Le migrazioni internazionali e la cooperazione economica

Centro Italiano di Formazione Europea

 

Non si può più parlare, oggi, di migrazioni internazionali senza parlare di cooperazione allo sviluppo. Da alcuni anni, infatti, i governi e le istituzioni internazionali hanno deciso di affrontare la questione migratoria mediante l'attuazione di politiche di cooperazione volte a fungere da supporto allo sviluppo dei paesi meno avanzati e, allo stesso tempo, a facilitare l'inserimento e l'integrazione dei migranti nei paesi di accoglienza.

Sebbene l'insieme delle misure legislative finora adottate dai paesi di accoglienza dei flussi migratori sia finalizzato a limitarne il decorso, in campo internazionale le migrazioni di lavoratori registrano un andamento crescente nel tempo, in quanto continua ad ampliarsi lo scarto del livello di sviluppo tra i paesi ricchi e quelli poveri. Per poter regolamentare il fenomeno delle migrazioni internazionali, che stando alle previsioni del prossimo futuro tenderà ad assumere dimensioni sempre maggiori se non verranno realizzate delle politiche di cooperazione regionale mirate, è necessario unire gli sforzi per dar vita a iniziative e interventi capaci di favorire la creazione di condizioni che consentano di assorbire parte della manodopera locale, in modo da ridurre la pressione degli esodi di massa.

La tendenza a un aumento significativo della popolazione nei paesi in via di sviluppo, da dove ha origine la maggior parte dei flussi migratori, è confermata sia dall’analisi demografica della situazione attuale che dalle stime future sull'andamento della popolazione mondiale. Dalle ricerche condotte in materia emerge tuttavia che almeno nel breve periodo tale incremento non sarà accompagnato da una corrispondente crescita del livello di sviluppo di questi paesi, a causa dell'incapacità del relativo sistema economico di assorbire l’aumento della manodopera e di offrire alla popolazione dei nuovi servizi pubblici e sociali. Ciò porterà inevitabilmente alla formazione di massicci movimenti di persone verso le regioni più ricche e accessibili del pianeta, dove si avverte la necessità di regolamentare i flussi di migranti per consentirne la completa integrazione all'interno delle società di accoglienza.

Le politiche di cooperazione allo sviluppo negli ultimi decenni si sono evolute, nel tentativo di trovare soluzioni sempre più efficaci al problema dello sviluppo sostenibile nei paesi del Terzo Mondo in modo da ridurre l'entità di questi flussi di persone.

In base al principio di sussidiarietà le autorità locali e regionali sono ora chiamate a svolgere un ruolo centrale per quanto concerne l’accoglienza e l’integrazione degli immigrati, mentre il governo centrale dovrebbe attuare interventi di cooperazione volti alla crescita dello sviluppo dei paesi di provenienza dei flussi migratori. Una delle caratteristiche rilevanti della cooperazione decentralizzata, orientata a definire i ruoli degli organismi locali all’interno del processo migratorio, è la pluralità e l’eterogeneità di soggetti pubblici e privati che tende a coinvolgere, sollecitandoli a partecipare, ciascuno sulla base delle rispettive competenze, a un progetto di sviluppo comune il cui elemento unificatore è costituito dal territorio, nel rispetto delle diversità locali presenti all’interno di una stessa realtà nazionale.

Le problematiche legate alle migrazioni internazionali, che sono per definizione un fenomeno transnazionale, esigono una strategia che tratti le migrazioni come facenti parte della cooperazione internazionale e che sia comune a tutte le istituzioni e a tutti i livelli. Come protagonisti, oltre ai migranti e ai governi, occorre considerare anche i poteri locali e regionali, le Ong (Organizzazioni non governative) e i sindacati. Affinché le politiche di cooperazione possano risultare validamente efficaci, occorre quindi che siano caratterizzate dalla multilateralità e che vengano coordinate in sede sovranazionale.

