intervento dell’Assessore alle
Politiche Sociali del Comune di Roma Amedeo Piva
Al termine della carrellata delle
politiche è venuto il momento dei servizi orientati ai cittadini stranieri.
Giustamente, poiché il modello che si è andato delineando nelle relazioni
precedenti, nel suo significato prevede che i nuovi cittadini siano inseriti
con pari dignità nel sistema dei diritti e dei servizi pubblici del nostro
paese ma è stato altrettanto chiaro che tutto ciò non si improvvisa ma ha
bisogno di leggi, di soluzioni organizzative e di procedure amministrative,
pensate e applicate affinché il modello viva e produca veramente gli effetti
che la politica di integrazione vorrebbe che avesse. L’attenzione nel modello
di integrazione alla mediazione culturale e alla semplificazione amministrativa
non nasce dal caso ma è voluta e legittimata dalla legislazione nazionale,
soprattutto dal Documento programmatico. Esso pone a tutti gli obiettivi
generali di costruire relazioni positive, garantire pari opportunità di
accesso, tutelare le differenze ed assicurare i diritti della presenza legale.
In particolare, cito il documento, è necessaria una politica dell’informazione,
diretta agli immigrati e ai nazionali, al fine di rassicurare gli uni e gli
altri rispetto ai reciproci pregiudizi e timori, in modo tale che la naturale
interazione, che comunque avviene tra italiani ed immigrati, si svolga in un
contesto contrassegnato dalla “normalità”. E proprio “il mettere in condizione
gli stranieri di vivere normalmente” è la filosofia di fondo della politica di
integrazione indicata dal Documento Programmatico, comprese anche le misure di
carattere amministrativo volte a semplificare e coordinare le procedure e a
ridurre la duplicazione dei documenti. La macchinosità e la rigidità delle
procedure sono infatti, cito sempre il documento, spesso causa di incertezza e
di ritorno nell’illegalità e in questo senso, per gli stranieri che non sono
nati e vissuti nel nostro stesso ambiente, occorre produrre uno sforzo in più,
affinché pari opportunità e non discriminazione risultino atti concreti e non
solo volontà.
Ecco perché il mediare fra culture
differenti affinché si capiscano e possano interagire consapevolmente e
liberamente e il semplificare gli iter burocratici integrando i servizi
amministrativi esistenti, diventano due “gambe” importanti che sorreggono i pilastri
delle pari opportunità e capacità e della prevenzione delle discriminazioni e
dei pregiudizi.
(Perché la mediazione culturale nei
servizi.)
Per quanto riguarda il processo di
comunicazione tra realtà immigrata e italiana, il Testo Unico introduce e riconosce,
per la prima volta, la figura del “mediatore culturale”, “al fine di agevolare
i rapporti tra le singole amministrazioni e gli stranieri appartenenti ai
diversi gruppi etnici, nazionali, linguistici e religiosi”. A tale ambito
generale aggiunge poi in modo specifico la loro utilizzazione nelle relazioni
tra scuola e famiglia.
E’ un
riconoscimento che avviene dopo lo sviluppo di una ricca ed articolata
esperienza durante il corso degli anni ’90 di formazione e di impiego di questi
nuovi operatori culturali, soprattutto nel centro nord, da parte di regioni,
province e comuni e promossa dall’associazionismo con diverse specializzazioni,
protagonisti in molti casi gli stessi cittadini stranieri.
In mancanza di
definizioni prestabilite, la regola aurea che vige in ogni sistema è che lo
sviluppo sperimentale segue le necessità. Quindi i settori di positivo impiego
dei mediatori sono stati i più vari: sanità, scuola, servizi sociali, servizi
per l’integrazione, in particolare per le donne e i minori, iniziative
culturali, centri di accoglienza, questure, uffici specializzati e anagrafe
degli EE.LL., uffici giudiziari, organizzazione aziendale. Ugualmente vari sono
stati i rapporti formali di impiego: prestazione professionale, lavoro
coordinato e continuativo, dipendente privato, lavori socialmente utili,
cooperative.
