da "Il Manifesto"

13 Febbraio 2001

Dopo lo sgombero? Fango, palafitte e roulotte

Nel campo di via Salone vivono mille persone. Lontane da tutti, perché la nuova "vergogna" resti invisibile

CINZIA GUBBINI - ROMA

"Giorgio non c'è, lavora", anche la domenica, nelle piazze. Peccato, speravamo di incontrarlo. Stefano, un fotografo che in questi posti di nessuno ha stretto amicizie vere, aveva un regalo per lui, rom rumeno che di professione fa il violinista. Giorgio e sua moglie Maria vivevano in una baracca nel campo Casilino 700: hanno il permesso di soggiorno, ma lo sgombero del 17 ottobre 2000 non li ha risparmiati. Non hanno neppure avuto diritto ai container piazzati dal comune di Roma nei nuovi campi allestiti per gli sgomberati di Casilino 700 che avevano tutte le carte in regola per restare: permesso di soggiorno, figli scolarizzati, nessun precedente penale ostativo. Giorgio e Maria sono solo in due, e i container ospitano minimo tre persone. Così, quando al Casilino arrivarono le ruspe, portarono via anche la loro baracca. "Giorgio non c'era", ricorda oggi Maria, "io l'ho detto alla polizia: fermi coi tratturi". Niente da fare: tutto distrutto, compresi i violini con cui il marito si guadagna da vivere. Di risarcimenti da parte delle pubbliche istituzioni, quando si tratta di rom, non se ne parla. Qualcun altro invece ci ha pensato: un giornale danese scrisse la sua storia e il conservatorio di Copenaghen decise di regalare un violino nuovo di zecca al violinista rom. Un violino bellissimo, chiuso in una custodia di pelle nera. E' questo il regalo che oggi Stefano è venuto a portare. "Bello, bello", ringrazia Maria, che ci fa sedere su alcune sedie di plastica abbandonate sull'erba. Giorgio e Maria, insieme a tutti i "residui" di Casilino 700 - gente che non sarà "regolare", ma vive da decenni in Italia - dopo lo sgombero sono stati buttati in aree abusive in cui si erano accampati negli anni altri rom: Salone e Casilino 900. Trasformando accampamenti di per sé già indecenti, privi come sono di qualsiasi servizio, dall'acqua ai bagni, nei nuovi Casilino 700. Con una differenza, però: questi non li vede nessuno, lontani come sono dalle zone abitate. Giorgio e Maria sono andati a finire a Salone, un'area enorme, fangosa, dove vivono diversi gruppi di rom: bosniaci, serbi e rumeni. Questi ultimi sono arrivati scortati dai vigili urbani e si sono presi il posto peggiore, proprio alla fine del campo, in un posto in cui il terreno è più basso, tanto da dare l'impressione di essere in un canyon. Quando piove si creano delle pozze simili a piccoli laghetti, attraversarli a piedi è impossibile. Una sera Maria ha avuto un attacco di cuore. L'ambulanza l'ha aspettata fuori dal pantano, e lei si è incamminata sotto la pioggia. Perché le malattie nei campi rom sono tante, fisiche e psicologiche. A volte si tratta di patologie gravissime. Il nipote di Giorgio, nato da pochi mesi, per esempio è un bambino down. Sembra che i suoi parenti non lo sappiano, farglielo notare è difficile: ma possibile che i medici dell'ospedale in cui è nato non abbiano detto niente? Come hanno potuto rimandare mamma e bambino in un campo rom ridotto così? Intanto, in questa domenica pomeriggio, i ragazzi del campo si divertono: corrono all'impazzata con le auto, e ogni tanto rimangono impantanati nel fango, e allora tutti accorrono per spingere la macchina. In lontanza si vede un casale, "e lì chi ci abita?", chiedo a Marco, un bambino. "Io", risponde lui. Poi ammette "no, non è vero", e indica la sua roulotte. Tra queste persone le "teorie" sulla politica di integrazione sono quasi un'offesa. Intere famiglie vivono in roulotte scassate, molte sono quelle concesse dal Comune, ancora segnate dai numeri disegnati con lo spray rosso o nero dei censimenti. I rom che abitano a Salone da più anni, come Essad - detto Eso, un bosniaco - hanno superato il problema delle pozze costruendo baracche di legno che assomigliano a palafitte, per entrarvi bisogna salire gli scalini. Lo stratagemma, però, non salva dall'umidità e i pavimenti sono pieni di coperte e tappeti, molti più di quanto la cultura bosniaca non usi. "Siamo troppi, troppi", spiegano Eso e sua moglie. "E stiamo troppo lontano", aggiunge un'altra donna rom. Insomma, mille persone "espulse" dalla città. Che però ci sono, vivono. Con la penombra, la sera, nel campo si accendono mille falò, e l'aria si impregna di musica balcanica.