da "Il Manifesto"

02 Febbraio 2001

Rom in giacca e cravatta

LA STORIA Dall'infanzia a Pristina alla guerra in Bosnia Quando si è costretti a fare i conti con la propria identità

ORHAN GALHIUS

Sono nato a Pristina, in Kosovo, 43 anni fa. E lì sono cresciuto. Sono di origine rom, ma preferisco non parlare di etnicità perché non sono abituato a ragionare in questi termini. Nella mia famiglia abbiamo solo e sempre detto che siamo esseri umani. A volte, parlando tra noi, usiamo il termine gagi in riferimento ai non rom, ma non è un vocabolo peggiorativo, o perlomeno non più di quanto lo sia zingari in italiano. Spesso la gente mi vede diverso e mi chiede se sono ebreo, o italiano, o arabo. Quando dico che sono rom non mi credono, non riescono ad accettare che una persona come me, un giornalista, un uomo pulito e ben vestito - cioè una persona che è, sostanzialmente, come loro si vedono - sia anche un rom (...). In Kosovo gli atti amministrativi erano redatti in tre lingue: turco, albanese e serbo. Mai in romanes. Come rom non dovevamo esistere. Dovevamo dichiararci albanesi, o turchi. La mia famiglia conserva ancora vecchi documenti in cui risultiamo albanesi e altri in cui siamo turchi. Quando mi sono iscritto alle scuole secondarie ho compilato i moduli come rom e non mi hanno accettato. Li ho riscritti come turco, e non mi hanno accettato. Infine come albanese, e allora mi hanno accettato. Nelle scuole le desinenze dei nostri cognomi venivano cambiate, in modo da aumentare le percentuali etniche di albanesi e turchi. Trasformati, molti cognomi assumevano un significato degradante, come Vragovic che in serbo significa, più o meno, "di origini diaboliche" (...). Il mio primo giorno di scuola fui convocato dalla preside. Mi disse che sapeva che non ero albanese. Non potei negare. Risposi che ero rom ma che sulla carta risultavo albanese. Fui costretto a capire che era un gioco politico, ma anche che la mia identità era più forte di quel gioco. Un giorno un insegnante disse alla classe chi ero e che lavoravo in un'associazione culturale rom a Pristina. Poi chiese ai miei compagni di appoggiarmi e aiutarmi. Ne fui orgoglioso. Negli anni l'associazione diventò importante, mettemmo anche in piedi un teatro. A Pristina, prima della guerra, c'erano molti artisti, intellettuali, professori e giornalisti di origine rom. Poi vennero tempi feroci. Furono i giorni della guerra, i giorni in cui cercarono di dividerci, per etnia e per religione. Chi riuscì scappò, lasciando quello che aveva. Dopo la guerra in Bosnia qualcuno provò a tornare, ma trovò case occupate e odio, mentre nelle strade del Kosovo le donne venivano picchiate e i rom uccisi. Oggi i rom sono gli ultimi jugoslavi. Quelli del Kosovo hanno parenti in tutte le ex repubbliche, anche se ormai in condizioni terribili (...). In Kosovo molti di noi sono musulmani e altri sono cristiani. Alcuni sono per gli albanesi, altri per i serbi. Ma tutti sono in mezzo (...).Adesso i rom del Kosovo, come quelli della Bosnia, sono profughi, rifugiati, ma nessuno parla di loro. Ci sono casi in cui non sono stati aiutati nemmeno dalle associazioni umanitarie. Ma la Jugoslavia non è il solo paese dove la mia origine mi ha causato problemi. L'Europa riconosce solo identità codificate. Dieci anni fui invitato a un congresso a Dublino. Avevo il passaporto jugoslavo. Nonostante l'invito del ministero irlandese e il visto di ritorno non mi lasciarono entrare. Mi ammanettarono e mi rimandarono indietro: ero rom e jugoslavo.