da "Il Manifesto"

04 Febbraio 2001

Tre galline e una capanna

Sotto i cavi dell'alta tensione e tra i fumi della centrale elettrica di Obilic, vivono in 700. I più fortunati nei container costruiti dall'Unhcr, il resto in costruzioni diroccate. Sono in maggioranza askaljia, ma anche rom e serbi fuggiti dalla Krajna. A occuparsi di loro sono i volontari dell'Ics, ma i fondi loro assegnati non bastano a sfamarli

ANGELO MASTRANDREA - INVIATO A OBILIC (Kosovo)

La stanza è arredata alla maniera askaljia: lungo tre pareti su quattro una sfilza di cuscini che fanno da sedia, divano o letto a seconda delle esigenze; su quella restante un armadietto e un fornellino; a terra moquette di colore grigio su cui passeggiano tranquille tre galline. "Ecco, questa è tutta la nostra vita", dice la padrona di casa accendendo l'ennesima sigaretta. Sua figlia, intanto, cerca di riassettare velocemente la stanza rimettendo a posto alcuni stracci e chiudendo il forno. L'aspetto della camera naturalmente non cambia, ma stupisce l'ospitalità e la voglia di apparire normali in un contesto di estrema povertà. In quei pochi metri quadri vivono in sei: la madre settantenne, la figlia che sicuramente dimostra molto più della sua vera età, e i quattro nipotini che giocano scalzi e malamente vestiti nel gelo balcanico. Fuori fiocca, ma è troppo freddo perché la neve scenda copiosa. Sono askaljia, nomadi - come tutti di origine indiana - che nelle loro peregrinazioni sono passati per l'Egitto, come loro stessi rivendicano. Fino a qualche tempo fa si definivano egiziani, poi hanno scovato questo nuovo nome per smarcarsi dalle accuse di collaborazionismo con i serbi. A Rambouillet, infatti, il loro rappresentante, insieme a quello dei rom, aveva votato per il rispetto dei diritti delle minoranze. Ed era bastato questo episodio per suscitare le ire degli estremisti albanesi. Gli askalija costituiscono la parte più consistente degli abitanti del campo di Plemetina, enclave tra le tante nel Kosovo affatto pacificato. Sono loro i più poveri tra i poveri del Kosovo, nonostante gli aiuti dell'Unhcr e lo sforzo dei volontari del Consorzio italiano di solidarietà (Ics), tra le poche ong rimaste nel paese dopo la fine della Missione Arcobaleno (a cui loro polemicamente non hanno preso parte). "Mio marito si ubriacava in continuazione, finché un giorno è morto", racconta candidamente la figlia mentre la madre ci prepara un ottimo caffé turco. Finalmente qualcuno che non ci offre l'immancabile grappa, pensiamo, e la cosa ci rallegra non poco. La loro unica attività è quella di cucire a mano degli indumenti che poi espongono e mettono in vendita nel centro sociale costruito in mezzo al campo. Oltre a questo e alle tre galline, nella loro vita c'è poco altro. Dalla Krajna a BabaloceIl campo di Obilic è il più grande di tutto il Kosovo. Attualmente ci vivono in 702, in maggioranza askaljia, ma anche una sessantina di famiglie rom e altre trenta serbe, scappate dalla Krajna nel '95 e mandate dal regime di Milosevic a vivere in Kosovo per riequilibrare la disparità demografica nei confronti degli albanesi. A questo proposito il governo di Belgrado aveva costruito dei villaggi ex novo, come quello di Babaloce, che abbiamo visitato nel nostro breve viaggio in Kosovo. Babaloce te lo trovi improvvisamente di fronte in una vallata verde sulla strada per Djakova, e hai subito l'impressione di una nota stonata con tutto il resto. Si tratta di una serie di casette a un piano, a schiera, tutte bianche e uguali. Non c'è centro né periferia, né punti di riferimento. Ora il villaggio è una roccaforte degli ex combattenti dell'Uck, e per questo non stupisce vedere in giro automobili con esposta la bandiera albanese come da noi si vedono solo la domenica allo stadio. Invece di raderlo al suolo come il resto delle case serbe, i capi guerriglieri hanno pensato bene di prenderselo per loro. Così, i serbi della Krajna si ritrovano ancora una volta profughi e costretti a condizioni di vita ai limiti della decenza. In realtà, il campo di Plemetina non è il peggiore, visto che quasi tutti abitano in costruzioni in muratura o container. Per vedere di peggio basta spostarsi di pochi metri, tra i rom che vivono nel campo non attrezzato. Ma i problemi restano tanti: quei pali dell'alta tensione che passano sulle baracche, la confinante centrale elettrica con il suo fumo che ha formato una vera e propria collina artificiale e che, nei giorni di vento, porta una polvere nera sul campo. Si tratta dell'impianto che fornisce l'elettricità a tutto il Kosovo. Ma la produzione non basta a soddisfare le esigenze della regione, e così l'elettricità è razionata e bisogna arrangiarsi con i generatori. Rom e askaljia sono sopportati quanto basta per consentirgli di chiedere l'elemosina ai margini delle strade, ma non per evitare gli assalti delle bande armate albanesi alle loro case e alle loro vite, nonostante gli askaljia parlino solo albanese. I rom, invece, parlano correntemente serbo e albanese, ma in casa si esprimono in romanes. Va peggio per i serbi, che non possono uscire dalle loro enclave, e