L'immigrazione a Roma. L'esperienza della Caritas

L Quyên Ngô ình

 

Roma è da sempre meta di genti di ogni cultura e nazionalità, caput mundi a partire dall'impero e poi centro del cristianesimo, con una vocazione unica e antichissima all'universalità.

Ancora oggi la sua centralità è confermata dal suo essere tre volte capitale: dello Stato italiano, sede della Città del Vaticano e sede di ambasciate, consolati e organizzazioni internazionali.

Non è quindi sorprendente che cittadini stranieri, diretti in Italia e in Europa, scelgano spesso la Città eterna come tappa o come meta del proprio percorso migratorio. Si tratta di flussi spontanei e, insieme, 'obbligati' dalla concentrazione a Roma di sedi diplomatiche, ministeri, organizzazioni internazionali, università, Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato, agenzie e associazioni umanitarie, che la rendono punto naturale di approdo ed eventualmente di snodo.

Tuttavia, a fianco delle categorie di migranti per motivi economici o per causa di persecuzioni, vivono o transitano a Roma stranieri che interagiscono diversamente con la città: si allude ai turisti e pellegrini, al clero, al personale diplomatico, agli studenti.

Fino a pochi decenni fa, la Città conosceva solo queste ultime categorie: ospiti graditi che, in quanto portatori di risorse, non era necessario governare con politiche stringenti, essendo in grado di provvedere a se stessi e di perseguire i propri obiettivi solitamente a breve o medio termine. Roma, in altre parole, è stata sempre 'internazionale', ma questo non l'ha spinta a dotarsi di quelle politiche e strutture di accoglienza che, una volta divenuta meta di immigrazione, si sono dimostrate tanto necessarie quanto carenti.

Si è cercato di illustrare queste apparenti incongruenze - essere città internazionale basta per fare di Roma una capitale dell'immigrazione? - preferendo, alla prospettiva dall'alto, un approccio dal basso, dalla visuale degli immigrati e degli operatori sociali che da anni lavorano, con passione, in un settore in continuo divenire.

Ci è parsa una lettura rispettosa delle sofferenze e dei sacrifici, spesso sigillati in un silenzio carico di echi, dei molti uomini e donne di ogni parte del mondo che sono riusciti - con le proprie risorse e/o con il nostro aiuto - a dare forma ai cosiddetti "viaggi della speranza", traducendoli - spesso in assenza di iter ufficiali - in percorsi di inserimento, a volte di mero adattamento, altre di vera integrazione.

Dare voce all’esperienza diretta, sul campo, di operatori e servizi della Caritas Diocesana è sembrato inoltre doveroso anche per il ruolo tenuto dalla stessa Caritas nello sviluppo delle politiche sociali cittadine.

Partendo dalle suddette premesse, il nucleo dello studio sono i motivi per i quali gli immigrati vengono a Roma e le condizioni in cui gli stessi vivono. Lo studio sul percorso di inserimento dell’immigrato e sul suo insediamento, anche in forma associata, non può però essere chiarificatore se non viene completato da una opportuna distinzione tra le diverse categorie di stranieri che, a vario titolo e con progetti differenti, sono presenti nella metropoli.

Seguendo questa ottica di analisi, si è analizzata, anche dal punto di vista storico, la componente specificamente immigrata, il suo iniziale percorso di inserimento e il suo effettivo insediamento e sviluppo. Inoltre si è fatto cenno ad altre categorie di stranieri - i turisti, i religiosi, il personale diplomatico e gli studenti - presenti in città con motivazioni distinte da quelle prima enunciate.

