Non basta dire "Americani"
Troppo grandi e troppo diversi
fra loro, gli Usa sembrano condannati a legare la cittadinanza
ad una adesione a valori e comportamenti dati, invece che al
luogo di nascita
FABRIZIO TONELLO
La mattina dopo l'attentato dell'11
settembre, il Corriere della Sera e Le Monde
hanno lanciato lo slogan, "Siamo tutti americani" come segno
di solidarietà forte verso gli Stati Uniti colpiti dalla tragedia.
L'elemento curioso di questo slogan è il fatto che l'essere
americani è un problema niente affatto risolto per gli stessi
cittadini degli Stati Uniti. Esiste una prezioso libretto
di Michael Walzer che si intitola proprio Che cosa significa
essere americani (Marsilio 1992, prefazione di Nadia Urbinati).
Walzer ovviamente lo scrisse perché sull'argomento esistono
intere biblioteche: da Israel Zangwill, il cui dramma creò
l'espressione "melting pot", a Richard Hofstadter e Michael
Sandel filosofi, storici, leader politici e semplici cittadini
si sono interrogati costantemente su cosa significhi dirsi
"americano". La Harvard Encyclopedia of American Ethnic Groups
inizia con afghani e termina con zoroastriani: proprio quelli
che occorrerebbe bombardare la settimana prossima. Walzer
scriveva: "Non esiste nessuna nazione chiamata America. Noi
viviamo negli Stati Uniti d'America e ci siamo appropriati
dell'aggettivo 'americano' anche se non possiamo reclamare
alcun diritto esclusivo su di esso". Già questo ci dice che
tra le vittime "americane" delle Twin Towers dovremmo contare
anche i 200 messicani, le decine di guatemaltechi, honduregni,
colombiani, molti dei quali clandestini, che si trovavano
negli edifici per lavorare come donne delle pulizie, fattorini,
uomini tuttofare. Ma non è questo il punto che Walzer voleva
sottolineare.
"Periodicamente - continua l'autore - i politici americani
ingaggiano una furiosa disputa per dimostrare il loro patriottismo.
Si tratta di una disputa strana, visto che in altre nazioni
il patriottismo dei politici non costituisce un problema.
I problemi sono altri (...) la lealtà alla patria è semplicemente
data per scontata". Un dubbio, un'incertezza che perdura ancora
oltre due secoli dopo la Dichiarazione d'Indipendenza e sembra
rodere gli Stati Uniti, che sentono continuamente il bisogno
di creare commissioni per sorvegliare e reprimere le attività
"antiamericane", oltre a usare normalmente nel dibattito politico
interno espressioni come "nemico dei comuni americani". Philip
Gleason e Richard Hofstadter avevano indagato già molti anni
fa questa forma mentis, giungendo alla conclusione
che questa incertezza derivava da un motivo assai profondo:
concepire l'America come un'ideologia, come un progetto, invece
che come un luogo fisico con dei confini. Gleason scriveva:
"Per essere o per diventare americano non era richiesto alcun
particolare retroterra etnico, religioso, linguistico o nazionale.
Tutto ciò che [l'immigrato] doveva fare era di impegnarsi
in una ideologia politica centrata su ideali astratti di libertà,
uguaglianza e repubblicanesimo". Gli Stati Uniti, troppo grandi,
troppo diversi fra loro, sembrano condannati a legare la cittadinanza
ad una adesione a valori e comportamenti dati, invece che
al luogo di nascita. Questa richiesta di cittadinanza attiva
ha probabilmente un effetto positivo nell'interiorizzare i
valori democratici iscritti nella Dichiarazione d'Indipendenza.
Inoltre, essa ha ottenuto in contropartita una reale possibilità
di ascesa sociale per gli immigrati: quale nazione europea
potrebbe avere avuto un un capo di Stato Maggiore di origini
lituane, che ha lasciato il posto a un altro figlio di genitori
giamaicani (l'attuale ministro degli Esteri Colin Powell)?
L'essere di origini italiane non ha impedito a Giuliani di
diventare sindaco di New York, o a Cuomo di diventare governatore
dello Stato.
Tuttavia, legare la cittadinanza a dei valori e dei comportamenti
ha un senso filosofico assolutamente illiberale. Chi non è
d'accordo con il modello (così come interpretato in quel momento)
perde non solo la possibilità di azione politica ma la sua
stessa identità. Chi è americano e chi non lo è si decide
a maggioranza. Democrazia sì, ma per chi decidiamo noi: "Love
it, or leave it", amate l'America o andatevene.
Questo, per fortuna, è successo assai raramente nel corso
della storia degli Stati Uniti, ma ciò che è accaduto è grave
abbastanza da far riflettere: il genocidio (non c'è altra
parola) degli originali abitanti del continente, gli indiani,
è stato possibile in quanto "non americani", persone che rifiutavano
il modo di vita loro proposto, più che rappresentare una minaccia
per i confini. Lo stesso è avvenuto con la schiavitù e poi
la segregazione razziale: per metà dei cittadini americani
i neri erano uomini (se non cittadini), per l'altra metà erano
"cose".
