Tra le rovine dell'impero
La
difficile autocoscienza dell'occidente davanti a una
catastrofe che rimanda a simboli e miti simmetrici e
speculari: nord e sud, Bush e bin Laden, civiltà contro
civiltà, integralismo contro integralismo
LEA
MELANDRI
Mai le passioni e i ragionamenti sono stati
così contrapposti e nel medesimo tempo così connessi, come nel
dibattito che ha fatto seguito all'attacco terroristico
dell'11 settembre 2001, negli Stati Uniti d'America. Questo
capita generalmente quando fatti, che dovrebbero appartenere
alla storia, vanno a collocarsi in un contesto simbolico di
tale pregnanza da prendere il sopravvento. "Non c'è tempo per
la pietà - ha scritto Pintor - queste venticinquemila vittime
contano meno dei miti che abbiamo visto abbattere" (Il
manifesto, 19 9 2001). Il crollo delle Twin Towers di New
York e di un'ala del Pentagono a Washington è stato visto
quasi unanimemente come l'aprirsi di uno scenario
apocalittico. Come nella "rivelazione" profetica raccontata
dall'apostolo Giovanni, le catastrofi conseguenti alle colpe
degli uomini si abbattono sulle loro costruzioni e sui
significati che vi attribuiscono, prima ancora che sulle
persone. A New York e a Washington, come in passato a
Babilonia e a Roma, le prime a cadere sono le mura e gli
ornamenti della città imperiale, la "grande meretrice" che ha
sedotto e asservito i re e i popoli della terra. Ma se
l'associazione è stata così facile, è anche perché
l'Apocalisse aleggiava già da tempo, temuta e desiderata
insieme, come figura ricorrente dell'immaginario hollywoodiano
e come minaccia intrinseca all'"anti-architettura" di New
York, la "città verticale", che "ha scommesso sul cielo e
sull'inferno" (J.Baudrillard, America, Feltrinelli
1986). I grattacieli di Manhattan, cuore finanziario di un
grande impero economico, ma anche metafora del "sogno
americano" di ricchezza, felicità, democrazia, convivenza di
genti diverse, sembrano essersi portati dentro, legato alla
loro "centralità ed "eccentricità", il presentimento della
fine. La volontà di potenza, che si manifesta nell'imporre
come "naturale" e "universale" il proprio modello di civiltà,
così come la promessa di un Eden terreno, eterno e
invulnerabile, ha un corredo fatale di umiliazioni e
risentimenti, destinati a ritorcersi contro. Nell'odio che
arma la mano del "nemico" si insinua allora l'idea del
"castigo", il sospetto che Dio si sia servito di un mezzo
altrettanto violento per fare giustizia. In questo senso, il
Bene e il Male, paradossalmente si somigliano. "La visione
giovannea della storia umana assomiglia a una colossale
tautologia, in cui la bestia che sale dall'abisso e l'angelo
vendicatore, quanto ai mezzi usati e alla terribilità degli
effetti prodotti, si equivalgono" (A. Asor Rosa, Fuori
dall'Occidente, Einaudi 1992). Si può pensare che sia
proprio questa "incomprensibile" dialettica tra i due volti
speculari di Dio e di Satana, frutto della "pianta marcia
della storia" (G.Bocca), a confondere la ragione e a far
convergere piani del discorso tradizionalmente lontani. Lo
scenario apocalittico si accampa, sia pure in modo diverso,
tanto nella retorica dei leader, di una parte e dell'altra,
facendoli parlare la stessa lingua - la "crociata" di Bush e
la "guerra santa" di Osama Bin Laden - quanto nei ragionamenti
colti, preoccupati di aprire un varco alla ricerca delle cause
e dei contesti storici, fuori dalla riduttività del
mito. Si sono alternate, nei commenti di intellettuali e
giornalisti, interpretazioni opposte: chi ha visto attaccata
la democrazia e la libertà, di cui si considera depositario
l'Occidente, e chi ha ritenuto, sia pure dietro un atto
terroristico esecrabile, "punita" l'arroganza della politica
estera americana in Medioriente, e ristabilita una qualche
"simmetria", almeno nella sofferenza, tra il nord e il sud del
mondo. Il desiderio di giustizia sembra dunque destinato a
confondersi con il bisogno immediato di vendetta, e il compito
di riportare la pace affidato all'esercizio di una forza
opposta, come la guerra. Mai l'Occidente e il "nemico" che
