(torna alla scheda "Appunti di giornalismo interculturale")
Si diceva un tempo che noi giornalisti siamo gli "storici di tutti i giorni". Ora, nella speranza
che gli storici non scrivano la Storia leggendo solo i giornali, viviamo tempi in cui alcuni giornalisti
si credono i "sociologi di tutti i giorni". Il loro sociologismo da "cronisti" amano esprimerlo
in occasione di fatti di cronaca che vedono come protagoniste persone appartenenti a differenti
orizzonti culturali. Se una lite in famiglia, con finale tragico, avviene nella casa di un cittadino indiano,
il fatto assume subito un certo "significato" culturale e una precisa valenza sociale.
Se invece quella stessa lite, con lo stesso finale tragico, avviene in una famiglia italiana,
allora è un caso fra i tanti. Se una figlia si ribella al padre e questi la picchia, siamo nel quadro
delle liti familiari con padre-padrone e figlia-adolescente-ribelle alle regole genitoriali e familiari.
Se invece il padre è di religione islamica, allora la ribellione della figlia ha il significato di una
lotta di liberazione contro una cultura e un'imposizione di stampo religioso.
Ricordo cosa mi disse, poche settimane fa, con molta convinzione, un praticante giornalista
al corso di preparazione della mia regione, il Veneto: "E' giusto indicare la nazionalità di chi
commette un delitto, se questi, poniamo, è rumeno, perché il fatto ha un suo significato ed è la spia
di quanto sta accadendo nella società". Appunto, eccolo qui... il sociologo di tutti i giorni.
A questo proposito, vediamo alcuni servizi dell'agenzia Ansa, trasmessi ai media nel mese di aprile 2009,
e stiamo attenti alla lettura "sociologico-culturale" di fatti simili commessi da persone di origine
straniera. Cominciamo con un confronto su come l'agenzia Ansa presenta un certo fatto di cronaca
e lo confrontiamo con alcuni siti e giornali francesi.
Articolo numero 1:
Cominciamo con un dispaccio dell'agenzia Ansa del 15 aprile. Un coppia francese residente a Perpignan,
nel sud del Paese, con il padre di origine marocchina e di religione musulmana, e la mamma convertita all'Islam,
teneva gli otto figli (con un'età compresa fra gli 8 e i 17 anni) a un regime alimentare da sottonutrizione.
Tant'è che sono stati trovati magrissimi e che per tre di loro è stato disposto il ricovero in ospedale
per cure urgenti. Il padre si è giustificato dicendo che voleva "purificarli" e che seguiva i dettami del suo credo religioso.
Eccome come dà la notizia l'Ansa:
FRANCIA: BAMBINI DENUTRITI PER PURIFICAZIONE ISLAMICA / ANSA
OTTO FIGLI MAGRISSIMI, UNO ROVISTAVA FRA LE IMMONDIZIE IN STRADA
(ANSA) - PARIGI, 15 APR - Sembrano usciti da I miserabili di
Victor Hugo. Invece, gli otto bambini francesi ai quali i
genitori negavano cibo e cure sono stati tenuti anni in queste
condizioni per «purificarsi»: così ha tentato di spiegarsi,
davanti alla polizia, il padre musulmano osservante. L’uomo, 49
anni, origini marocchine, è ora in carcere con la moglie, 50
anni, slava, convertita all’islam.
Dormivano in terra, in casa non c’erano letti nè mobili,
camminavano scalzi, affamati, vivevano rinchiusi in casa senza
contatti con il mondo esterno, e venivano picchiati duramente
con bastoni se trasgredivano le regole.
Le regole le avevano imposte i genitori, da sabato in carcere
a Perpignano, nel sud della Francia, con l’accusa di violenze
ripetute e per aver negato cibo e cure fino a compromettere la
salute dei figli minori. Alla polizia hanno detto di praticare
«scrupolosamente i dettami della loro religione» che
riterrebbe «necessario un regime alimentare rigido». «Il
dimagrimento - ha detto la coppia - è segno del successo
dell’educazione dei figli che hanno bisogno di purificarsi».
