UN CONCETTO DI DEBOLE IDENTITA'
I CONFINI IDEOLOGICI DEL RAZZISMO
Alla luce del caso Haider torna utile la lettura degli oltre trenta saggi che compongono il volume "Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d'Italia. 1870-1945", a cura di Alberto Burgio (Il Mulino)
 

- GIROLAMO IMBRUGLIA -

da "Il Manifesto" del 15 Febbraio 2000

E' difficile essere austriaci, ha scritto Magris; è anche difficile capire cosa avviene in Austria. L'idea di un possibile governo di partiti xenofobi con consolidate matrici fasciste è in genere ricondotta ai paesi in cui il razzismo fa parte della storia: Italia, Francia, Germania, Spagna. Una prima fonte di disagio viene, dunque, dalla storia: non è agevole applicare categorie come quella di razzismo a una società rispettata. Che le cose non stiano proprio così per l'Austria, lo rivela la biografia della famiglia Haider, che smentisce uno dei grandi assiomi della rappresentazione e dell'autorappresentazione austriaca di questo dopoguerra: di essere stata, cioè, l'Austria vittima e non compartecipe dell'imperialismo hitleriano. Dissolta questa illusione, nata tra gli Alleati stessi alla fine della guerra, desta minore meraviglia vedere come Haider abbia trovato nel passato della nazione strumenti forse rimossi, ma ancora oliati. Inoltre, è da sottolineare come l'adesione austriaca all'Europa (la più alta di tutte, con oltre i due terzi dell'elettorato favorevoli) abbia posto nuovi problemi sociali, politici e ideologici agli austriaci, impegnati a ridefinire la propria identità attraverso un processo profondo e complicato.La neutralità scelta nel 1955, che aveva consentito all'Austria di trovare una centralità est-ovest e di ricollegarsi, oltre il nazismo e il pangermanesimo, con l'epoca monarchica, è stata infranta dall'avvento dell'unità europea. L'adesione all'Europa, infatti, da un lato mette in crisi l'identità dello stato nazione, ma d'altro canto esige il rispetto del pluralismo culturale: pertanto si creano condizioni di instabilità e si attivano processi di identità collettivi bisognosi di un punto di riferimento che può essere la dimensione regionale, ovvero modelli ulteriormente cosmopoliti, o il ritorno ad identità arcaiche. Si direbbe che per l'Austria questa sia la soluzione attualmente prevalente. A Haider possono essere tributati gli appellativi di fascista o populista di destra; ma il richiamo al passato nazista è da lui soppiantato da una forte retorica patriottica, che si unisce alle spinte xenofobe. C'è da temere che la spinta al nazionalismo riceva ulteriore incremento, in un'area di tensioni antiche e tuttora irrisolte. Ovvio che l'Europa si sia sentita minacciata. Ma un altro disagio consiste pure nell'applicare la categoria di razzismo ad una politica che sembra, per ora, avere una volontà di discriminazione e che nasce da tensioni contraddittorie. E' plausibile questo uso del termine razzismo? Per rispondere a questo interrogativo può esserci utile il volume Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d'Italia. 1870-1945: anzitutto perché gli oltre trenta articoli, disegnando un quadro della ricerca contemporanea su questo problema, costituiscono un buon punto di partenza per approfondire i vari temi discussi. Il libro riproduce gli atti del primo convegno promosso dal "Centro studi sulla teoria e la storia del razzismo italiano" nel 1997, un'iniziativa seria, che collega chi voglia capire e combattere il razzismo. Ma aver unito molti punti di vista offre anche altri risultati. La storia d'Italia che viene così ricostruita non è più quella di italiani sempre vittime e comunque 'brava gente', ma fa vedere come, anche presso di noi, il razzismo abbia avuto radici profonde e forti. La nostra storia è identica a quella dell'Europa. Accanto a tale chiarimento, magari non originale ma utilmente ribadito, si ha poi un allargamento dell'oggetto di analisi. Il razzismo di cui si traccia la storia italiana non sta soltanto nello scontro tra i gruppi che, nonostante ogni verosimiglianza scientifica, si definiscono tradizionalmente razze. Alberto Burgio, infatti, nella sua Introduzione, che sembra il tacito assunto teorico di quasi tutti gli altri saggi (se ne allontana Anna Rossi Doria, sottolineando la discontinuità tra discriminazione e razzismo), propone una diversa teoria: se sorretti da meccanismi ideologici funzionali alla loro legittimazione, i processi discriminatori su gruppi sociali avvertiti come minacciosi creano la loro razzizzazione, che può, attraverso ulteriori mediazioni e sotto la spinta di più radicali tensioni, sfociare nel razzismo.La pratica razzista deriva perciò da un discorso ideologico che legittima la discriminazione, ma non ne è sempre la necessaria conclusione. Una visione discriminatoria di un gruppo diviene razzista quando la differenza da culturale viene trasformata in naturale: ovvero quando al gruppo giudicato pericoloso vengono attribuiti tratti specifici presentati come caratteristiche fisico-naturali, trasmessi per via ereditaria. Il conflitto, da storico, viene trasposto su un piano naturalistico e la sopraffazione è legittimata come opera della natura. E' la "biologizzazione del pensiero sociale", ha scritto Colette Guillaumin. In questo modo, ad essere oggetto potenziale di razzismo - secondo Burgio - non è più il gruppo umano già definito in termini naturalistici (le razze, appunto), ma è qualsiasi gruppo: oggetto di razzismo possono essere gli omosessuali come gli zingari, i meridionali come gli sloveni o i banditi, a condizione che il meccanismo ideologico consenta