da "Il Manifesto"

14 Marzo 2001

Il cuore nero dell'intolleranza

ALESSANDRO PORTELLI

Un giovane guerriero dell'esercito croato spiegava nel 1993 che "Il confine storico tra croati e serbi è la Drina che è stata anche il confine tra l'impero romano d'occidente e quello d'oriente. Noi siamo stati nell'Impero Carolingio e poi siamo stati sotto gli Asburgo, i serbi sono stati sotto Bisanzio e poi sotto i turchi...". Ci sarebbe molto da ragionare su questa frase, citata da Guido Caldiron nel suo nuovo libro, La destra plurale. Dalla preferenza nazionale alla tolleranza zero (manifestolibri, pp. 359, L. . 29.000). Per esempio, potremmo ritrovarci un tema a cui siamo ormai abituati, l'uso strumentale della storia; oppure quello straordinario atteggiamento dei subalterni che si inorgogliscono per aver servito padroni più potenti dei padroni dei loro rivali. Ma io mi vorrei soffermare su un altro tema ancora, sulla parola più ripetuta: il confine. E infatti nel paragrafo successivo troviamo la stessa figura (e lo stesso uso della storia) dall'altra parte delle Drina, in bocca al presidente serbo Milosevic: "In Kosovo [nella battaglia di Kosovo Polje del 1389] i serbi non difendevano solo se stessi, ma tutta la civiltà d'Europa". C'è un gioco complicato e raffinato di spostamenti: il confine della civiltà ora include e ora esclude i serbi, a seconda che si collochi fra cattolicesimo e ortodossia (o fra occidente "latino" e oriente slavo), oppure fra cristianesimo e Islam. Questa figura mobile e bifronte del confine mi pare una chiave utile di lettura del notevole libro di Caldiron. Non è solo perché il confine, metaforico e reale, sta alla base di tutte le politiche e ideologie esclusioniste e identitarie che Caldiron descrive con dovizia straordinaria di informazioni (per cui per un confine che si abbatte sempre altri se ne rinforzano, e la costruzione europea ne mostra un segno), quanto perché suggerisce che la cosa importante non è tanto dove sia il confine quanto il fatto stesso di fare del confine la figura fondante non soltanto dell'identità ma anche dell'espansione. Per completare il paradosso, infatti, l'Occidente chiamato in causa da entrambi i lati della Drina ha finito per scegliersi un confine che li include e li esclude entrambi, quel Kosovo da dove l'Uck sconfina a ovest e a est, in Serbia e in Macedonia. In questo senso, capiamo meglio un altro paradosso che il libro mette in luce: quello per cui la cultura dell'estrema destra è sia un sottomondo confinato e chiuso, sia uno spazio che si espande invece sempre più nel senso comune. Per esempio, Caldiron descrive i codici, i miti, i rituali che fanno dei gruppi ultras una realtà quasi esoterica, ma poi aggiunge che "a ben guardare, anomala è l'intera città, non solo lo stadio." A Roma, infatti, "una diffusa cultura giovanile che si identifica, sia pure superficialmente, coi simboli del neonazismo, ha potuto mettere radici così estese". Ma non è solo Roma: una delle pagine più agghiaccianti del libro è la descrizione di Carnaby Street, cuore della Londra swinging dei Beatles e di Mary Quant, trasformata oggi in una Porta Portese internazionale della mercanzia neonazista. Come stanno insieme l'ideologia sotterranea dell'orgoglio di setta e l'attacco egemonico al senso comune? In un articolo recente della rivista inglese Cultural Values, la sociologa californiana Lisa Marie Cacho descrive la "ideologia della sofferenza bianca": la straordinaria retorica per cui "il popolo della California" (bianco e benestante) attraversa inaudite sofferenze a causa della presenza degli immigrati legali e illegali. Grazie e questa retorica, i sofferenti californiani hanno votato di escludere i figli degli immigrati dalle scuole e dagli ospedali. E' un esempio notevole di come l'ideologia di destra fa leva sulla paranoia dell'invasione e sul vittimismo diffuso, facendo sentire i suoi destinatari come membri di minoranze oppresse anche quando fanno parte di maggioranze oppressive o privilegiate, e quindi legittimati a protestare e a ribellarsi. Basta pensare alla retorica di liberazione e festa con cui il presidente della giunta regionale del Lazio, Storace, ha pensato di celebrare il rifiuto di dare la casa ai rom di via dei Gordiani (un quartiere popolare a sud di Roma, ndr): un atto di oppressione presentato come un evento di liberazione, facendo passare i rom come privilegiati (gli sciagurati manifesti sulle "ville agli zingari"): e se la cosa non gli è riuscita è anche perché a Casilino 23 - un altro quartire periferico romano - le sofferenze sono reali e gli abitanti non sono convinti di poterle risolvere a danno di altri sofferenti. Dirsi confinati in un ghetto, insomma, è lo strumento retorico su cui fondare l'espansione: il senso comune si ammanta di panni alternativi e antagonisti: l'esaltata retorica contro il materialismo e il profitto genera imperi commerciali e business miliardari, la retorica del ghetto diventa senso comune. Quando gli ultras da stadio si presentano come perseguitati dalla polizia e bollati dalla società, questo atteggiamento autoghettizzante risuona armonicamente con la paranoia del tifoso comune che si sente perseguitato dagli arbitri e dalla sfortuna. Dopo la polemica sugli slogan razzisti, la curva Nord dello stadio Olimpico laziale cantava "lo facciamo solo noi - buuu - buuu...". La parola chiave era quel "solo noi," minoranza emarginata e resistente - e magari fosse stato vero: purtroppo, come si leggeva in una recente inchiesta sullo Herald Tribune e come posso testimoniare anch'io, lo facevano anche brave madri di famiglia con bambine al fianco e tranquilli signori dei distinti. Queste sono soltanto alcune delle riflessioni che produce un libro importante, documentatissimo e lucido, come La destra plurale. I lettori del manifesto d'altronde, hanno da molto tempo Guido Caldiron come guida negli inferni delle culture di destra; ma vedere messa tutta insieme la massa di informazioni e la dovizia di collegamenti costruiti nel corso del tempo è veramente impressionante, una vera e propria enciclopedia e manuale delle molte destre d'Italia, d'Europa e del mondo. Vedendole tutte insieme, ci rendiamo conto della pluralità, della molteplicità delle destre - da Haider a Le Pen, dagli hammerskin americani a Forza Nuova, dal negazionismo alla fantascienza razzista, dal razzismo differenzialista al rock identitario... - ed è questo forse il contributo complessivo più importante del libro: la quantità fa qualità, in questo caso. Le destre sono molte, e continuamente si rimescolano e si trasformano, sono ineludibili e inafferrabili; sono rozze e sofisticate (fanno della rozzezza uno strumento sofisticato). Soprattutto, sono sempre in movimento, e sfuggono alla semplificazioni e alle consolazioni con cui crediamo di esorcizzarle. Ci vuole coraggio (intellettuale, ma penso anche fisico, almeno in certi casi) per entrare dentro questo mondo (per esempio: per andare a certi concerti), e molta lucidità per capirlo. Un libro come La destra plurale mostra l'uno e l'altra, e per questo ci serve.