«Il padre si crede un illuminato e il trattamento che ha
imposto alla sua famiglia va ben oltre la pratica rigorosa della
religione musulmana, assomiglia di più al funzionamento di una
setta», ha spiegato il procuratore di Perpignano, Jean-Pierre
Dreno. Degli otto bambini - di età compresa tra i 7 e i 17 anni
- i più magri, due ragazzine di 13 e 15 anni che pesavano 22
chili e un ragazzo di 13 anni alto 1,65 metri per 32 chili sono
stati portati in ospedale. Gli altri sono stati affidati a un
centro d’accoglienza. Tutti saranno sottoposti ad una perizia
medico-psichiatrica.
Sono stati i vicini di casa della famiglia a Banyuls-sur-Mer,
un comune sul mare al confine con la Spagna e a pochi chilometri
da Perpignano, a segnalare il caso: avevano visto il tredicenne, «un adolescente magrissimo», frugare nelle immondizie «tremolante, a i piedi scalzi, con tracce di sangue sul viso e
segni di violenza sul corpo». Il giovane, interpellato dalla
polizia, ha detto di essere stato punito perchè aveva rubato
dalla cucina «un pugno di zucchero in polvere» recisando che
la madre lo aveva quindi picchiato con un bastone e lo aveva
ferito con il barattolo di vetro dello zucchero. I gendarmi si
sono recati subito a casa del bambino dove hanno trovato i suoi
fratelli nelle stesse penose condizioni.
Il padre, venditore ambulante, ha giustificato l’assenza di
provviste alimentari e di cibo nel frigo e sulle mensole della
cucina dicendo di aver scoperto ultimamente le virtù degli
alimenti biologici e che il digiuno aiuterebbe la purificazione
della famiglia e dei suoi bambini. Punizioni corporali erano
inflitte ai bambini regolarmente «quando le regole dettate dal
capo famiglia non venivano rispettate». Le ragazze
più grandi non frequentavano più la scuola a causa del divieto
di portare il velo. La madre le aveva iscritte a un corso di
insegnamento a distanza. In Francia ci si chiede come il caso
sia potuto passare inosservato ai servizi sociali e scolastici.
Vediamo, a titolo di esempio, come la stessa notizia viene data
da alcuni giornali francesi. Per ragioni di brevità ci fermiamo
solo ai titoli:
- Un couple mis en examen pour maltraitance envers ses huit enfants à Perpignan
(Le Monde)
- Perpignan: huit enfants maltraités par des parents "illuminés et sectaires"
(CorseMatin)
- Maltraitance d'un couple sur ses 8 enfants: «Le petit trouvé dans la rue,
on croyait qu'il était en état d'hypothermie tant il semblait mal en point»
(20minutes.fr)
OSSERVAZIONE:
Nel testo degli articoli, di questi e di altri giornali francesi (nazionali e locali),
consultabili peraltro su Internet, si fa riferimento al credo religioso dei genitori,
e del padre in particolare, come a un elemento fra i tanti. Ed è un elemento fra i tanti
anche quando si riferisce che, secondo le dichiarazioni del padre-padrone, il regime
alimentare era imposto in osservanza di un presunto precetto religioso.
Sia nei titoli che nel testo degli articoli non vi è un'insistenza sul collegamento
Islam-maltrattamento dei figli. Non si fa credere al lettore che fra gli obblighi
della religione islamica vi sia anche quello di rischiare di ridurre i figli a larve
umane. Gli articoli francesi sottolineano l'aberrante idea della "purificazione" e della "illuminazione" portata avanti dalla coppia e dal padre in particolare. In questo,
rispettano la concordanza con il taglio che alla notizia danno i rispettivi titoli.
Come si vede, invece, il dispaccio dell'Ansa utilizza sin da subito - quasi come
elemento fondamentale di notiziabilità, oltre che come "specchietto delle allodole" -
il credo religioso dei genitori (la "purificazione islamica").
Quali sono gli effetti di questa scelta, discutibile, dell'Ansa che attinge alle
stesse fonti dei giornali francesi se non addirittura agli stessi giornali francesi?
Gli effetti sono due. Il primo è di indurre il lettore a credere che vi sia una "purificazione islamica" fra i precetti fondamentali della religione musulmana,
tale da poter portare a conseguenze pericolose. Il secondo effetto, non meno
importante, è di deviare l'attenzione dal "dramma familiare" al "dramma religioso".