la trasposizione dal piano sociale a quello naturalistico. Le implicazioni pratiche di questa impostazione sono evidenti e possono aiutare a superare il disagio di cui si parlava all'inizio e a ravvisare nel razzismo un probabile esito della politica populista. E' quindi giustificata la preoccupazione che l'affermazione di una simile politica suscita. Da un punto di vista storico, la definizione in questi termini del razzismo sembra però problematica. Anche in Italia, per assicurare l'identità nazionale, l'omogeneità culturale e la conseguente costruzione dei dispositivi della cittadinanza parve indispensabile alle élites dominanti ricorrere ad un radicamento etnico. Ogni pericolo di sovversione o di resistenza a quel processo di nazionalizzazione fu di conseguenza spesso pensato in termini naturalistici. Negli anni '60 dell'Ottocento, ad esempio, l'immagine dei briganti - scrive Pier Paolo Poggio - acquistò i tratti del razzismo e servì alla persecuzione della popolazione contadina e delle classi lavoratrici, che si temeva potessero ribellarsi. Un deputato avellinese scrisse che si vedevano "tutti i giorni le vette dei monti circostanti coronate da briganti, intesi a provocare e ad attirare a loro gli operai addetti giù nella pianura ai lavori della ferrovia". Il mondo contadino meridionale era specularmente assimilato a quello africano, per confermare l'estraneità di entrambi alla cultura europea e nord-italiana, e per mostrare la necessità di un rigoroso processo di civilizzazione che li rendesse, se non partecipi, almeno utili a quella cultura.Questa idea di politica e di società incontrò resistenze: Napoleone Colajanni combatté con acutezza e passione le teorie razziste, in difesa della razza maledetta, e di una differente idea di nazione. Siffatto tipo di disciplinamento sociale fu chiaro nell'avventura coloniale. Nella Costruzione dell'immagine dell'Africa e degli africani nell'Italia coloniale, Triulzi mette in luce il nesso dell'ideologia coloniale e razzista con la volontà di propaganda del fascismo, e con la sua pervasività nell'immaginario personale, dove penetrò grazie alla diffusione delle fotografie nelle famiglie. Il sentimento razzista trovava realtà negli scatti della Kodak del 'buon' soldato. Nelle immagini di un mondo giudicato inferiore e dunque svalorizzato, l'ideologia individuale si saldava con l'appartenenza e l'ubbidienza al nuovo stato e ai suoi valori. La terza sezione del volume è dedicata all'antisemitismo italiano. "Cani" chiamava gli ebrei Pio IX, assicurando loro che sarebbe ben venuto "il terribile giorno della divina vendetta, che dovranno pur rendere conto delle iniquità che hanno commesse". Giovanni Miccoli mostra perfettamente come l'antisemitismo facesse parte e del mondo cattolico e dei suoi vertici di Roma, analizzando i diversi atteggiamenti che a fine Ottocento questi ebbero di fronte ai cristiano-sociali austriaci. Protagonisti, peraltro, di un violento antisemitismo che non trovò alcuna resistenza. Nell'affare Dreyfus, soltanto per tardivo opportunismo fu presa una posizione più distante dal violento antiebraismo del clero francese. Non faceva parte del bagaglio intellettuale e morale della chiesa cattolica la condanna dell'antisemitismo. Il mondo ebraico rappresentò anche in Italia il pericolo della libertà e della uguaglianza. Aver dedicato una sezione al problema dell'antisemitismo mi sembra confermare come sia troppo rigida la tesi dell'equivalenza tra razzismo e discriminazione di altre forme di alterità. Il caso che si avvicina al modello teorico è quello proposto da Enzo Collotti sul Razzismo antisloveno. Ma qui appunto sono in gioco gruppi sociali che si affrontano già pensandosi in termini etnici. In questo volume si descrivono molte altre pratiche discriminatorie che si sono affermate nell'Italia unita, ma non pare perspicuo il passaggio da questa dimensione, beninteso terribile per la violenza esercitata e la sofferenza creata alle vittime, al razzismo.Le ricerche qui presentate sul mondo femminile, sugli omosessuali, sulla follia mi sembrano chiare. Resta in ombra, nel lavoro di Burgio, come si formino le pratiche discriminatorie: in Il razzismo e le sue storie (Napoli, ESI, 1992, a cura di chi scrive), John Dunn pubblicò un saggio ancora utile su questo tema. La volontà di legittimare tali pratiche si è fissata, più che nella nozione di razzismo, in quella di devianza, e all'analisi delle idee di devianza durante il fascismo è infatti dedicata l'ultima sezione del volume. Il ricorso alla scienza vi si rivelò decisivo, perché rappresentò il terreno sul quale ideologia e pratica si incrociarono e non soltanto consentì, in negativo, l'esclusione di soggetti e gruppi giudicati pericolosi, ma permise di instaurare pratiche 'positive', volte a guidare il comportamento dei cittadini. Lo mostra Claudio Pogliano nel suo saggio sull'eugenica italiana. Questa tematica tipica della medicina dell'800 si trasformò con il fascismo nel problema biopolitico della razza. Servì a condannare altre razze, ma pure a definire strategie per proteggere quella eletta e per migliorare la vita degli individui sani e probi. Migliorismo eugenetico e medicina costituzionalistica condivisero la tensione verso l'"uomo totale", capace di accettare la felicità indotta dall'alto. Mentre scompariva dalla vita politica, privato di libertà e di diritti, l'individuo vi rientrava come la cellula manipolabile dell'organismo fascista. Totalitarismo, xenofobia, razzismo si svelano circolarmente collegati e legati all'intolleranza e all'odio per le devianze.