VICENZA 12 GENNAIO 2001.
Intervento della Consulta
per i problemi degli stranieri immigrati e delle loro famiglie.
Premessa
Nell'arco
di pochi decenni, dopo essere stata paese di emigrazione, di migrazioni interne
e di immigrazione di transito, l'Italia è divenuta paese di immigrazione
stabile.
La presenza straniera, in
cifre globali, risulta ancora contenuta seppure in crescita, ma non vi è dubbio
che l'Italia abbia vissuto e stia vivendo un processo di grande trasformazione,
che altrove è stato assimilato in un arco temporale molto più ampio.
Rileggere
oggi, alla luce dei mutamenti che hanno segnato l'ultimo decennio, la questione
immigrazione ci sembra doveroso. La globalizzazione economica e la
regionalizzazione dei conflitti determinano il carattere irreversibile
dell'immigrazione e impongono agli stati la necessità di adottare azioni
strategiche che si adattino alle esigenze locali.
In
Italia, il calo demografico, la crescita sostenuta, la collocazione geografica,
il bisogno pressante di manodopera e di figure professionali carenti nel
mercato del lavoro inducono a nuove politiche di governo dei flussi
dell'immigrazione.
La
recente accelerazione di questo fenomeno, evidente nel numero sempre più
elevato di immigrati presenti in Italia, rende necessarie nuove chiave di
lettura e una diversa capacità di interpretazione.
L'immigrazione non è più una questione marginale, interpretabile
esclusivamente come effetto di processi economici e di conflitti etnici. Si
tratta semmai di affrontarla sul versante dei cambiamenti economici e sociali
che si verificano nei paesi di accoglienza.
Si è
aperta in Italia una fase di cambiamento nel corso della quale l'immigrazione
si è spostata da una posizione di confine per collocarsi nel cuore dei processi
socio economici.
Basti
solo ricordare che un quarto delle duecentomila nuove assunzioni avvenute nel
2000 riguardano lavoratori immigrati, che più di centomila bambini figli di
immigrati frequentano le scuole italiane, che interi settori produttivi ormai
dipendono dalla presenza dei lavoratori immigrati, tra cui quello del lavoro
domestico e di cura. Nello stesso tempo la questione sicurezza dei cittadini
viene sempre più automaticamente collegata al fenomeno immigrazione, la società
civile italiana comincia ad evidenziare concreti segnali di intolleranza, sul
piano politico la questione immigrazione sta assumendo una valenza elettorale
decisiva.
Questo
insieme di fatti evidenzia chiaramente la centralità della questione
immigrazione, da considerare ormai come un fenomeno che richiede una azione
strategica capace di dare risposte concrete sulla base di interpretazioni
corrette, così come di arginare i mali che ne derivano.
In
questo senso, occorre riconsiderare l'allarmismo sociale derivato dalla
trilogia “immigrazione, criminalità, insicurezza” e promuovere una idea di
società basata su una chiara strategia dei diritti ed una etica della
solidarietà.
Si
tratta a questo punto di riproporre con forza la questione del diritto di voto
come pilastro dei diritti di cittadinanza, di promuovere l’associazionismo
immigrato, di garantire percorsi e processi di partecipazione che rendano
fruibili i diritti che l'ordinamento italiano prevede per gli immigrati. Si
tratta inoltre di sradicare ogni forma di discriminazione sia a livello
istituzionale che nel mondo del lavoro e nella società. Si tratta infine di
coniugare e rendere complementari politiche culturali e politiche sociali.
Si
tratta in definitiva di aprire una nuova fase delle politiche dell'immigrazione
che si ponga come obiettivo di sviluppare la soggettività e la partecipazione
degli immigrati.
