il manifesto - 18 Maggio 2004

STATI UNITI
L'ultima invasione dell'America
Huntington Il politogolo Usa evoca un nuovo scontro di civiltà: con gli ispanici
FRANCESCO DRAGOSEI
Un nuovo spettro si aggira in questi giorni per l'America. Lo evoca, dalle pagine di Foreign Policy colui che può essere oggi considerato il più famoso politologo, storico e futurologo americano: Samuel Huntington. 72 anni, professore di Harvard, già direttore di Foreign Policy, autore, soprattutto, del celebre, controverso The Clash of Civilizations (1993; in italiano: Lo scontro delle civiltà). In un lungo articolo intitolato «The Hispanic Challenge» (la sfida ispanica), Huntington lancia un grido d'allarme per un conflitto in atto all'interno degli Stati Uniti e destinato addirittura a cambiarne i connotati, a spaccarne l'unità culturale, linguistica, politica. Si tratta della minacciosa avanzata degli statunitensi di origine ispanica (portoricani, cubani e, soprattutto, i confinanti e terribilmente prolifici messicani) ai danni degli Anglos, vale a dire gli statunitensi bianchi non ispanici. Secondo Huntington l'aspetto preoccupante di questa ennesima ondata migratoria che investe gli Usa consiste nel fatto che nonostante le apparenze essa è totalmente (perniciosamente) diversa dalle «normali» ondate d'antan, quelle cioè regolarmente assorbite e metabolizzate dagli Stati Uniti in vari altri momenti della loro storia. Diversa per vari aspetti. Perché i vicinissimi messicani, a differenza dei vecchi emigranti (tedeschi, svedesi, italiani, ecc.), non sono costretti dalla grande distanza con la madre patria a tagliare i ponti e ad assimilarsi, ma tendono viceversa a conservare i legami con i parenti e amici oltre confine. Diversa perché particolarmente massiccia e compatta. Al punto che nel 2050 il totale degli statunitensi ispanici dovrebbe costituire il 25% dell'intera popolazione Usa. Diversa perché con il loro concentrarsi quasi esclusivamente in certi stati o città (ad esempio, Los Angeles) i messicani-statunitensi (o chicanos) rischiano di creare delle enclave cities, delle vere e proprie città straniere all'interno degli Usa. Diversa infine perché il Messico è «l'unico paese che gli Stati Uniti abbiano non solo occupato ma anche in parte annesso» dopo la guerra del 1846-48. E dunque non sarebbe mai appassita nei messicani la mala pianta di un sotterraneo desiderio di «reconquista» dei loro antichi territori (gli attuali Texas, California, Nevada, New Mexico, Utah, nonché gran parte di Arizona, Colorado, Wyoming).

Simbolo stesso di tale resistenza messicana all'assimilazione entro l'America anglosassone è la guerra culturale da tempo ingaggiata dallo spagnolo contro l'inglese. Mentre gli antichi immigrati si arrendevano presto all'assimilazione e in primo luogo alla lingua inglese i messicani (e i Latinos in generale) mostrano una pervicace tendenza a conservare lo spagnolo non solo come lingua parlata in famiglia ma addirittura imposta, talora, agli statunitensi anglofoni. Di questo passo, avverte Huntington, il rischio è che altre città degli Stati Uniti seguano presto il destino di Miami: città fisicamente dentro lo stato della Florida e gli Stati Uniti, ma di fatto totalmente cubana. Anche se odiatrice di Castro.

Se gli americani, conclude cupo Huntington, continueranno a essere arrendevoli con latinos e messicani come lo sono stati di volta in volta i vari Richard Riley (ex ministro dell'istruzione), o Clinton, o George W. Bush, si rischia di avere presto due nazioni separate da una faglia non solo linguistica ma addirittura di odio etnico. O di ritrovarsi «un movimento anti-ispanico, anti-nero, anti-immigrati [di] nazionalisti bianchi [...] convinti che i mutamenti demografici preludano allo spodestamento della cultura bianca da parte di culture nere o di pelle scura e intellettualmente e moralmente inferiori».