attenta alle sue sicurezze, primati e valori, sono stati più
speculari. Difficile, anche in questo caso, separare la
somiglianza che nasce da documentate relazioni storiche e
quella che viene dall'eredità inconscia, comune, dei popoli,
più manifesta nei simboli e nelle religioni. L'organizzazione
terroristica islamica, ritenuta responsabile del massacro
dell'11 settembre, si è formata in parte alla scuola dei
servizi segreti americani, durante il conflitto tra Afganistan
e Unione Sovietica, e ha usato, coniugandoli con il sacrificio
della propria vita, i mezzi della più moderna tecnologia
dell'avversario. L'America, come si è detto da più parti, ha
creato il mostro che le si è rivoltato contro. Ma questa è
anche la fine "apocalittica" di Babilonia, divorata dagli
stessi mercanti che sono divenuti ricchi per merito
suo. Resta da chiedersi perché questo scenario, che riporta
in auge false dicotomie ammantate di coloriture religiose - il
Bene e il Male, Dio e Satana - trova oggi improvvisamente così
largo credito. La promiscuità di etnie, lingue e religioni è
il modello di convivenza che ha fatto di New York il paese del
mondo, ma è anche, per effetto della globalizzazione economica
e dei mezzi di comunicazione, una realtà che sta interessando
l'intero pianeta. Non potendo più affidare la propria unità,
identità e appartenenza, al confronto col "diverso", né
misurare la propria superiorità su un "nemico" ritenuto
inferiore, le nazioni umane conoscono per la prima volta
l'insicurezza e i pericoli di una progressiva indistinzione.
Se c'è un "nemico", non può che annidarsi nelle maglie del
sistema dominante, da cui esce, imprevedibile e subdolo, come
si può immaginare che sia stato, per la famiglia umana alle
sue origini, l'attacco delle bestie e di altri umani. La
"nuova guerra", vessillo tristemente inaugurale del secondo
millennio, più che le crociate medioevali, richiama l'immagine
più arcaica e riduttiva del conflitto tra diversi: la civiltà
contro la barbarie. Sono le due maschere che Bush e Bin Laden,
i due leader "apocalittici" della modernità, si rimandano a
vicenda, anche se ormai è sempre più evidente che sono i due
volti dello stesso Dio. Ha ragione Rossana Rossanda quando
dice che ancora una volta la storia si muove su concreti
conflitti di potere e che la "retorica" di cui si vorrebbe
ammantarli rientra negli strumenti abituali di manipolazione
delle coscienze, ricerca del consenso, rafforzamento del senso
di appartenenza e di identità nazionale. E' vero: "Non è stata
l'apocalisse" (Il manifesto, 22 9 2001). Ma
l'"apocalisse" c'entra, così come c'entrano quei sentimenti
elementari di amore e odio che si ripresentano nella storia,
personale e collettiva, così invariati da far dire a Freud:
"quel che vi è di primitivo nella psiche è veramente
imperituro" (S.Freud, La delusione della guerra, 1915).
I simboli e i miti, che fanno sconfinare la politica nella
religione, la lucidità nella follia, non avrebbero tanto peso
nell'orientare l'opinione comune, se non fossero sedimenti che
la storia si porta dentro, "stranieri" solo perché tenuti in
una sorta di esilio dal pensiero che si vorrebbe "razionale".
Di fronte al precipitare del mondo in un "sistema di guerra"
che non lascia zone franche, si è invocata da più parti la
necessità di fermarsi a "riflettere", ma nell'"autocoscienza"
dell'Occidente sono ancora molti i passaggi innominati: primo
fra tutti quel capostipite di ogni integralismo che è
l'identificazione del sesso maschile - solidarista o guerriero
che sia - con il genere umano nel suo insieme. La quasi totale
assenza delle donne dal dibattito su terrorismo e guerra che
occupa giornali e tv in questi giorni, credo sia ormai chiaro
che non è né estraneità né segno di un'indole femminile
pacifica. Forse il cinema può insegnarci qualcosa: che ne
sarebbe dei "duellanti" se venisse meno l'inquadratura che
offre loro uno sguardo femminile? Sembra che Bin Laden si
sia tradito per aver ceduto al desiderio di attirare sulle sue
"imprese" l'attenzione della
madre.
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