Il terzo episodio di cui discutere è quello dell'internamento
di cittadini americani di origine giapponese e italiana durante
la Seconda guerra mondiale. In questo caso fu il governo a
compilare le liste, stabilire i luoghi di deportazione, organizzare
il trasferimento forzato. Alla maggioranza dell'opinione pubblica
apparve un provvedimento del tutto naturale e nel 1943 la
Corte Suprema, in Hirabayashi v. United States, ratificò all'unanimità
le azioni dell'amministrazione Roosevelt, argomentando che
c'erano "relativamente pochi contatti sociali" tra i nippoamericani
e "la popolazione di razza bianca". Un argomento che permetterebbe
di trasferire gli abitanti dell'Aspromonte a Pioltello perché
ci sono "relativamente pochi contatti sociali" tra loro e
il resto dell'Italia, o di togliere la cittadinanza ai cittadini
di Piana degli albanesi perché, appunto, "albanesi".
Queste ingiustizie di origine etnica sono state, almeno sulla
carta, corrette e, talvolta, riparate. I nippoamericani sono
stati indennizzati, gli afroamericani hanno un ministro, Colin
Powell, nell'amministrazione Bush e gli indiani godono di
vari programmi di assistenza. Ma il potenziale autoritario
di questa visione della cittadinanza è tutt'altro che scomparso:
il maccartismo è tornato di moda dopo l'apertura degli archivi
dell'ex Unione Sovietica e un'intera generazione di giornalisti
e politici conservatori ha trasformato in un'industria i documenti
(veri o fasulli) scovati a Mosca. La tesi, in soldoni, è che
Joseph McCarthy aveva sempre avuto ragione e che tutti i perseguitati
di quegli anni erano davvero spie dell'Urss, a cominciare
da Julius ed Ethel Rosemberg. Victor Navasky, su The Nation,
ha dimostrato che i documenti non rivelano nulla di nuovo,
se non complicità di basso livello e certamente non provano
che i Rosemberg fossero in grado di rubare segreti atomici,
men che meno che li abbiano effettivamente avuti e trasmessi
al Cremlino. Naturalmente, il vero obiettivo della destra
non è bollare i due coniugi ebrei del marchio di Caino bensì
ribadire che chi dissente dal governo in carica è non solo
un avversario ma un traditore, non solo un traditore ma uno
straniero.
Oggi, questa stessa concezione torna prepotentemente con il
pretesto del terrorismo, che viene costantemente presentato
come barbarico e privo di ragioni, come irrazionale e inspiegabile.
Ora, se c'è un fenomeno che necessita di spiegazione politica
è un terrorismo che si pone obiettivi politici, nel caso di
quello islamico punire gli Stati Uniti per il loro appoggio
a Israele e ai regimi arabi "empi" come l'Arabia Saudita.
Al contrario, l'America "non è mai sembrata più lontana di
oggi dal riconoscimento della realtà", come ha scritto Susan
Sontag dopo l'attentato.
I media si ostinano a spiegare gli attentati con l'odio nei
confronti di chi è ricco, tollerante, moderno. In realtà,
nessuno odia l'America per ciò che è, quanto meno non abbastanza
da suicidarsi per infliggerle dai danni. Molti, invece, la
odiano per ciò che fa: per il suo sostegno a regimi corrotti
come quello saudita, per il suo fornire armi a Israele, per
il suo disinteresse nei confronti di chi vive in un campo
profughi libanese.
A differenza degli anni Quaranta e Cinquanta, oggi le autorità
difendono i musulmani americani, condannano le aggressioni
e i sospetti nei loro confronti e si propongono di distruggere
soltanto i seguaci e i fiancheggiatori di bin Laden. Ciò non
toglie che nei pacchetti antiterrorismo varati in questi giorni
siano previste pesanti pene detentive per chi finanzia organizzazioni
definite "terroriste" dal Dipartimento di Stato, che a sua
discrezione può appiccicare questa etichetta all'Olp o agli
ospedali gestiti da Hamas a Gaza.
Nei prossimi anni, quindi, la domanda "Che cosa significa
essere americani" rischia di avere una risposta illiberale
e autoritaria: non solo essere nati in qualche punto tra Seattle
e il Rio Grande, oppure in Alaska o alle Hawai, ma anche ripetere
come un incantesimo la propria fede nella bandiera, nella
Costituzione, nel mercato, nello scudo stellare e, magari,
nei bombardamenti di civili afgani. L'alternativa sarà subire
una pressione politica fortissima, quando non ritorsioni amministrative
o giudiziarie. L'altroieri su Le Monde Francis Fukuyama
intitolava un suo articolo sugli Stati Uniti, "L'Etat Uni",
al singolare. In pochi minuti, l'11 settembre scorso, l'America
potrebbe essere diventata di colpo "una", cioè non più pluralista,
contraddittoria, ferocemente attaccata alle libertà individuali,
diffidente nei confronti del governo. Ovvero, la negazione
di tutto ciò che l'ha fatta amare a centinaia di milioni di
persone tra il 1776 e oggi.
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