L'articolo (che presto apparirà in forma di libro) ha già suscitato negli Usa polemiche e aspre battaglie di cifre in cui alle - sostanzialmente non verificabili - statistiche di Huntington sono state contrapposte altre - sostanzialmente non verificabili - statistiche avverse (ad esempio, contrariamente a quanto sostiene il professore di Harvard, i latinos di seconda generazione tenderebbero a usare il solo inglese, esattamente come fecero in passato tedeschi, italiani ecc.). Forse sarebbe invece il caso di ricordare che in realtà anche le antiche migrazioni provocarono spesso inquietudini e timori di sommergimento della cultura americana (o meglio «anglosassone») non molto diversi da oggi. Un secolo e mezzo fa Samuel Morse, l'inventore del telegrafo, allarmato come Huntington dall'ingresso di troppi cattolici negli Usa, scriveva: «Dobbiamo arginare questa falla della nostra nave, attraverso la quale le torbide acque dell'esterno minacciano di farci affondare». Ma non si riferiva ai cattolici messicani bensì a quelli europei. Cento anni prima di Morse, lo stesso Benjamin Franklin, uno dei padri fondatori della democrazia americana, preoccupato per le ondate di tedeschi, si chiedeva se «la Pennsylvania, fondata dagli inglesi» non stesse per «divenire una colonia di stranieri». Sì, quegli stessi tedeschi le cui migrazioni Huntington porta come (retrospettivo) esempio di assimilazione pacificata. Insomma, la nuova paura di Huntington che gli Usa siano sommersi da una grande ondata migratoria di messicani è semplicemente un vecchio incubo sognato e risognato di continuo dall'America. Un incubo che rappresenta la inquietante altra faccia latente di una pratica (l'aprire continuamente e generosamente la porta dell'America agli esuli) segretamente molto meno solare e netta, scevra di contraccolpi e residui psicologici di quanto volessero fare credere simbologie ufficiali come quella del melting pot o della statua della libertà che aspetta solo di poter accogliere i reietti del mondo. Un incubo di accerchiamento e invasione che non solo non contraddice la risaputa ideologia della frontiera turneriana (1893: il concetto di confine perdeva per gli Usa il significato di limite per passare a quello di soglia su nuovi spazi «liberi» in cui spingersi) ma al contrario le è freudianamente complementare. Un incubo che se da un lato si è manifestato con ricorrenti, storiche ondate di xenofobia conclamata, dall'altro ha prodotto un immaginario americano stupefacente, unico per la ossessiva frequenza con cui vi si rappresenta l'attacco e invasione di uno spazio americano (l'America o una qualche parte dell'America, una sua città, una sua casa, una diligenza, una nave, un'auto, un grattacielo, un corpo umano) da parte di un infinità di entità ostili, materiali o immateriali, reali o fantastiche: indiani, banditi, killer, maniaci, belve, fiere, dinosauri, pesci, uccelli, lupi, vermi, robot, macchine impazzite, invasori galattici e extragalattici, larve, fantasmi, ectoplasmi, eccetera. Forse la migliore risposta al professor Huntington potrebbe darla (oggi) una poesia (di trent'anni fa) del poeta chicano Abelardo Delgado. Il suo titolo è Stupid America: «Stupida america, guarda quel chicano/con un gran coltello/ nella sua mano salda/ lui non vuole ammazzarti/ vuole sedere su una panchina / e intagliare dei crocefissi/ ma tu non glielo lasci fare./ Stupida america, ascolta quel chicano/ che urla ed impreca per strada/ è un poeta/ senza carta o una penna/ e poiché non può scrivere/ presto lui esploderà./ Stupida america, ricordati di quel chicanito/ bocciato in matematica e inglese/ quello è il Picasso/ dei tuoi stati del west/ ma lui morirà/ con mille capolavori/ appesi solo nella sua testa».