Partecipazione
e rappresentanza
Diritto di voto
Integrazione, cittadinanza e diritti politici sono
indissolubili. È contraddittorio chiedere all’immigrato di integrarsi
continuando a considerarlo giuridicamente straniero e ad escluderlo dal potere
decisionale a tutti i livelli, poiché il mancato godimento dei diritti politici
rappresenta un ostacolo per l’integrazione. La partecipazione politica, invece,
indebolisce il senso stretto di appartenenza etnica rafforzando l’appartenenza
alla comunità politica, consolida la condivisione di valori comuni, in
particolare la laicità e il pluralismo. Inoltre, essa arricchisce
culturalmente, previene i conflitti, promuove la formazione di una cultura
della mondialità e di una società plurale che accoglie le differenze e le
valorizza invece di spingerle nei loro integralismi.
Il voto è il più importante strumento di partecipazione
politica in uno stato democratico moderno. La globalizzazione e i valori della
società multietnica e pluriculturale ci impongono di superare la
discriminazione tra nazionalità e cittadinanza, quest’ultima rivista e
rifondata in funzione di una società plurale nella quale tutti gli individui
che condividono le sue regole e contribuiscono al suo sviluppo devono poter
accedere, indipendentemente dal loro luogo di nascita, a tutti i diritti
compresi naturalmente quelli politici.
Chi teme una cittadinanza fondata sulla residenza
non sa probabilmente che cosa significa scegliere di vivere in un altro paese,
ritrovare la propria dignità trovandovi il lavoro, godere di libertà e diritti
spesso negati nel paese di origine, provare condizioni di vita agevoli o
addirittura il benessere, affezionarsi sempre di più al nuovo paese fino a
sentirsi straniero nel paese di origine. Perché negare a tale cittadino il
diritto di voto concesso anche agli italiani all’estero nonostante non
partecipino alla vita economica e sociale dell’Italia. Una cittadinanza fondata
sulla residenza non può che rafforzare la democrazia e riqualificare le istituzioni democratiche.
La “Convenzione sulla partecipazione degli stranieri alla
vita pubblica a livello locale” approvata dal Consiglio d’Europa il 5 febbraio
1992 invita gli stati europei a garantire diritti elettorali attivi e passivi
per gli stranieri nelle elezioni di carattere locale. Infatti, in diversi paesi
europei gli stranieri votano nelle elezioni amministrative. Anche l’Italia ha
firmato e ratificato questa convenzione escludendo però il capitolo sul diritto
di voto degli stranieri.
Il processo di affermazione dei diritti politici degli
immigrati è un dovere etico dei politici italiani.
Associazionismo
I
percorsi che conducono alla costituzione di associazioni di immigrati non sono
tutti uguali, ma rispecchiano le caratteristiche di ciascun gruppo. Le forme
iniziali di aggregazione fra immigrati si realizzano spontaneamente per
rispondere al bisogno di riconoscersi e di allacciare una rete naturale di
sostegno reciproco. Il passaggio dall'aggregazione spontanea all'associazione
avviene quando si avverte la necessità di dare al gruppo una continuità e una
strutturazione che gli consenta di rispondere meglio alla crescente complessità
dei bisogni e degli interessi dei suoi componenti.
Un
associazionismo bicefaloe
ha caratterizzato l'arcipelago immigrazione in quanto nello stesso campo,
operano associazioni di immigrati ed associazioni laiche o cattoliche. In
questo panorama, le associazioni di immigrati hanno notevoli difficoltà
logistiche ( sede, mezzi di comunicazione, fax,…) e, di conseguenza, limiti evidenti ad
informarsi ed informare i propri associati. Inoltre, la mancanza di risorse
finanziarie adeguate confina le loro attività in iniziative di minore
rilevanza marginale. Ssi
crea quindi una incapacità materiale di sviluppare azioni e strategie per
l'integrazione.
Di
fattoi,
non viene valorizzato il potenziale di risorse umane in esse contenutoe proprio per
la mancanza di mezzi finanziari e logistici . Quindi viene meno la
possibilità di svolgere la funzione di mediazione politica e culturale, di promuovere delle
vertenze territoriali ed infine di dialogare davvero con la società civile.