Il dibattito
che ne è scaturito e il confronto con gli altri paesi europei, attraverso
iniziative finanziate dalla Commissione Europea e soprattutto facendo tesoro
dell’esperienza dei paesi di più antica immigrazione, hanno comunque
contribuito a farci vedere più chiaro, individuando tre necessità
improrogabili, che giustificano l’importanza data a questo tema nella giornata
odierna: occorre definire un ruolo rispetto agli altri operatori con cui il
mediatore interagisce; occorre individuare e omogeneizzare in tutto il
territorio nazionale il profilo delle competenze necessarie; occorre prendere
atto che questa è una professionalità richiesta dalla trasformazione stessa in
società multi ed interculturali, quindi ben oltre e ben più stabilmente delle
occasioni dell’emergenza. Perciò credo sia opportuno che ciò venga discusso e
si trovino soluzioni nella Conferenza Stato-Regioni, allargata alla inevitabile
partecipazione degli Enti Locali.
La problematica
che è sortita in questi anni nell’efficace utilizzazione dei mediatori non sta
tanto nella necessità, nelle modalità di impiego o nei rapporti formali di
lavoro, quanto nella professionalità da chiedere al mediatore e nella
definizione formale del ruolo in quanto lavoratore.
A questo punto
tocca a noi politici e anche senza discostarsi dalle indicazioni legislative
generali, occorre che le legislazioni regionali e i comportamenti degli Enti
Locali acquisiscano questi risultati e li traducano in norme e atti
amministrativi, tali da dar corpo e peso a questa realtà che, ripeto, non è più
solo patrimonio teorico-concettuale ma sta ormai nelle cose.
Da questo
punto di vista qualsiasi intervento pensato per sostenere l’integrazione dei
nuovi cittadini deve stare dentro il riferimento che le Istituzioni nazionali
hanno dato per interpretare il processo di integrazione. Riferimento che, come
abbiamo già accennato all’inizio, è sì generale ma al tempo stesso piuttosto
chiaro: volontà di non discriminare e di non emarginare, promuovendo le
procedure occorrenti affinché tutti gli immigrati, e sottolineo tutti, abbiano
possibilità di integrazione e di partecipazione alla vita sociale, a vantaggio
loro e nostro.
Per non
discriminare e non emarginare occorre dare a tutti le medesime opportunità: di
pensare, di agire, di utilizzare quanto la collettività nazionale mette a
disposizione di tutti, dunque la mediazione culturale, o interculturale per chi
preferisce questo termine, è quell’arte che insegna a sentirci e a trattarci
reciprocamente come cittadini con l’identica dignità personale, uguali davanti
alla legge, ugualmente capaci di costruire un futuro comune. Certamente questo
non può sostituire la ricerca di migliori modalità di partecipazione politica e
sociale ma può esserne un elemento di facilitazione.
“Insegna”,
“reciprocamente”, “comune”: queste sono le parole chiave che ci indicano le finalità
della mediazione.
“Insegna”: credo che fra tutti i popoli
europei noi italiani più di tutti sappiamo cosa significa l’incontro fra
culture diverse, l’unità di Italia ha poco più di cento anni e ancora oggi ogni
tanto occorre ribadirla, le lettere e le storie dei nostri nonni e genitori
emigrati sono un ricordo vivo in molte delle nostre famiglie. Da queste
esperienze sappiamo che il riconoscimento, la comprensione e l’accettazione,
indispensabili ogni volta che si tende all’integrazione, non sono cose che si
improvvisano ma vanno guidate. Sentirci uguali significa uscire dal nostro
egoismo, dai nostri particolarismi e contemporaneamente affrontare quelli
dell’altro, perciò possiamo aver bisogno di qualcuno che ce ne spieghi il
perché.
“Reciprocamente”: il percorso che abbiamo appena
definito non può essere fatto solo da una parte. Quando si incontrano e
interagiscono due realtà diverse, ambedue hanno la responsabilità di aprirsi e
contemporaneamente permettere all’altro di entrare; così ci si sente alla pari.
Non si tratta tanto di mettere in discussione le rispettive identità, quanto di
scoprire che esse possono magari essere migliori di quelle che la storia e le
tradizioni ci hanno consegnato. Per questo abbiamo bisogno di un processo che
tenga in equilibrio e armonizzi questa comunicazione a doppio senso.
Infine “comune”:
mentre tutto questo accade, tutti noi viviamo insieme, agiamo insieme,
produciamo insieme. Che ce ne accorgiamo o no l’interazione fra saperi,
conoscenze, abitudini diverse modifica quello che sappiamo, che conosciamo e
come ci comportiamo. In questo modo “integrarsi” diventa interagire fra persone
o fra gruppi e l’interazione costruisce un qualcosa che è accettabile e utile
ad entrambi; un qualcosa di diverso perché più comprensivo di prima e quindi,
comunque, potenzialmente più ricco. Siamo coinvolti in un cambiamento ed è
meglio se accettiamo che qualcuno ci aiuti ad attuarlo consapevolmente.