A livello sovranazionale ha sempre svolto un ruolo rilevante la Banca Mondiale, che nel corso degli anni Ottanta ha seguito, nel campo della cooperazione, una politica di aggiustamento strutturale totalmente orientata alla riduzione del deficit e alla riorganizzazione e conseguente stabilizzazione dell’economia dei paesi poveri; una politica che ha trascurato, però, la cura dello sviluppo umano, così come la valorizzazione dei principi democratici. Questa mancanza ha reso necessaria una revisione radicale delle politiche di cooperazione: la Banca Mondiale ha così attuato una politica secondo la quale gli aiuti forniti dai paesi donatori venivano gestiti in modo tale da consentire la realizzazione dello sviluppo umano, insieme a quello economico.

Ciò non determinò una variazione sostanziale degli obiettivi prioritari posti dalle politiche di cooperazione (che restarono quelli di favorire la nascita e, successivamente, la crescita di un’economia propria delle aree meno sviluppate) bensì provocò la diffusione dell’idea che favorire l’insediamento e il consolidamento di governi democratici rappresentasse la premessa necessaria per poter attuare politiche di cooperazione allo sviluppo in grado di raggiungere risultati positivi.

Negli anni Novanta la creazione dell’Accordo di libero scambio tra i paesi del Nord America (Nafta), entrato in vigore il 1° gennaio 1994, il consolidamento dell’Unione Europea, il crescente rafforzamento della potenza commerciale giapponese, hanno determinato un ridimensionamento del ruolo ricoperto dai paesi in via di sviluppo nell’ambito degli equilibri geostrategici mondiali. La crescente globalizzazione ha creato la necessità, in particolare per questi paesi, di costituire grandi aree di libero scambio, per potersi presentare in maniera competitiva sui mercati mondiali. Un esempio di questo percorso è dato, oltre che dal Nafta, anche dal Mercosur, che unisce in un’area di libero scambio Argentina, Uruguay, Paraguay e Brasile.

La questione dello sviluppo e delle migrazioni internazionali è stata affrontata anche nell’ambito delle grandi conferenze mondiali organizzate dalle Nazioni Unite. Nel corso della Conferenza sulla Popolazione tenutasi a Bucarest nel 1974 si è aperto un animato dibattito circa la necessità di agire sulla leva demografica per allentare la pressione sulle risorse disponibili, di cui si temeva fortemente l’esaurimento nel giro di pochi decenni. Era infatti viva la consapevolezza delle distorsioni provocate dalla rapida esplosione economica a livello ambientale, che stava determinando la riduzione della disponibilità delle risorse alimentari per effetto della desertificazione e della saturazione delle terre coltivabili, oltre a generare un aumento dell’inquinamento. Il dibattito in tema di popolazione è poi proseguito nel 1984 nella Conferenza di Città del Messico e nel settembre 1994 nella Conferenza Internazionale sulla Popolazione e lo Sviluppo del Cairo. Quest'ultima, oltre a mettere in evidenza le problematiche della riproduzione e della pianificazione familiare ha affrontato anche la questione delle migrazioni internazionali e della cooperazione come unica via da percorrere per ridurre la pressione dei flussi migratori. Proprio in quella sede, per la prima volta in un documento internazionale, le migrazioni vengono riconosciute come elemento per il quale la cooperazione internazionale diventa essenziale fattore di sviluppo: un cambiamento ideologico e diplomatico sicuramente essenziale rispetto alla documentazione degli anni Ottanta su questa materia.