Tutti gli articoli dei giornali francesi, alcuni in modo particolare, puntano l'attenzione,
e quindi individuano la notiziabilità dell'accadimento, nel "maltrattamento dei minori",
e su questo approfondiscono la narrazione: una narrazione che, a dire il vero,
di "narrativo" non ha molto, al contrario dell'approccio dell'Ansa. Vi è un resoconto
puntuale e, in alcuni casi, attento e dettagliato di cosa è successo e di quale era
(ed è) la condizione dei ragazzini.
Nel caso dell'Ansa, il dispaccio comincia con un richiamo letterario a Victor Hugo
(e al suo noto romanzo "I miserabili"), e poi sposta l'attenzione sull'aspetto religioso
della vicenda. Un modo diverso di fare giornalismo, di raccontare i fatti, di concepire
la notiziabilità di un evento o di una situazione. Al lettore il giudizio su quale
sia il giornalismo più moderno e utile a chi legge.
Articolo numero 2:
LITE IN FAMIGLIA INDIANA: RINCASA TARDI, PADRE LO UCCIDE/ANSA
RAGAZZO 21 ANNI UCCISO CON UNA COLTELLATA AL CUORE VICINO A ROMA
(ANSA) - ROMA, 11 APR - Una sequenza che sembra tipica dei
film di Bollywood: le tradizioni della terra d’origine, che
cozzano contro la voglia di indipendenza e di libertà dei più
giovani, della generazione successiva, di chi quella terra,
l’India, l’ha ormai dimenticata anche nei ricordi. Ma stavolta
lo scontro è finito in tragedia con un padre che ha ucciso il
proprio figlio dopo una violenta lite. È successo a Lavinio,
frazione di Anzio, vicino a Roma dove un commerciante di origine
indiana di 49 anni, ha ucciso con una coltellata al cuore il
figlio di 21 anni perchè rientrato ieri sera dopo la
mezzanotte.
«Se continui così, se fai sempre tardi la sera, non riesci
ad alzarti al mattino, non riesci a lavorare». La lite era
cominciata con le solite parole di rimprovero: un padre che
apostrofa il figlio rincasato tardi. E il ragazzo che risponde
di essere maggiorenne, di voler la sua indipendenza, di essere
stanco di rimbrotti, di botte. Ma stavolta lo scontro tra padre
e figlio, avvenuto la notte scorsa in un appartamento di
Lavinio, è degenerato dalle parole agli schiaffi, alle botte,
reciproche e poi nel sangue di un omicidio.
Vijai K., 49 anni, questo il nome del commerciante di origine
indiana in Italia dal 1981 e perfettamente integrato nella
comunità di Lavinio, che ha ammazzato il figlio Vipan di 21
anni. Accecato dall’ira ha afferrato un coltello e ha colpito.
La lite è avvenuta nell’appartamento dove il commerciante,
che ha un negozio di ortofrutta gestito insieme con la moglie e
gli altri due figli, vive con la famiglia. Testimoni dell’
omicidio gli altri componenti del nucleo familiare. Le liti tra
il padre e Vipan, nato a Lavinio, raccontano i carabinieri della
compagnia di Anzio erano sempre più frequenti. Sempre più
aspre. Vijai, rimproverava al figlio, il secondogenito, di non
essere in grado di dare il meglio al lavoro dopo le notti
trascorse fuori, al pub con gli amici.
Ieri il ragazzo era uscito insieme con il fratello e quando
ha aperto la porta di casa ha trovato il padre sveglio che lo
aspettava. Sono stati i familiari del giovane a chiamare il 118
e ad accompagnare il proprio congiunto nell’ospedale civile di
Anzio. Qui sono giunti anche i carabinieri che dopo aver sentito
i familiari del ragazzo, che è morto poco dopo l’arrivo in
ospedale, si sono resi conto della situazione.
Il commerciante è crollato dopo pochi minuti e in lacrime ha
ammesso di aver accoltellato il proprio figlio. Nessuno dei due
era ubriaco, secondo i carabinieri, nè il giovane faceva uso di
sostanze stupefacenti. «Non volevo farlo - ha detto Vijai tra i
singhiozzi - non volevo ucciderlo, abbiamo cominciato a litigare
e poi non so cosa sia successo. La mia vita è distrutta».