spesso rischiano anche a casa loro. "Una patata alla settimana" Il campo è diviso in tre settori, recintati. Al centro, accanto al centro sociale, al cui interno c'è anche una piccola biblioteca per bambini, lavorano i volontari dell'Ics, a cui l'Unhcr (l'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati) ha concesso la gestione del campo. Negli uffici è un continuo viavai di gente. La vita tra gli abitanti del campo si svolge tutta collettivamente, per cui negli uffici rom e askaljia arrivano quasi sempre a gruppi. Le richieste sono legate alle proprie esigenze: la distribuzione del cibo, qualche piccola lamentela, e così via dicendo. Le visite mediche avvengono il mercoledì mattina. Ci spostiamo verso un container che fa da scuola, due stanze per 130 bambini. "Ma solo 92 frequentano regolarmente" dice Bajrush Berisha, direttore, insegnante e uno dei tre leader del campo. "Qui insegnamo per un'ora al giorno in serbo, il resto in albanese", continua. Nel campo si fa la fame e si muore di freddo, ma per i suoi leader il problema principale è la mancanza di libertà. "Ci piacerebbe mandare i nostri bambini in giro per il Kosovo e magari anche fuori", dice Bajrush, ma i conflitti etnici e la povertà non lo permettono. Altro problema gli aiuti: "Abbiamo bisogno di tutto, soprattutto di cibo". "Tu quante patate mangi in un giorno?", chiede provocatoriamente Bajrush, cui fa eco Nasser Adimi, altro leader del campo. "A noi danno solo una patata a persona a settimana", prosegue. Patate a parte, il problema dell'alimentazione è sottolineato anche dai volontari dell'Ics. "Siamo costretti a razionare gli alimenti", dicono. L'Unhcr, infatti, dà appena dodicimila lire al mese a persona per il cibo. Anche tenendo conto del basso costo della vita in Kosovo (lo stipendio medio si aggira sulle 400mila lire al mese, mentre i dipendenti delle organizzazioni internazionali sfiorano il milione al mese) si tratta di cifre troppo basse. Il World food programme, poi, provvede a fornire alimenti di base come olio e farina. Nell'enclave di Gracanica Il ristorante somiglia a un piccolo castello bianco. In un'enclave serba non ti aspetteresti mai di trovare una costruzione così nuova e quella bandiera a stelle e strisce che stride con il nazionalismo serbo e la musica balcanica che ascolti all'interno. Anche a Gracanica, come in ogni paese serbo, c'è una Casa della cultura di tutto rispetto, circondata da un bel parco verde con delle panchine. All'interno i ragazzi del paese hanno organizzato Radio Gracanica, una piccola emittente libera come da noi forse solo negli anni '70. In tutta la zona i serbi sono apparentemente più in grado di muoversi da un villaggio all'altro senza bisogno di scorta, e non vedi tutti quei check point della Kfor come avevamo notato a Goradzevac. Anche i villaggi albanesi in ricostruzione non sono così blindati come quelli della valle della Drenica: poche case in mattoni recintate da alti muri di cinta, anch'essi in mattoni. Cosicché, per entrare in paese, devi bussare a un portone metallico. Quando poi, il giorno dopo, scorriamo la rassegna stampa quotidiana della Kfor e leggiamo di quell'agguato che c'è stato il giorno precedente sulla stessa strada che noi avevamo percorso senza avere sentore di nulla, capiamo che la quiete è molto più pericolosa di quanto appaia, e che la guerra non hai bisogno di vederla per sapere che c'è. Il comunicato è scarno: un proiettile ha attraversato un'auto con a bordo dei serbi e scortata dalla Kfor, ma non c'è stato alcun ferito. In una settimana di permanenza in Kosovo, abbiamo avuto notizia di diversi conflitti a fuoco, il più grave in un night di Djakova, in cui hanno perso la vita due "allievi" del Tmk, gli ex guerriglieri dell'Uck trasformati in protezione civile del Kosovo, di cui abbiamo seguito le esercitazioni proprio nel giorno dei funerali dei loro compagni. Li guardi in volto, questi ragazzotti impegnati sotto la pioggia nel finto salvataggio di un moribondo, e spesso non riesci a immaginarteli come gente che ha combattuto e ucciso. Eppure è così, e gli istruttori (militari italiani della Kfor) confermano che un buon venti per cento di loro ha commesso crimini di guerra. Per ora, la loro attività principale consiste nel rimuovere le carcasse delle auto dai bordi delle strade. In futuro, dovrebbero svolgere tutti i compiti di protezione civile, alla guida dell'ex comandante guerrigliero Agim Ceku. Ma in Kosovo girano ancora troppe armi, le tensioni etniche non sono affatto placate, e l'attività più redditizia è quella malavitosa, assolutamente trasversale. Per cui gli scontri fra bande sono sempre più frequenti e sanguinosi, e il pizzo sta diventando l'unica tassa da pagare per i commercianti. In questo contesto, fioriscono le compagnie di difesa private, che si dice anch'esse organizzate e gestite dalla malavita. In buona sostanza, un'altra forma per pagare una tangente e ottenere sicurezza. Da questo punto di vista, si può ritenere che il Kosovo abbia raggiunto il suo scopo: occidentalizzarsi a ogni costo.

3 - fine. Le precedenti puntate il 2 e 3 febbraio 2001