Sul piano politico, il passaggio dalla rete di relazioni
all'associazione, ma soprattutto dall'associazione informale a quella formale,
ha un significato di rilievo nell’ottica della rappresentanza politica degli
immigrati. In effetti, si rafforza la funzione rivolta a gestire i rapporti
esterni del gruppo, in particolare con la società locale e con le sue
istituzioni. Questo passaggio presuppone la presa di coscienza che la partita
si gioca prevalentemente nel paese di residenza. Ma proprio per la riluttanza ad
ammettere l'irreversibilità della propria immigrazione, questa funzione viene
spesso solo sottintesa dal gruppo. Se si tratta di gestire l'inserimento del
gruppo nella competizione sociale e di rappresentarlo di fronte alle
istituzioni locali, si rendono necessarie, da una parte, una conoscenza delle
dinamiche politico-istituzionali locali e dall'altra una legittimazione, vale a
dire una delega del gruppo che garantisca un minimo di rappresentatività.
Consigli territoriali
L'istituzione dei consigli territoriali ha inaugurato una
nuova fase nelle politiche territoriali dell'immigrazione. Certamente, questo
forte decentramento a livello provinciale crea una prossimità tra i luoghi di
elaborazione della politica e i soggetti,
nonché attori, destinatari. La fase di inizio presenta però delle
notevoli difficoltà in quanto i consigli già costituiti non hanno elaborato un
piano di intervento, dei progetti e delle strategie, insomma, la loro
istituzione si manifesta come l'ennesimo esempio di democrazia formale.
Per quanto riguarda la costituzione di questi organi si
riscontra, in generale, una mancanza di chiarezza nei criteri di scelta delle
associazioni chiamate a farne parte, soprattutto per quel che riguarda le
associazioni di immigrati. La maggior parte delle associazioni di immigrati che
vengono messe al corrente dell’esistenza del Consiglio Territoriale sono
ambiziose di farne parte rischiando talvolta di creare anche qualche
rivalità. Benché il Consiglio Territoriale sia un organismo sull’immigrazione,
la tendenza generale è di sottovalutare i veri protagonisti: i componenti
immigrati sono molto spesso considerati solo dal punto di vista formale e non
decisionale.
Un diverso tipo di problemi si riscontra in relazione
alle modalità di funzionamento e di gestione da parte dei Prefetti. Accogliendo
il nuovo ruolo che è stato loro affidato dalla legge, i Prefetti
potrebbero approfondire in maniera meno burocratica la materia e conoscere
meglio i suoi protagonisti. Inoltre, i Prefetti sembrano esprimere spesso un
atteggiamento di diffidenza e di sottovalutazione nei confronti delle
associazioni di immigrati rispetto alle quali sembrano ritenere che basti
rispettare il numero minimo di due rappresentanti previsto dalla legge per
essere “a posto”. Secondo il parere di alcuni Prefetti, un numero più alto di
rappresentanti di associazioni di stranieri potrebbe trasformare le assemblee
del Consiglio Territoriale in incontri inconcludenti e poco operativi. I
Prefetti sembrano dare maggior credibilità a rappresentanti di associazioni di
matrice strettamente Italiana (Associazioni di Industriali, Comuni, Sindacati,
Caritas, ecc...). Al contrario, sarebbe molto utile mettere tutti i
componenti del Consiglio sullo stesso piano in modo da fare frutto delle loro
diverse esperienze. È anche da ammettere tuttavia che spesso l’impreparazione e
la mancanza di informazione di tanti rappresentanti di associazioni di
immigrati non facilita la collaborazione ma genera diffidenza. Certamente il
fatto che il Prefetto diriga il Consiglio Territoriale garantisce il carattere
operativo del Consiglio medesimo anche per l’autorevolezza della carica tanto a
livello locale quanto a livello nazionale. Inoltre, la presenza del Prefetto e
del Questore nel Consiglio dovrebbe consentire una migliore comprensione del
fenomeno e delle problematiche dell’immigrazione e conseguentemente facilitare
le procedure di soggiorno dei cittadini immigrati. Proponiamo inoltre che
sia portato da due a cinque il numero minimo di rappresentanti di
associazioni di immigrati in modo da tener conto delle principali aree di
provenienza di immigrati. Si tratta inoltre di garantire una maggiore
partecipazione delle associazioni di immigrati e/o delle loro rappresentanze,
organizzando se necessario delle elezioni al fine di decidere nella trasparenza
e nel rispetto delle regole democratiche chi rappresenta chi. Dalla chiarezza
della rappresentanza potrà allora derivare un concreto rapporto di
collaborazione fra i Consigli Territoriali, gli Enti locali e la Consulta Nazionale
.