OSSERVAZIONE:
Cosa c'entrano le "tradizioni della famiglia d'origine" con
l'uccisione di un figlio, da parte di un padre, dopo un litigio scatenato
da un ritardato rientro in casa? Neppure l'autore dell'omicidio, il padre,
tenta di giustificarsi dietro i valori familiari, le tradizioni della sua terra
o cose del genere. Il fatto è molto probabilmente la conseguenza
dell'escalation di un conflitto interpersonale, che può essere stato
scatenato da molteplici fattori. Viene da chiedersi quale spazio
avrebbe avuto - e se avrebbe avuto addirittura l'onore di un servizio
di agenzia - un analogo fatto fra un padre e un figlio italiani.
Oppure se, a giudizio dell'autore, la notizia avrebbe avuto la stessa
attrattività, lo stesso interesse, se non le fosse stato dato il taglio
"culturale", dipendente da presunte tradizioni familiari d'origine.
Va anche osservato che cominciare un articolo con il "perché"
di un certo accadimento, ha senso se il "perché" è l'elemento
più importante dell'accaduto. Mentre in questo caso, tutto l'andamento
della vicenda non inclina nella direzione di un delitto di matrice "indiana";
e il "perché" subito evocato svanisce nel nulla del racconto.
Articolo numero 3:
AGGUATO IN CIRCOLO BARESE, 4 PROIETTILI PER 4 CEFFONI /ANSA
EX CONTRABBANDIERE UCCISO PER AVER DIFESO EX COMPAGNA FIGLIO
(ANSA) - TRIGGIANO (BARI), 13 APR - Quattro proiettili, uno
ciascuno per ogni ceffone ricevuto nella piazza centrale del
paese. ’U Pullott (ossia piccolo bullo, anche per la corporatura
modesta), cioè Pietro Raimondi, di 31 anni, è stato fermato
stamani dai carabinieri e ha confessato perchè sabato sera ha
ucciso in un circolo ricreativo Francesco Crudele, di 48. La
vittima era intervenuta per difendere una donna di 40 anni, ex
compagna di suo figlio, dall’ennesima aggressione di Raimondi
che voleva riallacciare una relazione sentimentale non più
accettata da lei.
Non era la prima volta che Francesco Crudele, vecchi
precedenti penali per contrabbando di sigarette, interveniva per
proteggere la donna che trattava come una figlia. E ciò
nonostante si fosse interrotto il legame che lei aveva con la
sua famiglia per via della storia d’amore conclusa da tempo con
il figlio Carlo, di 28 anni. Ma i rapporti erano rimasti ottimi
e l’ex contrabbandiere non lesinava, qualora gli fosse chiesto,
un consiglio o un aiuto più spiccio.
Come sabato sera, quando però l’ennesima richiesta di
intervento gli è risultata fatale. La donna gli ha raccontato
di essere stata inseguita e picchiata da Raimondi - un
sorvegliato speciale - che insisteva perchè si rimettessero
insieme mentre lei considerava definitivamente chiusa la
relazione. Francesco Crudele, di stazza imponente rispetto a ’U
Pullott, ha così rintracciato l’uomo e con facilità, vista la
corporatura differente, gli ha assestato quattro sonori schiaffi
davanti a numerose persone senza che Raimondi reagisse.
Ma la vendetta era solo questione di minuti. Il tempo perchè
Raimondi recuperasse una vecchia Smith & Wesson calibro 38 a
tamburo e trovasse il coraggio per affrontare l’omone che aveva
osato schiaffeggiarlo davanti ai paesani bevendo alcuni goccetti
in un bar del centro. L’uomo ha così raggiunto il circolo nel
quale era Crudele - pieno di una decina di persone - e ha
cominciato a sparare dalla soglia per finirlo poi una volta nel
locale. Solo per miracolo - ha sottolineato il procuratore
aggiunto di Bari, Marco Dinapoli - non c’è stata una strage. I
due feriti lievi (uno alla testa) che si sono contati sono il
miglior risultato che si potesse avere, viste le modalità
mafiose dell’agguato e lo sparare all’impazzata.