In ambito europeo già nei primi anni Settanta la politica estera inizia a interessarsi di cooperazione e a coordinare le politiche estere nazionali degli stati membri dando vita alla Cooperazione politica europea. Oggi la cooperazione allo sviluppo costituisce una componente fondamentale della politica estera dell’Unione Europea, rappresentando l’espressione dell’identità europea sul piano internazionale. Da sempre l’Ue ha cercato di avviare con i suoi partner una politica di cooperazione finalizzata al loro sviluppo a lungo termine. L’aiuto offerto dall’Europa non si limita infatti alle azioni umanitarie a breve termine, ma si estende piuttosto alla elaborazione di progetti e alla realizzazione di programmi volti a potenziare l’economia dei suoi partner, a rendere questi paesi più autonomi e a migliorare in modo duraturo le condizioni di vita della popolazione locale. L’Unione Europea ha inoltre da tempo affrontato la questione dell'integrazione economica nel bacino del Mediterraneo: la posizione strategica ricoperta dai paesi del Mediterraneo, insieme alla particolare situazione politica ed economica che caratterizza quest’area, infatti, si ripercuote sulla stabilità dei paesi del nostro continente, che sono chiamati a cooperare per la prosperità di tutta l’area.

Le similarità tra i prodotti tipici dei paesi situati sulla costa meridionale dell'Europa e quelli dei paesi del Maghreb da un lato, e la necessità di condurre politiche di cooperazione dall'altro, hanno indotto l’Unione Europea a regolare negli anni i rapporti commerciali all'interno di tale area, attraverso la sottoscrizione di accordi volti alla liberalizzazione del commercio, che rappresentano un primo importante passo per garantire la circolazione delle merci all'interno di tutta l'area. Questo progetto di cooperazione euro-mediterranea è nato a tutti gli effetti con gli incontri di Barcellona del novembre del 1995, con la sottoscrizione, da parte dei paesi dell’Unione Europea e di 12 paesi mediterranei, di una Dichiarazione il cui obiettivo è quello di costituire una zona euro-mediterranea di pace, stabilità e sicurezza fondata sul principio del partenariato.

L'area mediterranea è divenuta, infatti, negli ultimi anni centro importantissimo per gli equilibri economici e politici dell'intero globo. Essa è il punto di incontro per i flussi provenienti dal Medio Oriente, dal Nord Africa e dall'Europa, sia quella occidentale integrata nell'Unione Europea che quella centro orientale impegnata nella difficile transizione dai regimi di economia pianificata a quelli di libero mercato. Oggi quindi, più che mai, il Mediterraneo deve essere considerato come luogo dove convergono i problemi che attanagliano i popoli rivieraschi; problemi irrisolti sia di carattere politico - come la crisi palestinese, il consolidarsi di movimenti integralisti in alcuni paesi musulmani, i conflitti interetnici che sconvolgono i paesi della ex Yugoslavia - sia quelli economici, quale lo stato di profonda crisi che è ormai endemico in alcuni paesi della sponda Sud.

La soluzione di questi problemi è ormai di interesse vitale per tutti i paesi che si affacciano sul bacino del Mediterraneo perché, oggi più che in passato, in un sistema di globalizzazione, ogni stato per creare e mantenere condizioni di prosperità e sicurezza, non può non tener conto delle situazioni degli stati vicini, ma deve adoperarsi con essi nel trovare soluzioni al problema che è da considerare comune. Esempi di questo tipo di cooperazione si sono avuti con l’Albania e il Marocco, che nel bacino del Mediterraneo rappresentano due casi eterogenei ma particolarmente significativi.

Per una vera politica di cooperazione allo sviluppo si deve, dunque, agire oltre che con aiuti economico-finanziari diretti verso i paesi di emigrazione, anche con una corretta politica migratoria che garantisca l'accoglienza di quote sostenibili di immigrati, di cui va cercata l'integrazione ma soprattutto la dignità di cittadinanza; ciò sarebbe anche da considerarsi come aiuto agli sforzi per lo sviluppo dei paesi di origine.

Una nuova politica della cooperazione dovrà stimolare la crescita economica e sociale dei paesi svantaggiati, con un approccio multilivello ai diversi problemi, senza quindi fermarsi ai soli aspetti economici e finanziari. A livello migratorio, poi, occorrerà una politica dell'Unione Europea che affronti il problema in un approccio trasnazionale e che tenga conto della reale situazione dei singoli stati.