È chiaro che le consulte
dovranno creare una nuova dinamica di partecipazione e promuovere le idonee
iniziative di ricerca azione, per approfondire le conoscenze in campo, al fine
di adottare strategie per l'integrazione a partire dalle peculiarità
territoriali. È necessario prevedere quindi un piano di finanziamento delle
associazioni di immigrati per una loro crescita professionale e per un migliore
utilizzo delle loro risorse umane.
Immigrazione e società multiculturale
Cittadinanza
La questione della cittadinanza, forse più di ogni
altra, indica i principi costitutivi di una società, determinando la natura del
patto che unisce l'individuo alla comunità civile e l’appartenenza ad una
comunità. Questa questione si inserisce oggi nel contesto di un fenomeno in
divenire quale quello dell’immigrazione, che nell’ultimo decennio ha conosciuto
cambiamenti di rilievo che impongono di riformare la pur recente legislazione
in vigore.
La L.91 del 1992 risponde infatti maggiormente ai
principi e alle prospettive di un paese di emigrazione (v. l'attenzione ai
discendenti di cittadini italiani) che alle esigenze di una società sempre più
multiculturale.
Ci sembra in primo luogo da rivedere il modo
ordinario di acquisto della cittadinanza per i cittadini non comunitari che
viene fatto dipendere da un periodo di permanenza legale in Italia di dieci
anni. Al momento, l’acquisto della cittadinanza, pur in presenza di tutti i
requisiti richiesti dalla legge, non rappresenta un diritto, ma dipende da una
concessione discrezionale della P.A. che ha, tra l’altro, tempi altamente
incerti. Inoltre questa concessione si basa sulla valutazione di fattori quali
l'autosufficienza economica, il comportamento fiscale e la mancanza di
precedenti penali.
Vi è da domandarsi se siano questi gli elementi
principali e/o esclusivi da prendere a riferimento per valutare il grado di
integrazione dell'individuo e non anche altri, quali la conoscenza della
lingua, della cultura, del sistema di governo del paese, ecc.
Inoltre, per favorire l’integrazione dei figli di
stranieri nati e cresciuti in Italia, ci sembra necessario semplificare l'acquisto
per beneficio di legge in seguito alla nascita in Italia, che al momento
richiede una residenza legale senza interruzioni fino alla maggiore età. Una
semplificazione procedurale rafforzerebbe, ufficializzandolo, il legame di
appartenenza alla comunità da parte di chi nascendo e crescendo in Italia
tende, comunque, a radicarsi nella cultura locale. Non sembrerebbe possibile
però semplificare e abbreviare la procedura per l’acquisto della cittadinanza
da parte del bambino che nasce in Italia da stranieri, rafforzando così il
principio di ius soli, senza inserire dei meccanismi per il consequenziale
acquisto della cittadinanza da parte dei genitori.
Infine, anche alla luce degli abusi emersi in questi
anni, andrebbe rivisto in senso restrittivo il meccanismo di acquisizione della
cittadinanza per matrimonio.
Stato dell’integrazione
(problemi di applicazione della legge)
La
legge ha evidenziato contraddizioni e limiti operativi che lo stesso
regolamento di attuazione non sempre è riuscito a superare. Ci sono inoltre
notevoli difformità di applicazione delle norme nelle varie realtà del paese.
Spesso le persone che lavorano negli Uffici stranieri non sono competenti in
materia e sono poco sensibili ai problemi degli immigrati.
