Le frontiere invalicabili del controllo sociale
In un volume edito da "Ombre Corte", la genealogia di uno tra i
più tangibili dispositivi del potere
ALESSANDRO DE GIORGI
Il riemergere negli ultimi anni di descrizioni "forti"
della società contemporanea e delle sue trasformazioni sembra
aver nutrito una rinascita di interesse verso le nuove geografie
degli apparati di controllo che a queste trasformazioni si
accompagnano. Ne è derivato un fermento analitico che ci ha
restituito descrizioni complessive della società (neoliberalismo,
Risikogesellschaft, società dell'incertezza) e allo
stesso tempo nuovi paradigmi capaci di dare una materialità a
quelle stesse descrizioni (postfordismo, globalizzazione,
Impero). Salti di paradigma, passaggi di fase e transizioni
epocali che hanno travolto spazi, tempi e pratiche tradizionali
del controllo sociale: dove il controllo era materiale subentra
l'immaterialità della sorveglianza, dove la società disciplinare
imponeva territori perimetrati si estendono ora spazi lisci, ai
luoghi della produzione e della punizione si sostituiscono i
non-luoghi dei flussi produttivi e del contenimento a distanza
delle popolazioni a rischio.
Nel suo Storia politica del filo spinato (Ombre Corte,
pp. 94, L. . 15.000) Olivier Razac sembra cercare un superamento di
questa apparente "infatuazione" verso tutto ciò che è
immaterialità, flusso, intangibilità e assenza, proponendoci la
storia di una fra le espressioni più materiali, concrete,
tangibili e ruvide del potere sui viventi: il filo spinato.
Più che di una storia si tratta di una vera e propria genealogia
di questo dispositivo di potere. Razac non intende infatti
fornire una ricostruzione puntuale dei diversi utilizzi del filo
(ricostruzione che pure è presente nel libro), quanto piuttosto
"cogliere quelle occorrenze del filo spinato che hanno chiare e
significative implicazioni politiche". Genealogia appunto, cioè
storia del presente di un dispositivo del potere: ed è infatti al
presente del filo spinato in quanto materializzazione di una
"gestione politica dello spazio" che Razac finalizza anche le sue
pagine di analisi storica. Le occorrenze che Razac descrive
permettono di ricomporre una cartografia di questo apparato di
sicurezza il cui leitmotiv è nella sua economicità.
Parliamo qui ovviamente di un'economia di potere. Il filo spinato
rappresenta efficacemente l'adattabilità dei dispositivi di
potere al mutare delle circostanze politiche e sociali su cui si
inscrivono. "Recinzione", "trincea" e "perimetro": queste le
occorrenze storiche del filo spinato su cui Razac si sofferma
nella prima parte del libro.
In principio strumento utilizzato dai coloni americani per la
recinzione dei campi occupati nel West americano ai danni delle
popolazioni indiane, il filo spinato riappare durante la Grande
Guerra come trincea, come "difesa accessoria" posta a presidio
del fronte di guerra. La terza occorrenza vede invece il filo
spinato come perimetrazione del campo di concentramento nazista:
violento confine cioè fra l'esterno e quell'interno in cui la
"nuda vita" descritta da Giorgio Agamben è interamente esposta.
Olivier Razac dimostra consapevolezza del fatto che le funzioni
di volta in volta attribuite a questo dispositivo di potere sono
in qualche modo sovrapponibili e fra loro collegate. Il filo
spinato che recinge i campi del West americano rappresenta
infatti anche una trincea contro le popolazioni indiane,
raffigurandone plasticamente il contenimento, il respingimento e
infine il genocidio. Così come a sua volta il perimetro del campo
è nuovamente la "recinzione" della nuda vita, la delimitazione di
quella soglia al di là della quale tutto diventa possibile.