Le indagini dei carabinieri e della Dda (all’inizio si era
infatti pensato a un regolamento di conti tra la malavita
organizzata) hanno in poche battuto risolto il caso e portato
alla confessione di Raimondi, il quale ha collaborato facendo
anche ritrovare la pistola usata per l’omicidio.
OSSERVAZIONE:
Se si esclude l'aggettivo "barese" riferito al circolo in cui è avvenuto il delitto (aggettivo che aiuta a individuare "dove"
il fatto è successo), non vi sono in questo caso indizi possibili
di letture "culturali" o "etniche" dell'omicidio. Il racconto ci porta a concludere
che Pietro Raimondi, sorvegliato speciale, ha agito per vendicarsi
dei ceffoni ricevuti da Francesco Crudele. Non vi è un retroterra "pugliese", un codice d'onore "barese" che l'autore dell'articolo
tiri in ballo per spiegare quanto è avvenuto. C'è da chiedersi quale
taglio avrebbe avuto lo stesso servizio giornalistico se l'autore del delitto
fosse stato albanese o rumeno. Avremmo avuto un richiamo
a qualche tradizione culturale del paese d'origine o a qualche
codice non scritto dell'onore albanese o rumeno?
Articolo numero 4:
NON ACCETTA LA SEPARAZIONE E SGOZZA LA MOGLIE / ANSA
TUNISINO UCCIDE CON NOVE COLTELLATE ITALIANA DI 23 ANNI
(ANSA) - GENOVA, 13 APR - Si erano sposati due anni fa. Lui,
23 anni, tunisino. Lei, 22, italiana. Matrimonio in abito bianco
con tanto di servizio fotografico. Ma l’idillio è durato poco.
Lui forse era troppo geloso. Lei forse troppo bella. Liti e
scenate e alla fine lei decide di andarsene. Ieri, tornata a
casa per riprendere alcuni effetti personali, Lisa Molino ha
trovato il marito fuori di sè e la lite è finita in tragedia:
Walid Hamami l’ha uccisa, con nove coltellate al collo.
Il dramma si è consumato in un appartamento al quinto piano
di un palazzo di via De Vincenzi, a Molassana, quartiere
periferico della città. Erano circa le 22 quando i vicini hanno
sentito urlare nelle scale. Walid stava scendendo e urlava «Ho
ucciso mia moglie». Subito è stato chiamato il 113 e sul posto
sono giunte le volanti. Walid era sul portone, il collo
insanguinato (gli inquirenti accerteranno poi che si è ferito
da solo forse per inscenare la disperazione o la difesa).
Nell’appartamento sangue un po' appertutto. In una stanza,
supino sul letto, il corpo semi svestito e senza vita di Lisa,
una bella ragazza bionda e prosperosa. Nove ferite al collo,
una, forse quella mortale, alla giugulare. Sulle pareti, in
salotto, ancora i segni dell’unione felice: la foto del
matrimonio, e un piatto in terracotta di artigianato tunisino
con sopra incisa la data del matrimonio, luglio 2007.
Nell’appartamento i poliziotti hanno poi sequestrato due
coltelli da cucina insanguinati.
Di recente Lisa si era trasferita a casa del padre e della
compagna di lui con i quali lavorava in un bar del quartiere.
Quel matrimonio, secondo le testimonianze raccolte, non era
stato mai visto di buon occhio dal padre della ragazza. Walid,
regolare in Italia, con permesso di soggiorno, aveva infatti
precedenti per spaccio e non aveva un lavoro fisso.
Nell’appartamento di Via De Vincenzi la coppia si era trasferita
cinque mesi fa e i vicini hanno raccontato di aver incontrato i
due soltanto quando rincasavano o uscivano.
Sul posto, in serata, sono giunti il medico legale e il
sostituto procuratore Francesco Pinto. Walid Hamami è stato
portato al pronto soccorso dell’ospedale San Martino e
successivamente, su disposizione del magistrato, trasferito al
reparto detenuti del nosocomio dov’è tuttora ricoverato in
prognosi riservata e piantonato.
OSSERVAZIONE:
C'è da chiedersi, in questo caso, come mai nel titolo
si metta in chiaro, da subito, che il marito omicida è tunisino.
