confronto fra i tre monoteismi; di riflessione
sui testi sacri a partire dai testi sacri; di indagine
sulle possibilità di convivenza al di là di tutte le
differenze. Numerosi e tutti di altissimo livello i
contributi (qui sotto anticipiamo ampi stralci dell'intervento
della teologa femminista e pastora valdese Elisabeth E.
Green). Domani apriranno i lavori Giovanni Filoramo, docente
di storia del cristianesimo, e Riccardo Di Segni, direttore
del collegio rabbinico italiano. Al primo il compito di
esaminare il nesso profondo che lega non solo violenza e sacro
ma soprattutto monoteismo e violenza: un paradosso, se si
pensa che le religioni monoteistiche sono portatrici di
concezioni di salvezza fondate sulla pace universale e l'amore
reciproco. Dei concetti di pace e guerra nella
storia e nel diritto di Israele parlerà, invece, Di Segni.
Lettura apocalittica e veterotestamentaria quella che, invece,
riserverà ai due concetti Florentino Garcia Martinez,
direttore del Qumran Insituut di Groningen. A "Violenza e
nonviolenza nel linguaggio di Gesù" è dedicato l'intervento di
Piero Stefani, docente di dialogo con l'ebraismo. Riapertura
dei lavori, sabato mattina, con l'Islam: a Fouad Allam Khaled,
docente di sociologia del mondo musulmano a Trieste e Urbino,
l'amaro calice dell'attualità con una relazione su "La
problematica della violenza nell'Islam contemporaneo" mentre
Alberto Ventura indagherà il legame tra teologia e politica
nel pensiero islamico a partire dal concetto di
squilibrio: nota dominante della creazione che si
esprime attraverso la violenza naturale e la guerra che di
quella violenza è la manifestazione più parossistica. Tra lo
squilibrio e l'equilibrio assoluto che è in Dio sta
l'Islam: tra ordine e disordine, equità e ingiustizia. Nella
consapevolezza che ogni squilibrio è relativo. E tra due
estremi - come spigherà Giovanni Miccoli, direttore del
dipartimento di storia a Trieste, nella sua densa e rigorosa
relazione - sembra ristare anche la teologia cristiana almeno
sino agli esiti catastrofici della II guerra mondiale. Da una
parte la periodica risorgenza del messaggio evangelico che
impone di amare i nemici e rifiutava l'uso della spada,
dall'altro la volontà di corrispondere alle domande del potere
e il rigido strutturarsi di gerarchie politiche. Saranno Amos
Luzzatto, Achille Silvestrini e Mario Scialoja a chiudere il
convegno, domenica mattina, con una tavola rotonda su
"Gerusalemme: una storia, un simbolo". Da lì si è partiti e lì
vale la pena tornare per capire: "a condizione - come dice
Luzzatto - che si rinunci a un possesso esclusivo della città
e dei suoi simboli". E parlare di Gerusalemme, va da sé, è
come parlare di
di o.
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