Vorremmo
segnalare alcuni punti di particolare criticità:
1)Tutte
le misure e le iniziative previste dalla normativa a livello locale,
fondamentali ai fini dell’integrazione, hanno avuto scarsa o molto parziale
attuazione.
2)Le
difficoltà che già da tempo vengono segnalate per quanto riguarda il rinnovo
del permesso di soggiorno sono destinate ad aumentare nei prossimi tempi, sia
per il permesso di soggiorno per lavoro autonomo che per iscrizione nelle liste
di collocamento. In questo ultimo caso, la legge consente il rinnovo per un
solo anno alla scadenza del quale ci sono alte probabilità di ricaduta
nell’irregolarità di persone che spesso vivono da anni regolarmente in Italia e
si sono semplicemente trovate ad affrontare un periodo di disoccupazione.
3) Tempi lunghi e procedure troppo rigide per
ottenere il ricongiungimento familiare. Sembra per esempio eccessivo pretendere
dai cittadini stranieri l’onere di dimostrare la conformità dell’abitazione ai
requisiti previsti dalla legge regionale mediante l’esibizione
dell’attestazione dell’ufficio tecnico comunale competente o dell’azienda
sanitaria di zona al fine di poter ottenere il ricongiungimento familiare.
Temiamo, infatti, che l’apparente scopo di garantire un alloggio confortevole e
dignitoso agli stranieri immigrati costituisca, in realtà, un’ulteriore
barriera al loro inserimento sociale.
4)
Ritardi e procedure poco chiare nella concessione della carta di soggiorno.
5)
Procedure lunghe per il riconoscimento dei titoli di studio
6)
Mancata previsione di quote specifiche che consentano agli studenti che
terminano il loro corso di studi di convertire il permesso da studio a lavoro.
Essendo tale conversione vincolata al rispetto delle quote, normalmente
all’epoca dell’anno in cui gli studenti completano i corsi e conseguono i
diplomi, le quote per lavoro risultano già esaurite e la conversione si rivela
impossibile.
7)
Procedure complesse per la formalizzazione di un rapporto di lavoro, anche
quando rientra nelle quote.
Discriminazione
La risoluzione 12/52 delle Nazioni Unite promuove il
2001 come anno internazionale contro il razzismo. Tale iniziativa deriva dalla
recrudescenza degli atti di razzismo, di intolleranza e di xenofobia, mentre
l'ultimo decennio si è inaugurato con l'eliminazione dell'apartheid. L'Italia
ha conosciuto nell'arco dell'ultimo decennio un mutamento quasi radicale sia
sul versante della moltiplicazione degli atti di razzismo, sia sul versante di
una decrescente sensibilità della società civile. In effetti la grande risposta
di sensibilità e di civiltà espressa dall'intera società italiana nel 1989
quando fu ucciso Jerry Essan Maslo, non si è verificata a dieci anni di
distanza, quando jon Iacazzu il lavoratore rumeno che cercava di essere
regolarizzato dal suo datore di lavoro fu bruciato vivo da quest'ultimo. La
questione della discriminazione trova quindi un humus sociale e prosegue
la sua evoluzione attraverso le politiche sociali, le politiche del lavoro, le
regole delle istituzioni ecc…
L'ordinamento
giuridico italiano considera illecita ogni forma di discriminazione, intesa
come ingiustificata differenziazione nel trattamento della persona; specie se
detta discriminazione risulti causata dall’origine etnica, nazionale o
religiosa del soggetto discriminato. Numerose norme, infatti, vietano e
sanzionano gli atti discriminatori. Ricordiamo, in primo luogo, la legge
13.10.1975, n.654, di ratifica ed esecuzione della Convenzione internazionale
sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, cui è seguita
la legge 25.6.1993, n.205, con le quali il legislatore ha provveduto a
determinare l’area della rilevanza penale dei comportamenti discriminatori
messi in atto per motivi razziali, etnici o religiosi.