E c'è da chiedersi come mai, nell'attacco dell'articolo, si cominci con il fatto
- trascurabile - che si erano sposati due anni fa, per evidenziare poi
in modo icastico che lui è tunisino e lei era italiana. Dobbiamo
addebitare alla differenza di cultura e di nazionalità lo scatenarsi
della gelosia in lui e l'escalation fino al delitto? L'impianto dell'articolo è tutto costruito in questa direzione, anche se non esplicita
la connotazione etnica e culturale dell'atto uxoricida. L'aver
sottolineato sin dall'inizio la differenza nazionale, quindi culturale
e quindi anche religiosa (lui tunisino, lei italiana) dà comunque al lettore
una certa prospettiva di lettura. La gelosia, che viene indicata
poi come il movente dell'omicidio, si radica nell'appartenenza "tunisina"
culturale di Walid Hamami. Tant'è che diventa trascurabile
il particolare che lui abbia spacciato droga: elemento che
molto probabilmente ha influito sui timori della famiglia di lei,
più del fatto che lui sia tunisino.
Articolo numero 5:
PER 16 ANNI MARITO-PADRE ’PADRONE', EGIZIANO A PROCESSO/ANSA
PICCHIAVA MOGLIE ITALIANA E OBBLIGAVA FIGLIA A INDOSSARE VELO
(ANSA) - MILANO, 15 APR - Nella scuola araba di via Quaranta,
a Milano, lei, adolescente, non voleva andare («la odiavo», ha
raccontato agli inquirenti), desiderava molto invece frequentare
«la scuola italiana normale» e non sopportava di dover
indossare il velo. Le sue volontà però erano «del tutto
annullate» dal padre, un egiziano che aveva sposato una
milanese convertita all’Islam, e che si comportava come un
marito e genitore ’padrone', considerandosi un ’patriarca' e un
’profeta'.
Per 16 anni, secondo l’accusa, avrebbe sottoposto la sua
famiglia a violenze e umiliazioni, con botte e insulti d’ogni
genere («sei un insetto schiacciato sotto le mie scarpe»,
rivolto alla moglie) e ora per lui, 48 anni, accusato di
maltrattamenti, comincerà il prossimo 20 maggio il processo
disposto dal gup di Milano, Guido Salvini.
«Sin da quando ho memoria - ha raccontato agli inquirenti la
figlia maggiore dell’egiziano, nata nel ’92 a Milano - ricordo
di aver visto picchiare mia madre con pugni e calci,
quotidianamente». La coppia si era sposata nel ’91 con una
cerimonia nel centro islamico di viale Jenner, dopo che la
donna, un’impiegata milanese che all’epoca aveva 20 anni, si era
convertita alle religione musulmana. Il marito,
autotrasportatore e in Italia da diversi anni, secondo le
testimonianze raccolte nel corso delle indagini coordinate dal
pm Isidoro Palma, aveva manifestato subito l’intenzione di «essere come un profeta per la moglie». «Tu devi solo
obbedire», le diceva prendendola a calci, pugni e morsi sul
ventre, anche quando era incinta. In un’occasione costrinse i
suoi 6 figli a entrare nella camera della madre che aveva appena
subito un pestaggio, per vederla insanguinata. In un’altra
circostanza, secondo l’accusa, obbligava la donna a stendersi a
terra e le saliva sopra, mettendole i piedi sulla faccia. Il
tutto in presenza della figlia maggiore che ai suoi occhi era
una «ribelle» come la madre e che andava dunque «raddrizzata». La ragazza, come ha spiegato agli inquirenti,
non poteva frequentare coetanei italiani, doveva andare alla
scuola araba «dove gli insegnanti ci picchiavano con dei
bastoncini» e dove «era obbligatorio pregare e mettere il
velo». Il padre la prendeva a schiaffi se non lo indossava.
Nel 2004 la madre con i sei figli si trasferì in Egitto e in
quell’occasione il marito conferì a suo fratello, che risiedeva
nel Paese, il potere di prendere ogni decisione sulla loro vita
di tutti i giorni. Lo zio dunque si era messo a picchiare la
nipote ’ribelle', colpendola anche in faccia con le scarpe. Il
17 settembre del 2007 la donna e i figli riuscirono a scappare
dall’Egitto e a denunciare tutto alle forze dell’ordine
italiane. Ora la donna e i suoi bambini sono ospiti di una
comunità protetta.
