da "Il Manifesto"

25 Febbraio 2001

Il totem distrutto

IDA DOMINIJANNI

" Per un pugno di voti si strumentalizzano le paure più ancestrali". Walter Veltroni rovescia palate di indignazione sull'identikit albanese del massacratore di Novi Ligure disegnato senza l'ombra del dubbio dagli esponenti del Polo. Fabio Mussi invoca la legge Mancino contro quel capolavoro di enunciato neonaziasta, "gruppi slavi geneticamente avvezzi all'efferatezza", pronunciato dall'onorevole Zacchera. Violante scopre che la faziosità politica produce barbarie. Fassino pretende le scuse per gli immigrati. Ci voleva Novi Ligure, per far ritrovare alla sinistra di governo una così limpida discriminante dalla politica della destra sulla sicurezza. Per farle riscoprire che il mostro può nascere dentro le mura di una città e non fra i barbari che l'assediano. Per farle ricordare che crimini e giustizia non sono solo questioni di devianza e di norma, di disordine e efficienza, ma hanno a che fare con delle coordinate più larghe: l'orizzonte di senso di una società che viene meno, il delirio individualista che spezza i vincoli della solidarietà, la politica ridotta a piccola guerriglia di potere che non produce più spirito pubblico. Volano alte e sentite adesso queste parole nell'intervento di Veltroni; ma quei manifesti elettorali di Rutelli sulla sicurezza, monumento alla rincorsa fra centrosinistra e centrodestra sulle paure ancestrali e sui pugni di voti, resteranno dove sono. E del resto i dirigenti ds glissano sulle prime dichiarazioni su Novi Ligure del candidato premier, che venerdì non aveva trovato di meglio da dire che il massacro rendeva tanto più urgente l'approvazione del pacchetto sicurezza. Né il guardasigilli e candidato vicepremier, da parte sua, demorde dal tentativo di far quadrare il cerchio fra sicurezza e garanzie ("Nessuna garanzia può trasformarsi in vulnerabilità sulla sicurezza"). A far presente che un qualche rischio di insicurezza è ineliminabile dalla libertà dei moderni ci dovrà pensare il sottosegretario Franco Corleone. C'è voluta Novi Ligure, ma sul tavolo scottante della sicurezza uno spostamento c'è, se la "percezione sociale" del rischio-criminalità non è più un totem da venerare ma un fattore emotivo, anzi isterico, da contrastare con una qualche razionalità politica. Su altri tavoli scottanti, invece, il partito di maggioranza relativa non esce dalle sue antiche contraddizioni, che si riassumono nella scissione fra enunciati e pratica. Perché il bilancio di legislatura sulla giustizia non può accontentarsi della pur sacrosanta rivendicazione delle buone riforme fatte, del collasso della macchina evitato, dell'efficienza ritrovata (o quasi). C'è pur sempre, e i leader che si alternano al microfono lo sanno e lo dicono, quella disfunzione primaria del sistema, che consiste in una alluvione legislativa portatrice di incertezza della norma, inefficienza della giurisdizione, inflazione della giurisprudenza. E come riparo, c'è la consueta promessa di rifare tutto secondo i principi del diritto penale minimo: meno leggi, più certe e meglio scritte, meno reati, pene più basse se si vogliono più certe, nuovo codice e riserva di codice; messa a regime del rito accusatorio e dei riti alternativi. Quando? Nella prossima legislatura. Ma perché e per chi in questa passata tutto è rimasto come prima? Scotta infine tuttora il tavolo, mai abbandonato da Berlusconi, dell'attacco all'obbligatorietà dell'azione penale e all'autonomia della magistratura. La giornata diessina assicura in materia tutte le dovute garanzie. Fatto sta che il bilancio di legislatura si concentra più sulla seconda parte del quinquennio, dominato dal tema-sicurezza, che sulla prima, infestata dal tentativo berlusconiano di terremotare l'ordinamento giudiziario. Tentativo che non è archiviato ma solo rinviato, e niente lascia sperare che non squasserà la legislatura prossima, fin da subito.