Strumenti del credito e migrazioni

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È noto come nel corso degli ultimi anni il fenomeno dell’immigrazione sia diventato un punto sempre più delicato, se non dolente, per gran parte dei governi dei paesi occidentali. Alle determinanti, alle conseguenze e alla regolamentazione dei flussi in entrata sono state dedicate ampie trattazioni dove argomentazioni economiche e politiche si intrecciano in una fitta trama. Questo lavoro, abbandonando l’ottica dell’indagine di cause ed effetti macro-economici dei movimenti migratori, intende cogliere l’aspetto finanziario della permanenza degli stranieri nel paese di approdo. Tali relazioni finanziarie sono in gran parte determinate dal rapporto che i soggetti stranieri intrattengono, o dovrebbero intrattenere, con le banche. Da queste ultime infatti dipendono due aspetti essenziali della vita dell’immigrato: le rimesse, ossia l’invio di denaro nel paese di origine, e, soprattutto, il credito, elemento che può determinare la qualità dell’inserimento degli immigrati nella nuova società.

Con i forti afflussi di immigrati registrati nel corso degli ultimi anni e quelli che si prospettano nel prossimo futuro (si pensi ai movimenti migratori originati dall’area Est-Europa) i rischi che si verifichino fenomeni di "esclusione finanziaria", ossia difficoltà di accedere ai servizi finanziari, assumono un rilievo crescente. A questo contribuisce il fatto che gli attuali servizi sono stati studiati per una clientela con "caratteristiche economiche" diverse da quelle degli immigrati, che necessiterebbero invece di servizi nuovi, sia bancari che non, più consoni alle loro esigenze.

Negli ultimi anni con il forte aumento di permessi di soggiorno concessi a cittadini stranieri si è assistito anche in Italia a una consistente crescita delle rimesse. In termini assoluti, queste sono passate dai circa 110 miliardi del 1991 agli oltre 760 del 1998. All’espansione delle rimesse degli immigrati si è opposta una progressiva riduzione di quelle degli emigranti, che si sono dimezzate nel corso degli anni Novanta (da circa 1100 miliardi nel 1991 a circa 530 nel 1998). Queste differenti dinamiche hanno determinato, nel 1998, un saldo negativo dei due flussi finanziari, facendo dell’Italia, almeno da un’ottica finanziaria, per la prima volta un paese di immigrati e non di emigranti.

L’aumento delle rimesse è il risultato combinato dell’incremento sia della popolazione immigrata che delle rimesse pro-capite. In termini nominali queste ultime sono passate da circa 130.000 lire del 1991 a oltre 600.000 nel 1998, mentre i permessi di soggiorno hanno superato il 1.200.000 rispetto ai circa 850.000 di inizio periodo. Anche in termini reali, risulta confermato il trend fortemente crescente dell’ammontare sia complessivo che pro-capite dei flussi.

La crescita delle rimesse è stata caratterizzata da un notevole incremento dei versamenti effettuati verso i paesi a sviluppo non-avanzato e da un elevato grado di concentrazione sia per area di destinazione che regione di partenza.

Mentre nei primi anni Novanta l’area di destinazione principale era quella europea, a partire dalla seconda metà del decennio, invece, si è verificato un progressivo travaso in favore dell’Asia, che a fine 1998 è giunta a raccogliere oltre il 40% del complesso delle rimesse. L’Africa, nel periodo considerato, ha mantenuto invece una quota costantemente al di sotto del 10% a causa dell’ammontare contenuto dei versamenti pro-capite.

Particolarmente concentrata appare la distribuzione per regione di partenza dei flussi in uscita. Una prima ripartizione del territorio per macro-aree indica come le rimesse provengano soprattutto dal centro (in particolare Lazio e Toscana) e dal settentrione (in particolare Lombardia); queste due macro-regioni raccolgono infatti oltre l’80% del totale. Nel corso degli ultimi quattro anni peraltro, le quote si sono dimostrate statiche, indicando una vera e propria strutturalità della distribuzione del fenomeno.

Oltre che dal forte incremento dei valori assoluti delle rimesse, un chiaro segnale della necessità di un miglioramento dei rapporti tra banca e immigrati proviene dalle modalità con cui vengono effettuati i versamenti. Ai tradizionali strumenti, quali i bonifici e i vaglia, si sono affiancate le procedure sviluppate da società di money transfer specializzate nei pagamenti internazionali e le agenzie di rappresentanza delle banche dei paesi di provenienza dei soggetti stranieri (le cosiddette agenzie parabancarie, spesso filippine). In tale contesto, il miglioramento dei servizi bancari italiani, oltre a garantire l’operatività del mercato, contribuirebbe a ridurre la quota sommersa dei flussi finanziari, inversamente proporzionale alla facilità di accesso agli strumenti ufficiali di trasferimento dei fondi bancari.