Per le fonti, si è attinto in particolare al finora inesplorato archivio dati del Centro ascolto stranieri della Caritas Diocesana di Roma, con una doppia lettura dei dati. Sulla base del materiale informatizzato, dopo opportuni aggiustamenti, è stato possibile compiere alcune elaborazioni statistiche, i cui risultati sono contenuti in apposite tabelle inserite nei capitoli 1 e 2. Inoltre, sul complesso delle schede e della documentazione conservata presso il Centro, è stato svolto un lavoro di tipo qualitativo, individuando dieci comunità tra le più rappresentative del fenomeno immigratorio (Albania, Bangladesh, Etiopia, Filippine, Iran, Marocco, Perù, Polonia, Romania, Somalia), sulle quali è stata svolta una lettura più approfondita. Informazioni e commenti provengono, oltre che dall’Area immigrati, anche dagli altri settori della Caritas impegnati nella materia: Sanità, Minori, Mense, Ascolto e accoglienza (per i senza fissa dimora).

Si è fatto, inoltre, ricorso a dati originali messi a disposizione da enti e istituzioni, nonché alla più aggiornata letteratura corrente.

Porgendo una prospettiva dal basso, sono emersi una serie di interrogativi sulle capacità di Roma - percorsa oggi da flussi insistenti e portatori di risorse ma anche di bisogni - di rispondere in modo adeguato alle sfide del nuovo millennio.

Da vent’anni, infatti, la Città ha conosciuto arrivi sempre più ingenti e complessi di immigrati, originari di vari continenti e portatori di progetti di media-lunga durata. Roma, come del resto l’Italia, ha spesso "subito" questi flussi, reagendo con politiche emergenziali e soluzioni di breve portata. La capacità di adattamento dei nuovi arrivati, l’esistenza di una domanda di lavoro anche irregolare, le iniziative del volontariato e le risposte degli enti locali, ancorché frammentarie, associandosi alla bonaria tolleranza - a volte mischiata a indifferenza - dei romani hanno, comunque, limitato l’entità dei problemi.

All’alba del nuovo millennio, lo scenario è però sensibilmente mutato: non più immigrazione di transito verso stati extraeuropei o presenza "invisibile e silenziosa" delle prime colf straniere, ma immigrazione strutturale, sempre più stabile di persone desiderose di investire qui i loro anni migliori.

La sfida cui sono chiamate Roma, l’Italia e l’Europa tutta non può essere riassunta in pochi slogan - già peraltro abusati - come se l’interculturalità fosse solo una nota folcloristica in più di una città a vocazione turistica. Si tratta, invero, di un processo profondo e radicale che, se trasformerà tutti noi -secondo i modelli del melting pot, del salad bowl o di altri ancora da elaborare - non potrà che farlo in un senso migliore, se non vuole essere privo di significato o dare ragione a quanti paventano la perdita della propria identità. Come già per altri settori, il rischio è di lasciarsi andare alla tendenza nazionale del laissez faire, come se la mera enunciazione di alti principi bastasse a indirizzare la nave verso il porto più sicuro.

In realtà, si è visto che l’immigrazione è un fattore complesso e di enorme potenzialità, ma, al contempo, un’efficacissima cartina di tornasole di vizi e virtù nazionali. Le carenze della pubblica amministrazione, legata a strutture e procedure antiquate, emergono ad esempio in tutta la loro contraddittorietà davanti al moltiplicarsi della domanda immigrata. La scuola, il cui ruolo nevralgico nella società e più ancora in questo contesto è indiscutibile, vive da tempo una crisi da cui l’ingresso dei nuovi studenti immigrati può spronarla a uscire, riformandosi, o al contrario gravarla ulteriormente.

Lo stesso può dirsi per la sanità, il lavoro, l’alloggio, tematiche al centro dell’attenzione generale per le implicazioni rispetto alla popolazione locale e immigrata - soprattutto se priva della rete parentale su cui possono invece contare gli italiani - ma anche per la palese distanza tra la teoria, l’alta civiltà della norma e la realtà di tutti i giorni.

