da "Il Manifesto"

18 Gennaio 2001

Viaggio nei campi "nomadi" della capitale d'Italia. Seconda puntata

Case o campi? Campi piccoli o grandi? "Chiedetelo ai rom" ci risponde l'antropologo Piasere. Così, dopo le immense baraccopoli della scorsa puntata, eccoci nel "piccolo è un po'meglio"

GIOVANNA BOURSIER

Leonardo Piasere, docente di antropologia sociale all'università di Firenze, è autore di numerosi libri sui rom e sui sinti. L'ultimo, in ordine di tempo, è Un mondo di mondi, titolo azzeccato per dire che il loro universo raccoglie in sé mondi plurimi costruiti in relazione ai non rom, che loro chiamano gage. In Italia, è uno dei pochi studiosi che davvero conoscono i rom. Chi sono gli "zingari"? Zingari e gage sono due invenzioni, due costruzioni sociali edificate nel corso dei secoli da chi non si riteneva zingaro, da un lato, o gagio, dall'altro. Ma proprio perchè sono due vicendevoli creazioni storico-sociali sono anche maledettamente reali: zingari e non zingari sono convinti dell'esistenza gli uni degli altri e, quindi, sono anche convinti che gli altri sbaglino invariabilmente a costruire se stessi. E arriviamo al problema della generale ignoranza sui rom... Dal momento che gli zingari vivono tra noi da secoli è ovvio che sia stata costruita una conoscenza su di loro che è, però, quasi esclusivamente, basata sulla ripetitività: la maggior parte degli studiosi non fa ricerca ma crede di sapere già tutto sui rom. Questo è evidente nel caso della cosiddetta ziganologia, una disciplina di imitazione, in cui si rincorrono notizie che ribadiscono un'immagine dei rom, che continua a omologarli in pregiudizi e stereotipi, all'occasione solo ritoccati come conviene. Anche il nomadismo è uno stereotipo? La diatriba tra nomadismo e sedentarietà è ininfluente. Come sempre tendiamo a guardare la realtà dal nostro punto di vista chiedendoci solo se sono o non sono nomadi. E se non fossero né l'uno né l'altro? La maggior parte di quelli che vengono definiti nomadi lo sono in rapporto al tempo e allo spazio geografico, cioè in determinate località e per certi periodi: conosco gruppi che nomadizzano solo alcune settimane o mesi dell'anno. In effetti la vera caratteristica del nomadismo rom è di non esserlo mai completamente. E, soprattutto, per loro il problema è assolutamente inessenziale, tanto che in romanes la differenza tra nomadi e non nemmeno esiste, e l'unica parola traducibile con nomadismo indica i poveri vagabondi gage. Siamo noi che vogliamo schematizzare: trattiamo da nomadi quelli che non lo sono mai stati, come quelli del Kosovo, o di parte della Romania e della Serbia, e li mettiamo in campi in cui non hanno mai vissuto. E trattiamo da sedentari quelli che da secoli praticano la mobilità, come i sinti del nord, i rom sloveno-croati e i grandi gruppi nomadi internazionali, i Lovara e i Kalderasa. Assistiamo, quindi, a un curioso ribaltamento delle situazioni: diamo le case ai sinti di Mantova che non le vogliono mentre a quelli del Kosovo, che le chiedono, non gliele vogliamo dare. In più è indubbio che, con le grandi migrazioni degli ultimi anni dalla ex-Jugoslavia la maggioranza di quelli che oggi sono nei campi vorrebbe vivere in case, come era abituata. Ma i campi hanno ancora senso? Anche i campi sono creazioni nostre. Nati dalle rivendicazioni della fine degli anni '60, erano una possibilità in quel momento di grande immigrazione, ma sono diventati ghetti giganteschi, con funzioni di controllo, ricatto e assimilazione. O, come la chiamo io, di rieducazione forzata. A Torino, all'inizio degli anni '80, i coordinatori comunali scrivevano con lo spray i numeri sulle roulottes e pretendevano che le famiglie esponessero le loro foto, come facevano i nazisti con gli ebrei. I campi sono davvero tra le più grandi brutture dell'Italia del dopoguerra. Chi deve preoccuparsi dei rom? Gli stati nazionali non li hanno mai voluti e infatti sono sempre stati gli organismi sovranazionali a legiferare per loro. Anche oggi abbiamo alti statuti a livello europeo e bassi a livello nazionale. I rom, in qualche modo, sono vittime storiche del razzismo. Ma la situazione sta peggiorando, sia dal punto di vista della tolleranza burocratica, sia da quello della tolleranza istituzionale. Forse questo è anche dovuto al fatto che quando è cominciato l'ultimo grande flusso dai Balcani alcuni comuni hanno davvero provato a fare qualcosa, ma lo hanno fatto continuando a ragionare solo dal loro punto di vista, con schemi burocratici fallimentari che hanno diffuso un senso di ineluttabilità. Invece basterebbe considerarli persone. E parlare con loro. Basterebbero piccoli progetti, non interventi quadro fatti solo per togliersi il problema. In certi casi basterebbero insediamenti piccoli, localizzazioni per gruppi famigliari. Quando lo si è fatto ha funzionato: per esempio a Firenze o a Verona dove gruppi di famiglie si gestiscono benissimo da anni. Ma, con rare eccezioni personali, le istituzioni non si abbassano a parlare con loro. Al massimo si rivolgono alle associazioni, che non sono rom e quindi lavorano per cambiare condizioni di altri utilizzando categorie proprie. Alla fine i rom scompaiono, con i loro bisogni. E si aumentano le distanze tra chi impone e chi è costretto a subire. Per superare i problemi la capacità di parlarsi tra persone, anche diverse, deve far parte della cultura del paese. Va tenuto presente che, dal punto di vista rom, è sempre stato essenziale mantenere il più basso possibile il grado di conflittualità con le società ospiti. Siamo noi che abbiamo in testa questo schema d'integrazione. Noi la trasformiamo in assimilazione. L'integrazione non è questo: è stabilire modalità di reciproca convivenza e comunicazione in cui ciascuno mantiene propri codici identitari e culturali. 2 - continua. La precedente puntata il 4/1