OSSERVAZIONE: Anche in questo caso, vi è una lettura
"culturale" di un comportamento violento. Sin dal titolo, lo specificare
che il marito-padre-padrone violento e intollerante è egiziano,
e il sottolineare che obbligava la figlia a portare il velo, induce
il lettore a collegare la violenza con l'appartenenza culturale
e religiosa del protagonista del fatto. Quanti mariti - italiani e stranieri - picchiano
le mogli e i figli (in qualche caso vi è anche una violenza al contrario,
con la moglie che maltratta il marito e i figli), e magari
in modo più violento e vessatorio, e nonostante questo
non hanno "l'onore" di un articolo di giornale o di un dispaccio
di agenzia? Possiamo supporre, con fondatezza credo, che
se il marito violento fosse stato italiano, la "notiziabilità"
del fatto - il suo interesse agli occhi del giornalista che l'ha
riferito e dell'agenzia Ansa che l'ha diffuso - sarebbe stata
minima, rispetto a quella che ha assunto con un marito-padre-padrone
egiziano.
Mi viene in mente quanto mi raccontarono a metà anni
sessanta al pranzo di matrimonio fra una giovane donna veronese
e un altrettanto giovane uomo siciliano. La sorella della sposa,
così mi riferirono, abitava a Messina e pure lei aveva sposato
un siciliano. Ebbene, il marito geloso la chiudeva in casa, con tanto
di chiave, quando usciva per andare al lavoro. Se dovessimo accettare
l'attuale approccio "sociologico" dei giornali italiani, dovremmo pensare
che era la "sicilianità" di quel marito a provocare la gelosia
che lo portava a mettere sotto chiave la moglie. Quella, del resto,
era la lettura che i miei conoscenti, veronesi, davano della "messa
sotto chiave". Il collegamento marito siciliano-marito geloso-marito padrone
era considerato acclarato, con la conseguenza di sconsigliare
vivamente il matrimonio fra una "veronese" e un "siciliano". E con l'altrettanto
evidente conseguenza di rinforzare nella vulgata popolare l'idea di una
naturale, quasi "razziale" inconciliabilità fra una donna del nord e un uomo
del sud. Del resto, un anziano veronese che conoscevo era solito dire
alla figlia: "Sei libera di sposare chi vuoi. Ma se sposi un meridionale
ti ammazzo a coltellate sull'altare". Altri tempi, indubbiamente, che
ci ricordano comunque le posizioni razziste e anti-meridionali
di certa parte della gente del nord Italia.
Ora, se dobbiamo deridere e condannare l'ignoranza popolare "veronese"
- degli anni sessanta - che considerava i siciliani violenti,
prepotenti, gelosi e mafiosi, dobbiamo altrettanto smontare, adesso,
una lettura "etnica" e "culturale" di fatti che spesso meritano
una sola imputazione: quella della responsabilità personale, individuale
di ogni atto criminoso. Certo, l'ambiente, le relazioni, le convinzioni
culturali e religiose molto inflenzano il comportamento delle persone,
ma questa è un'area che spetta agli specialisti. Non ai "sociologi
di tutti i giorni".
Il problema, si badi bene, non è solo di rispetto verso la persona straniera;
di "pari dignità" davanti ai media; di precisione e correttezza giornalistica.
Il problema è anche un altro: un'informazione escludente, imprecisa,
che si muove sul filo sottile della xenofobia (quando non del "razzismo
massmediale"), mina alle basi l'autorevolezza dei media e l'autorevolezza
di una professione nobile, qual è quella del giornalismo, essenziali entrambe
in una democrazia moderna. Essenziali per restare liberi rispetto agli "imprenditori della paura" che sull'agitare insicurezza e timore nei confronti
del diverso costruiscono consenso elettorale e affari lucrosi e poco nobili.
CESTIM Centro Studi Immigrazione onlus
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"La prima schiavitù è la frontiera. Chi dice frontiera, dice fasciatura.
Cancellate la frontiera, levate il doganiere, togliete il soldato, in altre parole siate liberi.
La pace seguirà." (Victor Hugo)
"Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora io reclamo il diritto di dividere il
mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro.
Gli uni sono la mia patria, gli altri i miei stranieri" (don Lorenzo Milani)