Un modo più giusto
Meglio la
fine dell'ingiustizia che "giustizia infinita". Il
riequilibrio tra nord e sud del mondo, invece di seminare
bombe, odio e morte. Una nuova cultura, una nuova umanità che
sappia risolvere i conflitti e lottare contro la miseria,
l'ignoranza, le intolleranze LUIGI CIOTTI
La vera e duratura garanzia di pace, stabilità
e sicurezza è nella capacità delle nazioni del mondo, a
partire da quelle che hanno più ricchezza e dunque più potere,
di ritrovare unità, concerto nelle decisioni, coralità nella
definizione delle priorità. Nazioni unite significava, e deve
tornare pienamente a significare, questo. Certamente, e pur
indirettamente, il progressivo svuotamento e delegittimazione
di sedi internazionali quali l'Onu non ha contribuito a
rendere più sicure e durature le relazioni di pace tra i
popoli e gli equilibri geopolitici tra le aree. In questo
stato di grave tensione e dopo i tragici lutti che hanno
colpito la popolazione americana, occorre far sì che
l'emozione non soffochi la ragione, che il dolore non accechi
e zittisca la politica, che rimane lo strumento principe per
governare le relazioni tra gli stati, dirimendone e
prevenendone i conflitti. Prima che di "giustizia infinita"
occorrerebbe forse parlare di fine dell'ingiustizia. Non è un
gioco di parole: è la consapevolezza, fuori di ogni retorica o
demagogia, che il rapporto tra Nord e Sud del mondo è
contrassegnato storicamente da troppe disparità,
ineguaglianze, povertà, logiche di sfruttamento, razzismo e
neocolonialismo. Uno squilibrio pericoloso, rispetto al quale
siamo spesso sordi e disattenti. Ragionarne non significa
certo allentare lo sdegno per il criminale attentato dell'11
settembre o diminuire la solidarietà verso le vittime e le
popolazioni colpite. All'opposto, significa ricercare una più
efficace capacità di prevenire nuovi lutti e di battere le
organizzazioni criminali e il fanatismo politico e religioso,
sottraendo loro il consenso e contrastandone
l'operatività. Queste ingiustizie, lo strangolamento
economico di intere regioni e continenti attraverso il
meccanismo "usurario" del debito, la morte per fame, per sete,
per malattie evitabili, per desertificazione del territorio,
per nuovo schiavismo, per aids, per privazione dei diritti
umani, per intolleranze etnico-religiose, costituiscono
nell'insieme una polveriera. Promuovere giustizia,
neutralizzare la polveriera, ristabilire equilibrio
geopolitico non può avvenire in forza delle armi, né con la
logica della rappresaglia o con la licenza di uccidere. Una
logica che può apparire legittimata dalla gravità inaudita
degli avvenimenti, emotivamente condivisibile, ma
politicamente assai rischiosa e del resto moralmente e
culturalmente inaccettabile per quanti si riconoscono in
Cristo e per chi creda nelle regole dello stato di diritto.
Nella guerra non c'è mai vero sollievo per le vittime, non c'è
riparazione per i torti subiti, non c'è promozione di
giustizia: c'è solo la certezza di incrementare la spirale
dell'odio. La giustizia non si conquista sulla punta delle
baionette, neppure quando si hanno tutte le ragioni dalla
propria parte o quando, come nel criminale attacco dell'11
settembre a New York e a Washington, migliaia di persone
vengono uccise senza pietà e senza giustificazione alcuna. Non
è certo con nuove leggi repressive ed emarginanti contro gli
immigrati, come sembra farsi strada negli Usa, che si ferma la
mano e l'odio del fanatismo etnico o religioso. Anzi. Non è
con l'aumento delle spese militari, con le finanziarie e
l'economia di guerra, che si stabilizzano e rendono sicure
certe aree geografiche o le nostre stesse città. Certo, la
giustizia e la sicurezza non si ottengono neppure con la
rassegnazione o subendo passivamente la violenza e il
terrorismo. Questo deve essere chiaro e ribadito. Ma, al di
là e dopo l'emozione che ci ha tutti colpito per la tragedia
negli Usa, e senza fare venire meno la massima solidarietà per
la popolazione colpita, la necessità vitale e lungimirante è
quella di una nuova logica politica, di una alleanza
internazionale non solo contro il terrorismo, ma per una nuova
cultura nel rapporto tra i popoli, le religioni, i paesi e i
loro governi, che non metta sempre al primo posto la logica
del profitto e la legge del più forte (militarmente ed
economicamente), ma quella della tolleranza e del rispetto
reciproco, della convivenza e dello sviluppo comune. Quando
la parola passa alle armi, quali che siano le ragioni e gli
avvenimenti che determinano questa scelta, si tratta sempre di
uno scontro tra inciviltà. Invece, questo nostro mondo
lacerato e insanguinato ha bisogno di riscoprire una nuova
umanità, un modo nuovo, radicalmente diverso, radicalmente più
giusto, non distruttivo, per affrontare e risolvere i
conflitti. Un modo radicalmente e rigorosamente nonviolento.
Un'utopia? Può sembrarlo, ma forse diventa credibile e
praticabile se osserviamo quanto l'opzione militare e la
politica (e l'economia) che preferiscono la risposta delle
armi non hanno mai prodotto stabilità, sicurezza e progresso.
Al contrario, hanno sempre rinnovato, esteso e moltiplicato i
conflitti e le vittime, specie civili. Allora - è il mio
auspicio e impegno - paradossalmente la terribile strage
dell'11 settembre potrebbe innescare un soprassalto di
lucidità nei governi e nella coscienza collettiva, nella
società civile globale, per interrompere finalmente la spirale
dell'odio e del terrore. Iniziando a metterne in discussione i
presupposti e sottraendosi al copione già scritto della
rappresaglia. Un copione di morte, sicuramente previsto e
fortemente voluto dagli occulti registi dell'11 settembre. Non
facciamo il loro gioco, vi prego.
* Gruppo Abele,
Torino
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