L'autore articola abilmente la sua genealogia fra
rappresentazione dell'estrema dimensione plastica del potere ed
evocazione di un universo simbolico di cui il filo è immagine
potente: "da solo il filo spinato basta a evocare il campo di
concentramento o di prigionia e in generale l'oppressione. E'
diventato un simbolo, condensa in una evocazione grafica o
testuale schematica un insieme di raffigurazioni che lo superano
in quanto semplice oggetto".
Questa genealogia si salda efficacemente al presente della
"gestione politica dello spazio" nella seconda parte del libro,
dove l'autore si interroga sul destino attuale del filo spinato
in quanto dispositivo di definizione dei territori del potere: è
qui che il lavoro di Razac ci offre una preziosa analisi critica
delle dinamiche attuali del controllo. L'autore situa
correttamente l'emergenza del filo spinato nel contesto di quel
divenire biopolitico del dominio descritto da Foucault: il filo
spinato appare infatti, nella sua originaria funzione di
recinzione dei campi dei coloni americani, come strumento in
grado di difendere una proprietà produttiva dalle minacce
esterne. La dimensione biopolitica del filo spinato si condensa
qui nella sua capacità di tenere lontane dai campi coltivati le
mandrie degli allevatori senza però ferirle, senza cioè
pregiudicarne la produttività. "Respingere l'esterno" e
"preservare l'interno": è questa la valenza biopolitica del filo
nella sua apparizione originaria. Ma d'altra parte non sfugge a
Razac la progressiva inversione di questa caratterizzazione
biopolitica: le due occorrenze storiche successive (trincea e
campo di concentramento nazista) testimoniano infatti di una
radicale mutazione nell'essenza stessa del filo spinato. Questo
cessa di costituire un dispositivo di respingimento dell'esterno
e di preservazione dell'interno per diventare invece strumento di
delimitazione di un "dentro" rispetto a un "fuori" continuamente
mutevoli e ormai fra loro fungibili: il filo spinato diviene cioè
pura delimitazione, "soglia" fra diversi regimi di potere sulla
vita e sulla morte. Fino al momento in cui ciò che è perimetrato
dal filo spinato concretizza l'"esterno", il non-luogo in cui la
biopolitica si perverte in tanatopolitica, potere di "far morire
e lasciar vivere".
Il presente assiste alla scomparsa del filo spinato. Esso
scompare dal nostro paesaggio quotidiano perché "ogni uso
politico del filo spinato presenta un costo politico, tanto più
elevato quanto più il simbolo è fortemente percepito e la
sensibilità pubblica nei confronti della violenza politica o
sociale è acuta". Ma a ben guardare il filo spinato non scompare
realmente. Al limite adotta sembianze diverse, o addirittura si
spoglia di qualsiasi sembianza per assumere i contorni
indefinibili delle barriere immateriali che delimitano
discretamente, invisibilmente e impercettibilmente i territori
metropolitani: metal detector, telecamere a circuito
chiuso, interfacce d'accesso. Nuovamente, secondo Razac,
l'obbiettivo è di imporre limiti all'accesso, di delineare nuove
soglie e variabili confini: questo si verifica alle porte della
fortezza europea come all'ingresso dei centri commerciali, dei
parchi di divertimento tematici o dei quartieri residenziali e
delle gated communities americane.
Al sangue rappreso o ai brandelli di tessuto impigliati fra le
spine di ferro si sostituiscono ora le immagini artificiali di
corpi e oggetti sondati dai raggi X durante le "perquisizioni
immateriali" che accompagnano quotidianamente la nostra
esistenza. Coloro che devono restare fuori resteranno comunque
fuori: si tratti delle popolazioni migranti o dei "dannati della
metropoli", dei soggetti a rischio o dei nuovi poveri. Questo
"fuori" che non ha più bisogno di fili spinati per essere
riconoscibile a chi è "dentro" diventa sempre più "il non-luogo
in cui si produce il rovesciamento del 'far vivere' biopolitico
in un discreto 'lasciar morire' sociale o reale".
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