Opportunamente, questa normativa di stampo penalistico,
mirante a reprimere condotte particolarmente gravi e violente, è ora affiancata
dagli artt. 43 e 44 del d.lgv 25.7.1998, n.286, testo unico in materia di
immigrazione (corrispondenti agli artt. 41 e 42 della Legge n.40/1998) che
hanno dato forma e rilevanza civilistica alla discriminazione razziale, in
qualunque ambito essa abbia occasione di esprimersi. Dobbiamo però constatare
che se, almeno sul piano normativo, la discriminazione intenzionale e palese
risulta adeguatamente contrastata e sanzionata, non altrettanto può dirsi delle
numerose e gravi forme di discriminazione indiretta o subdola che si esprime, a
volte, attraverso l’adozione da parte delle pubbliche amministrazioni, specie a
livello delle autonomie locali, di provvedimenti amministrativi nei quali
l’intento discriminatorio ed emarginante è dissimulato.
Persiste, inoltre, al di sotto e, talvolta, in
concreta contraddizione con l’enunciazione legislativa del divieto di
discriminazione, una produzione normativa, specie a livello regolamentare, che
stabilisce ingiustificabili differenze nel trattamento degli stranieri, oppure
che, ignorando le diverse condizioni ed esigenze di questi ultimi, li sottopone
ad un regime stolidamente uniforme ed emarginante. A questo riguardo ci sembra
opportuno segnalare alcune situazioni emblematiche sulle quali sarebbe
opportuno e urgente intervenire.
Il libretto di
lavoro. Al
cittadino italiano il libretto di lavoro viene rilasciato dall’ente locale senza
difficoltà. Il cittadino straniero, invece, lo può ottenere solo presentandosi
assieme al datore di lavoro, o con una dichiarazione di assunzione, ed
esclusivamente per il tempo in cui è occupato. Questo significa che il
lavoratore straniero che ottenga un’offerta di impiego in un luogo (per
ipotesi, Treviso) diverso da quello della sua ultima occupazione (per ipotesi,
Messina), debba, in fatto, ritornare all’ispettorato del lavoro situato nel
luogo di ultima occupazione con il datore di lavoro o con una sua
dichiarazione, farsi rilasciare il libretto di lavoro e ripresentarsi al nuovo
datore di lavoro. Si tratta, evidentemente, di una prassi estremamente
disagevole, specie se si considera che il lavoratore straniero cui sia stato
offerto un impiego, è, ancora, a quel momento, disoccupato e perciò in gravi
difficoltà economiche.
Provvidenze di
assistenza sociale. Le provvidenze di assistenza
sociale previste dall’art.41 del t.u. sull’immigrazione a favore di coloro che
abbiano un permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno sono state
successivamente sospese dal legislatore, che le ha mantenute, invece, solo a
favore dei titolari della carta di soggiorno. Si tratta di una decisione
ingiusta, dato che sia i titolari di permesso di soggiorno sia i titolari della
carta di soggiorno lavorano e contribuiscono alla ricchezza del nostro paese.
Accesso alla
formazione professionale superiore Nonostante
il fatto che per gli stranieri regolarmente residenti in Italia sia prevista la
condizione di parità nell’accesso alla istruzione, anche superiore, ed alla
formazione professionale, le segreterie universitarie rifiutano l’iscrizione
agli stranieri residenti, già laureatisi in una università italiana, ai corsi
di specializzazione e di perfezionamento. In particolare, risulta grave
l’esclusione dei medici dai corsi di specializzazione, riguardo alla quale sono
state raccolte diverse segnalazioni.
Necessità di
una corretta informazione. Una certa preoccupazione deve essere espressa per l’atteggiamento
assunto dai media sul tema della presenza straniera in Italia. La selezione
delle notizie sembra spesso arbitraria e non di rado priva di riscontri
effettivi, mentre non ricevono adeguato spazio informativo i numerosi aspetti
positivi dell’immigrazione straniera
Manifestazioni
di xenofobia e antisemitismo. Si assiste con preoccupazione all’affermarsi di un
clima violento e xenofobo, anche in occasione di manifestazioni sportive,
specie calcistiche. Più in generale, il ripetersi di gravissimi episodi di
xenofobia e di antisemitismo a livello europeo dovrebbe coinvolgere
maggiormente le istituzioni nell’impegno a costruire una convivenza civile non
violenta ed una più consapevole memoria storica , unitamente ad una più
corretta ed ampia informazione sui grandi temi della pace e della giustizia.