Più complessa è la valutazione della dimensione del credito richiesto dagli immigrati nel nostro paese. Non essendo disponibile una serie storica dei finanziamenti concessi, si è tentata una stima della domanda che gli stranieri avrebbero potuto rivolgere alle istituzioni creditizie.

Dalla stima risulta che la domanda di credito potenziale sarebbe restata relativamente stabile tra il 1995 e il 1997, mentre avrebbe registrato un forte incremento nel corso del 1998 (da circa 1.300 miliardi nel 1997 a circa 2.300 nel 1998).

Secondo le ipotesi di credito potenziale formulate, il finanziamento pro-capite per immigrato con permesso di soggiorno per lavoro autonomo sarebbe stata, per il 1998, di circa 45 milioni, in netta crescita rispetto ai 38 milioni dell’anno precedente. Procedendo ad una scansione settoriale indicativa, la domanda di credito potenziale ipotizzata per il 1998, proveniva per oltre la metà dal settore dei servizi. In particolare tra questi ultimi, su un totale di circa 1.500 miliardi, almeno 500 sarebbero stati destinati a finanziare la branca del commercio. Al di fuori dei servizi un peso significativo è rappresentato dall’edilizia e dall’artigianato. Nel 1998, i principali destinatari del credito sarebbero stati gli asiatici (oltre il 50%) seguiti a distanza da est-europei e africani (in entrambi i casi circa il 20%).

La forte crescita del credito potenziale registrata tra 1997 e 1998 è collegata sia a un mutamento delle norme che regolano l’ingresso nel nostro paese degli immigrati che a un fattore prettamente finanziario. È stato di fatto superato il criterio in base al quale gli stranieri erano ammessi in Italia all’esercizio del lavoro autonomo: questo era ispirato, in obbedienza all’articolo 16 delle Preleggi, alla clausola di reciprocità, ossia alla condizione che i diritti riconosciuti allo straniero in Italia fossero riconosciuti all’italiano all’estero.

All’aumento della domanda potenziale ha poi contribuito un generale incremento del credito per lavoratore autonomo: la progressiva riduzione dei tassi di interesse intervenuta nel corso del 1998 ha infatti spinto anche le imprese individuali di tutti i settori a ricorrere maggiormente al mercato del credito.

Ma quali sono i benefici attesi e gli ostacoli a uno sviluppo del rapporto tra banche e immigrati?

Dal lato dei benefici innanzitutto, la possibilità di accedere al credito e la qualità dei rapporti instaurati con le istituzioni finanziarie sono condizioni essenziali per la riuscita delle attività intraprese dai lavoratori autonomi immigrati e, conseguentemente, per il miglioramento delle loro condizioni di vita.

Inoltre, una maggiore confidenza con gli strumenti bancari accelera fortemente l’inserimento del soggetto nel paese di destinazione. Infatti, la conoscenza della prassi bancaria, consentendo di svolgere i propri affari esattamente come i cittadini del paese ospite, aumenta sia il grado di affidabilità degli immigrati che la facilità degli autoctoni a coinvolgerli nella propria vita economica.

È poi essenziale che i rapporti tra banca e immigrati siano rivolti prevalentemente al finanziamento delle attività produttive e in misura minore all’erogazione di credito al consumo. Il passaggio da un’ottica di breve periodo a una di lungo periodo, consentendo all’immigrato di distribuire le scelte di consumo con riferimento alla sua intera vita, favorisce l’educazione al risparmio e, soprattutto, aumenta la probabilità che gli stranieri di seconda generazione si mantengano in condizioni economiche soddisfacenti. Infine, la facilitazione dell’accesso al credito comporterebbe una riduzione del fenomeno dell’usura che potrebbe risultare particolarmente pregnante per una categoria con forti vincoli di bilancio quale è quella degli immigrati.

Per cogliere tali benefici è necessario rimuovere gli ostacoli che limitano oggi i rapporti tra banca e immigrati.

Nelle relazioni "quotidiane" le difficoltà essenziali derivano dalla diversità della lingua parlata da impiegati e clienti e dalla scarsa abitudine all’utilizzo dei servizi bancari. Ai problemi oggettivi di comunicazione si aggiunge quello della presenza di culture con un diverso atteggiamento verso le istituzioni in generale.

Nella concessione del credito agli immigrati riveste poi particolare importanza l’esistenza di forti asimmetrie informative tra erogatore e prenditore del prestito. La letteratura ha stilizzato l’inefficienza del funzionamento del mercato del credito dovuta ad imperfezioni informative in tre momenti distinti: screening, monitoring ed enforcement. Il primo si riferisce alla difficoltà, e quindi all’alto costo, nella fase antecedente la concessione del credito di riconoscere la categoria di rischio cui appartiene il prenditore. I problemi successivi all’erogazione del credito, nella fase di monitoraggio del rapporto cliente-banca, consistono nella possibilità che il debitore si comporti in modo opportunistico, cambiando di fatto le premesse che avevano determinato la concessione del finanziamento. Gli ostacoli legati al momento dell’enforcement, infine, sono relativi alla difficoltà da parte del creditore di far rispettare al debitore gli impegni assunti.