Chiunque studi lo sviluppo economico dei paesi europei del Mediterraneo, sa che esso ha avuto il suo momento "magico" quando l’emigrazione è stata più forte. Questo perché altri paesi hanno accolto, certamente non senza loro convenienza, cittadini italiani, spagnoli, greci e poi jugoslavi e turchi, favorendo così il progresso economico dei paesi di origine.

La sfida del prossimo futuro consiste nel riconoscere nei flussi migratori non solo dei movimenti di lavoratori ma anche movimenti di cittadini, nei confronti dei quali vanno riconosciuti i diritti fondamentali della persona di cui probabilmente già godevano nei paesi di origine. Oggi è evidente che per molti migranti lo status di cittadino in Europa è inferiore dal punto di vista costituzionale, sociale, morale, etico e civile a quello che avevano nei paesi di origine. Una cooperazione che voglia incidere adeguatamente sulle sempre crescenti migrazioni e sul divario economico fra Nord e Sud dovrebbe invece utilizzare meglio le risorse disponibili, evitando gli sprechi, coordinare gli interventi tra i vari paesi, privilegiare i progetti di carattere sociale e sanitario, gli investimenti nei settori produttivi e ad alta intensità di manodopera, considerare la formazione professionale come un settore strategico fondamentale.

Una particolare attenzione va inoltre riservata nel prossimo futuro al lavoro femminile, al suo sviluppo e alle sue garanzie. I flussi migratori degli ultimi anni registrano infatti una presenza sempre crescente di donne, la maggior parte delle quali vanno ad aumentare la forza lavoro dei paesi ospiti.

Uno dei cambiamenti più rilevanti degli ultimi anni nell’approccio alla cooperazione allo sviluppo è stato quello che ha portato i governi a considerare le migrazioni non più come domestic problem ma come fenomeno globale, da affrontare attraverso una stretta collaborazione tra tutti i paesi interessati. Durante gli anni Settanta e Ottanta, infatti, i paesi, i governi, le commissioni internazionali e gli esperti hanno cambiato prospettiva e hanno iniziato a formulare soluzioni che tenessero conto di tutti i soggetti coinvolti nelle migrazioni internazionali.

Bisogna considerare anche che l’esistenza di flussi di cooperazione economica, soprattutto se decisi, come protagonisti, da tutte le parti in causa, è di per sé una valida ragione per i governi dei paesi di origine nel fornire un’attiva ed efficace azione di controllo preventivo sui flussi migratori, che altrimenti non avrebbero nessuna ragione di esercitare.

Un Consiglio intergovernativo dell’area mediterranea - accompagnato da una "banca del Mediterraneo", costruita sul modello della Banca Europea per la ricostruzione e lo sviluppo dei paesi dell’Est europeo - potrebbe essere istituito per tutti i paesi interessati all’attuale e futuro processo di sviluppo economico dell’area. Potrebbe e dovrebbe istruire in sede intergovernativa le condizioni e gli strumenti per lo sviluppo economico; potrebbe e dovrebbe valutare la capacità di ricezione nei paesi di arrivo di flussi migratori di cui anche e soprattutto i paesi di origine dovrebbero accettare e garantire il controllo; potrebbe e dovrebbe includere questa politica delle migrazioni fra le misure di cooperazione economica e di sicurezza della regione. Potrebbe infine mettere le condizioni per il passaggio da un’anarchia economica e di sicurezza che oggi fa di quest’area una di quelle potenzialmente più esplosive del mondo, a un processo pre-comunitario di sviluppo equilibrato e integrato.

Questo potrebbe essere anche di ispirazione per altre aree del mondo - l’area Atlantica o quella del Pacifico - ove anche le migrazioni sono oggi l’aspetto evidente di un sisma sociale in preparazione, determinato dall’inaccettabile disequilibrio nelle condizioni di vita di popolazioni abitanti la stessa regione, in cui si è coltivata nei decenni trascorsi una cultura del confronto che in più occasioni ha portato alla guerra; militarmente combattuta in alcune aree oppure economicamente, socialmente e giuridicamente imposta da alcuni paesi su altre popolazioni.