Le famiglie, donne e bambini immigrati in Italia
Superata
la fase di emergenza che ha caratterizzato tutto il decennio ’90 l’immigrazione
in Italia ha iniziato una nuova tappa di progressiva ‘normalizzazionÈ dovuta,
tra l’altro, alla trasformazione delle caratteristiche ‘demografichÈ della
popolazione in arrivo. Una maggiore presenza delle donne, degli immigrati
coniugati e l’innalzamento della classe di età sono fattori che contribuiscono
a questa normalizzazione.
I dati relativi ai visti per ricongiungimento
familiare (circa 45.000 nel 1998 e nel
1999) rivelano una crescente presenza femminile e familiare, proveniente
soprattutto dall’Oriente, dal Nord Africa e dall’America Latina: da queste zone
del mondo, ormai, i visti per motivi di lavoro sono il 25% di quelli richiesti
per motivi familiari.
È ragionevole perciò immaginare che nella nuova fase
che si sta aprendo le famiglie avranno un ruolo fondamentale e appare
consigliabile pianificare interventi mirati ad agevolare l’inserimento del
gruppo familiare puntando soprattutto a migliorare la condizione dei membri più
a rischio.
Al
31 dicembre 1998, sul totale degli stranieri presenti in Italia (1.033.235) le
donne rappresentano il 46,8%, pari a 483.546 unità. Come è noto, l’incidenza
della componente femminile sulla popolazione immigrata varia a seconda delle
aree geografiche di provenienza e dei motivi alla base della scelta di emigrare
in Italia.
La condizione delle donne immigrate è aggravata,
rispetto a quella della componente maschile, da un fattore di tipo culturale:
la lingua. Infatti, mentre la popolazione maschile, per tradizione più
socialmente attiva (ad esempio, nel mercato del lavoro), riesce ad inserirsi
più facilmente nel nuovo contesto sociale (anche imparando la lingua del paese
di accoglienza), non altrettanto si può dire delle donne, necessariamente
concentrate sulla famiglia e sulla cura
dei figli. Le donne tendono quindi a perpetuare modelli culturali ancora
legati al paese di provenienza (lingua, usanze, costumi) e ad essere meno
partecipi nella vita sociale del paese di accoglienza. Questo succede
soprattutto nel caso di donne che si ricongiungono ai mariti, i quali già
inseriti nel contesto di accoglienza non sono sempre dei “buoni” mediatori per
l‘inserimento delle mogli se queste ultime non si attivano da sole verso
l‘esterno partecipando a corsi di lingua o non sono stimolate all’uso della
lingua italiana all’interno del nucleo familiare.
Diverso si presenta il caso di quelle donne che
emigrano da sole ed il cui inserimento incontra tutte le difficoltà proprie di
chi non ha un adeguato sostegno familiare. Ancora diverso, e con caratteri di
emarginazione estrema, è il caso delle donne forzate all'interno di circuiti
illegali di cui la tratta è un aspetto gravissimo.
Questa marginalità culturale, quindi, sommandosi
alle oggettive difficoltà di integrazione, costringe la donna immigrata a
subire una situazione di estremo disagio.
È chiaro, dunque, come l’integrazione degli
immigrati sia un processo lento e difficile nel quale il ruolo della donna,
soprattutto come moglie e come madre, è fondamentale e per questo va sostenuto
attraverso interventi mirati, finalizzati al loro inserimento graduale nei vari
settori della società civile.
Vorremmo
in questa sede proporre alcuni suggerimenti:
1.