Ulteriore problema risiede nell’assenza di garanzie reali da parte degli immigrati prenditori. Tale carenza risulta particolarmente significativa in Italia dove gli elevati tempi per il recupero dei crediti contribuiscono a rendere le banche maggiormente avverse al rischio. A questo si aggiunge la difficoltà per le banche di valutare le prospettive di redditività delle imprese finanziate dal momento che le scritture contabili dei soggetti prenditori sono poco attendibili.

Vi sono infine delle variabili esogene al rapporto banca-cliente che influenzano l’efficacia dell’erogazione dei prestiti: tra queste rivestono un ruolo particolarmente importante il grado di sviluppo del mercato e i tempi di rientro degli investimenti. Ovviamente, in contesti economici fortemente sviluppati, la valutazione della riuscita di un progetto è più complessa, le pressioni della concorrenza sono più marcate, e i tempi di rientro degli investimenti più lunghi.

In conclusione, considerando gli aspetti quantitativi, la problematica teorica e le esperienze già effettuate, sia nei paesi in via di sviluppo che nelle aree avanzate, si possono valutare le condizioni per lo sviluppo del credito all’immigrazione in Italia. Tra le proposte operative spicca l’erogazione di microcredito (finanziamenti la cui entità risulta modesta rispetto al contesto economico specifico).

Una nota esperienza nella concessione di microprestiti è quella della banca bengalese Grameen. Quest’ultima, caratterizzata da un notevole successo, si basa su una applicazione efficace del peer monitoring (controllo su un membro del gruppo operato dagli altri membri dello stesso gruppo). L’efficienza del funzionamento della banca Grameen, benché fornisca interessanti suggerimenti, sconta tuttavia un contesto socio-economico specifico del paese.

Le esperienze nei paesi industrializzati mostrano, infatti, delle differenze rispetto al modello bengalese. Queste sono determinate essenzialmente da una minore disponibilità di personale, evidentemente a causa del più alto costo del lavoro, dall’opportunità-necessità di attività collaterali che affianchino il core businnes creditizio, e dall’importanza della formazione dei prenditori nella fase antecedente l’erogazione del prestito.

Nel nostro paese la diffusione del microcredito non può essere il frutto di iniziative locali "chiuse", peraltro apprezzabili e già esistenti, ma deve essere gestito da un organismo che garantisca, a livello centrale, coordinamento e supporto tecnico.

In primo luogo sembra opportuno che il "soggetto erogatore" sia un organismo "trasversale", risultato di una collaborazione tra banche, Onlus (organizzazioni senza scopo di lucro) ed eventualmente enti locali. Qualora si propendesse per questa ipotesi, le banche, oltre alla concessione delle linee di credito, dovrebbero fornire il know how necessario sia alla valutazione delle domande che al supporto tecnico del beneficiario. Le organizzazioni no profit, potrebbero interagire nella gestione quotidiana con il personale bancario e contribuire in maniera rilevante alla raccolta di fondi privati, come già fanno le Ong nei progetti internazionali; un’integrazione all’attività di fund raising potrebbe poi provenire dal reperimento di soggetti disposti a garantire parte del credito concesso dalle banche stesse.

Gli enti locali potrebbero fornire un importante supporto a livello burocratico: naturalmente, l’implicazione dei comuni richiederebbe il varo di un quadro normativo ad hoc, che, come facile immaginare, può non risultare immediato.

In secondo luogo, sebbene inizialmente un apporto pubblico e tassi bassi sulle linee di credito bancarie appaiano necessari, dovrebbe essere salvaguardato ad ogni costo il principio dell’autosufficienza economica. In tale senso, le agevolazioni dovrebbero accompagnare solamente nella fase iniziale l’istituto per il microcredito: come nel caso della banca Grameen in Bangladesh, questo dovrebbe poi essere in grado di contrattare i propri finanziamenti anche con banche commerciali.

Inoltre la contribuzione dovrebbe avvenire in forma indiretta e non diretta. La prima forma, pur non comportando necessariamente una diversità dell’apporto pubblico, permette di scindere completamente la gestione dell’istituzione erogatrice da quella della cosa pubblica: si ottiene, cioè, l’effetto di collocare su piani diversi il costo sopportato dall’insieme dei contribuenti e i risultati aziendali (ci si riferisce all’opportunità di provvedere, ad esempio, a sgravi fiscali piuttosto che al ripianamento di eventuali perdite).