La necessità di gestire flussi consistenti e il crescente radicamento della popolazione straniera non possono più essere affrontate con gli strumenti di ieri, se non si vuole assistere a una deriva del fenomeno e a un inasprimento del clima sociale. Il Paese e la sua Capitale, ormai luogo di immigrazione stabile, sono chiamati a dotarsi di un sistema strutturato ed efficiente che preveda - anche nella realtà e non solo nella lettera della norma - un vero percorso di integrazione a cui possano accedere i nuovi arrivati, i cittadini di domani. Solo politiche di accoglienza, di formazione, di alloggio e lavoro coordinate e coerenti fra loro, non solo a livello cittadino ma anche interregionale, potranno, crediamo, evitare che Roma e l’Italia siano alla mercé della prima "emergenza" - ma quando queste si moltiplicano sorge il dubbio che abbiano altra natura - che fa riprecipitare tutti nella sindrome di "assedio/invasione". Questa, amplificata com’è dai mass media - la cui superficialità nel riferire i fatti costituisce uno dei problemi da affrontare - finisce per innalzare il livello di ansia della popolazione e inibire così utili riforme, private del necessario sostegno elettorale.

Un coordinamento territoriale esteso a livello interregionale e nazionale appare, dunque, necessario, data l'estrema frammentarietà ed eterogeneità del fenomeno migratorio in Italia. Come noto nel Nord-Est, gli imprenditori chiedono manodopera straniera per le loro attività, ma gli enti locali non sono altrettanto solerti nel predisporre politiche e strutture di accoglienza. Nel Centro e nel Sud, invece, la situazione alloggiativa è forse meno critica, anche se comunque carente data la forte domanda, ma il lavoro, soprattutto regolare, latita.

Roma è situata in una posizione nevralgica, punto di arrivo di flussi ingenti ma con difficoltà di fungere da snodo per gli stessi. Pur essendo dotata, infatti, di strutture di accoglienza in numero superiore rispetto ad altre città, essa non offre sbocchi lavorativi sufficienti, viste le caratteristiche del proprio sistema economico.

È quindi irrealistico immaginare che, in un panorama siffatto, Roma, come del resto ogni altra città, riesca a gestire in modo autonomo e soddisfacente la propria quota di immigrati.

La frammentarietà delle politiche locali e il diverso sviluppo del territorio, abbinati alla debolezza del coordinamento centrale, sono certamente messi a dura prova in questo contesto, tuttavia sarebbe ingeneroso non riconoscere gli sforzi posti in essere dalle istituzioni negli ultimi anni per cercare di rispondere ai nuovi problemi, in seguito all’accelerazione che il fenomeno migratorio ha avuto in Italia e, conseguentemente, a Roma. Infatti, se è vero che le cifre globali sono ancora contenute, bisogna considerare che, in pochi anni, l’Italia ha vissuto e sta vivendo un processo che altrove è stato assimilato in un arco temporale molto più ampio.

Costruire un modello di integrazione originale, flessibile, aperto e rispettoso delle altre identità costituirebbe, inoltre, un servizio alla comunità internazionale nel suo complesso, visto che da tempo essa si è incamminata su una via stretta dove contraddizioni e tensioni etniche sono palpabili.

Per raggiungere questo obiettivo - che rappresenta un traguardo minimo e massimo insieme, data la portata del fenomeno - sarà, tuttavia, necessario superare i consueti schieramenti ideologici in cui, purtroppo, il dibattito sull’immigrazione in Italia finisce spesso per incanalarsi e isterilirsi, affrontando organicamente, a più livelli, la questione.

In fondo, si tratta di una sfida epocale, che chiama tutti, cittadini e immigrati, "romani" per adozione, a essere parte di un progetto che non può esaurirsi in un semplice scambio di prestazioni, pure già fruttuoso, ma aprirsi a un lucido incontro-confronto tra etnie, culture e religioni diverse, da cui possano emergere i valori universali dell’uomo, quei valori che nessun popolo detiene in modo integrale ed esclusivo. L’arricchimento spirituale e materiale di un simile incontro, nello spirito di solidarietà e di elevazione comunitaria, darebbe inoltre un senso profondo, vitale al doloroso migrare di uomini e popoli.