Unità familiare come diritto
soggettivo
di tutti i lavoratori e lavoratrici immigrati/e; semplificazione delle procedure amministrative e riduzione della
discrezionalità degli uffici periferici;
2.
accesso
ai benefici socio-economici (sostegno
alla maternità ed alla famiglia, sostegno scolastico, ecc.) per tutti gli
uomini, donne e bambini/e legalmente soggiornanti, non solo per quelle/i in
possesso della Carta di Soggiorno;
3.
flessibilità
degli orari scolastici, utili anche alle donne italiane. Tra le attività di dopo scuola è importante inserire il sostegno
all’apprendimento della lingua italiana per i minori che ne hanno bisogno;
4.
iniziare
l’educazione alla multiculturalità
già nella scuola materna;
5.
in
questo momento si parla di bambini/e immigrati/e, datti in affidamento e poi in adozione
a famiglie italiane, anche se in presenza di una madre naturale che rivendica
la propria maternità. Occorre un’immediata verifica
delle procedure delle adozioni dei bambini stranieri residenti in Italia ed
un adeguato sostegno alle madri in difficoltà; si tratta anche di ripensare in
un’ottica diversa gli stessi criteri di valutazione in base ai quali i bambini
vengono separati dai genitori naturali per mancanza di mezzi di sostentamento e
verificare se sussistono le condizioni che consentano ai genitori di affidarli
a parenti residenti in Italia o nel paese di origine;
6.
occorre
ridefinire i parametri e i criteri della
presentazione e valutazione dei progetti, privilegiando i contenuti e le
idee alla forma, ove non discriminare le
associazioni degli immigrati/e (in particolare per quanto riguarda i progetti delle donne, mirati all’ascolto
e all’assistenza di donne e bambini) che, oltre al limite linguistico, non
hanno ancora maturato esperienza metodologica sufficiente all’elaborazione dei
progetti stessi;
7.
si
suggerisce con forza il ricorso alla formazione linguistico-culturale,
strumento di efficacia immediata per superare l'isolamento e la marginalità derivanti dalla difficoltà (se non
dall'impossibilità) di partecipare alla vita sociale quotidiana. Non si
dovrebbe trattare solo di corsi di lingua italiana, ma anche, ad esempio, di
educazione civica (informazione sulle leggi e gli usi del nostro Paese); la formazione transculturale, già
sperimentata con successo, potrebbe essere la modalità più adeguata. A questo
proposito è opportuno sottolineare l’estrema
importanza della figura del mediatore culturale che, purtroppo, sino ad
oggi, non ha trovato spazi adeguati.
Conclusioni
Uno dei
grandi quesiti posti dal multiculturalismo è quello della diversità. Come si
può trattare la diversità? Quale posto le deve essere attribuito nel sistema
sociale? La diversità è ricchezza o impoverimento? Un vantaggio o una minaccia?
Per dare una risposta è importante ricordare che la diversità non è semplicemente un
concetto filosofico né una forma semantica. La diversità è prima di tutto una
realtà concreta, un processo umano e sociale. La diversità si manifesta nelle
pratiche quotidiane e partecipa di un processo storico. Quindi è impossibile
capire la diversità senza prendere in
considerazione i mutamenti e le evoluzioni che la caratterizzano nella sua
dinamicità. In ogni momento, se si considera il passato, e il processo dal
quale deriva la diversità , essa si manifesta come risultato, mentre se si
considera la continuità e la dinamica del processo, essa si manifesta come
transizione .
L'Italia si trova dinanzi ad una accellerazione dei
mutamenti della propria società e si trova ad affrontare la questione della
diversità come necessità alla sopravvivenza del suo sistema produttivo, al
ricambio generazionale della sua popolazione e quindi ha una sola alternativa
per gestire questo confronto: la valorizzazione della diversità come antidoto
contro l'eventualità di un ritorno alla barbarie. Si tratta quindi di adeguare
il contesto politico, sociale e culturale italiano alla questione della
diversità degli immigrati ponendo la questione multiculturale come una sfida di
civiltà.