Queste considerazioni, oltre ad interessare l’aspetto economico-finanziario, evidenziano l’importanza dell’applicazione di corretti criteri di gestione a fini educativi sia per i prenditori che per il management delle istituzioni deputate all’erogazione.

Relativamente all’organizzazione del soggetto erogatore, l’analisi, coerentemente con l’esperienza finora maturata che ha premiato le iniziative portate avanti da piccole unità autonome, indica come maggiormente appropriata una struttura decentrata: i diversi centri di finanziamento, infatti, devono godere di ampia autonomia in modo da responsabilizzare fortemente la dirigenza locale.

Inoltre, se è vero che un modello decentrato comporta spesso delle diseconomie in termini di capacità tecnica decisionale, è altrettanto vero che la decisione di erogare il microcredito richiede un livello di conoscenze solamente basilare delle tecniche di gestione aziendale e, invece, un’approfondita conoscenza della realtà economica locale.

D’altro canto, un’ampia discrezionalità permetterebbe una valutazione accurata, personale e soprattutto veloce: il tempo impiegato dai piccoli organismi sufficientemente autonomi può essere di circa un mese.

Una struttura decisionale fortemente decentrata, potrebbe risolvere almeno in parte il problema del controllo dei progetti attivati con la concessione del credito. In un paese avanzato sembrerebbe corretto, rispetto a quanto sperimentato nelle aree in via di sviluppo, esaltare la fase di screening rispetto a quella di monitoringed enforcement. Una volta concesso un prestito, il controllo diventa infatti più complicato e i costi sopportati ben più elevati: che il soggetto erogatore possa disporre di un personale delegato a svolgere un monitoraggio approfondito paragonabile a quello Grameen sembra, infatti, poco probabile. A conferma di ciò, dalle analisi compiute è risultato come la componente chiave sia la conoscenza diretta, in alcuni casi anche ante-erogazione, del soggetto immigrato.

A proposito della funzione di controllo, oltre all’opportunità di ricorrere a particolari modalità quali rate di ammortamento molto frequenti, è poi da ritenere che l’applicazione del peer monitoring sia possibile solamente in determinate situazioni (ad esempio, forse, la comunità filippina): da quanto detto per il caso Grameen, è necessario che i prenditori di fondi abbiano un forte senso di appartenenza alla propria comunità cui corrisponda un chiaro potere sanzionatorio. Non è detto che tutte le minoranze etniche presenti in Italia soddisfino tale condizione; inoltre tale potere, laddove esista, potrebbe essere anche indebolito dal mutamento di abitudini provocato dalla permanenza nel nuovo paese ospite.

L’aspetto della preparazione tecnica, sopra richiamato dal punto di vista del soggetto erogatore, deve essere invece esaltato per il prenditore. Dall’esperienza maturata, infatti, sembra essenziale che l’immigrato si appropri delle tecniche gestionali di base e, soprattutto, della prassi che regola lo svolgimento degli affari prima dell’avvio dell’attività: a questo proposito sembra auspicabile che i soggetti il cui progetto è stato approvato frequentino obbligatoriamente, pena l’interruzione della pratica di concessione del prestito, dei corsi di formazione.

Per superare almeno in parte le difficoltà derivanti dalle differenze linguistiche e culturali, potrebbe essere interessante una maggiore responsabilizzazione degli immigrati sia a livello dirigenziale che impiegatizio. Naturalmente sarebbe necessario un trasferimento di know how sia da parte di funzionari di banca italiani che di funzionari di istituzioni come la Grameen.

L’erogazione del prestito dovrebbe avvenire senza garanzie e a un tasso di interesse pari a quello di mercato consono alla rischiosità del debitore: è bene infatti ribadire come lo scopo di un eventuale progetto di diffusione del microcredito al mondo dell’immigrazione sia semplicemente quello di portare finanziamenti a soggetti altrimenti "non bancabili", e non di concedere un prestito agevolato che potrebbe produrre effetti indesiderati tra cui, in primis, l’incapacità di raggiungere un equilibrio economico in un contesto senza agevolazioni.

La durata tipica di un finanziamento suggerita dalle diverse esperienze è di circa tre anni, superiore a quella media dei rapporti di credito in Italia. Tuttavia, se da un lato la durata del prestito deve garantire che l’attività abbia il tempo di decollare, dall’altro è opportuno che il ciclo del credito sia ridotto al massimo: un’elevata velocità di circolazione dei fondi disponibili, infatti, permette di promuovere l’inserimento di un maggior numero di stranieri possibile.

Le attività cui sarebbero destinati i finanziamenti, pur non limitate da vincoli ufficiali, sembrano essere il commercio e l’artigianato. Come già ricordato, l’erogazione di credito al consumo dovrebbe essere assolutamente ridotta e, in ogni caso, successiva alla restituzione di un credito erogato a scopo produttivo.