(A quale
fine tende la mediazione.)
Per tutte
queste ragioni la mediazione che oggi ci interessa è un processo di interazione
culturale applicabile per:
-
rimuovere
quegli ostacoli di comprensione che impediscono e intralciano la comunicazione
tra il sistema della Amministrazione pubblica e il cittadino straniero, così
come fra frange o spaccati di popolazione italiana e di popolazione straniera;
-
prevenire
quelle decisioni e quei comportamenti che, anche inconsapevolmente, tendono di
fatto alla discriminazione, alla emarginazione o al pregiudizio;
-
rendere
il nostro sistema dei servizi più comprensibile e quindi più fruibile per
l’utente straniero;
-
migliorare
la stessa efficacia nei confronti del cittadino straniero di tutta la gamma dei
servizi disponibili, sicuramente quelli pubblici ma, perché no, anche quelli
privati;
-
fornire
un prezioso sostegno tecnico a quei soggetti che intervengono nella prevenzione,
gestione e composizione di conflitti di natura sociale fra le comunità
immigrate e le istituzioni politiche e amministrative, così come tra comunità
locali italiane e straniere.
Inoltre,
accanto alla naturale dimensione professionale della mediazione, che avviene
nell’interazione fra singoli, è da promuovere anche la dimensione collettiva
della mediazione nella quale gruppi, organismi e associazioni, mantenuti in
collegamento da mediatori qualificati, possono mettersi reciprocamente a
confronto e produrre ulteriori e nuovi percorsi di integrazione.
(Chi è e cosa fa il mediatore interculturale.)
Se questi sono i contenuti e i
confini, legittimati dallo spirito legislativo e dall’esperienza, della
definizione della mediazione interculturale a disposizione dello Stato, delle
Regioni e degli EE.LL., il necessario passo successivo della individuazione dei
contenuti e dei confini della professione di mediatore interculturale gode di
un’efficace guida.
Intanto è evidente che il ruolo
rivestito è quello di “ponte”, di “ cerniera”, di interfaccia che mette in
collegamento e sollecita la comprensione fra immigrati stranieri e soggetti
italiani, primi fra tutti gli operatori dei servizi pubblici ma anche privati.
Proprio perché è una “ cerniera” di dialogo fra presupposti e significati
culturali diversi, il mediatore rispetta gli specifici ruoli, funzioni e poteri
di ciascuno, senza rappresentare né sostituire gli uni o gli altri.
In pratica è dunque un operatore
culturale che, con indipendenza e imparzialità, utilizza il proprio patrimonio
di conoscenze individuali e la capacità di gestire relazioni ed interazioni
personali (in primo luogo tra utenti immigrati e operatori) per rappresentare
nel modo migliore le esigenze e le caratteristiche degli stranieri presso i
rappresentanti dei servizi e viceversa.
Il mediatore interculturale
raggiunge le finalità della mediazione culturale che abbiamo indicato
principalmente attraverso le specifiche funzioni professionali di:
- facilitare l’incontro tra persone
diverse attraverso la capacità di decodificare i codici degli attori della
relazione, codici che sottostanno il linguaggio ovvero l’intero mondo di
sensazioni, esperienze e valori;
- aiutare i cittadini stranieri e
italiani a leggere e comprendere le rispettive culture anche alla luce delle
culture di appartenenza e delle reciproche aree di pregiudizio;
- individuare le potenziali
occasioni di conflitto e fornire gli strumenti interpretativi di conoscenza in
grado di evitare il suo svolgersi;
- valorizzare le risorse
provenienti da origini culturali e da valori diversi;
- partecipare alla
informazione/formazione degli operatori italiani a contatto con i cittadini
stranieri sulle loro peculiarità e diversità culturali.
In
questo modo il suo intervento sostiene il cittadino straniero immigrato nel
disporre effettivamente di pari opportunità nel godimento dei diritti,
nell’individuare le opportunità di inserimento nella società ospite, nella
conoscenza dei propri diritti e doveri, nella capacità di utilizzare correttamente
i servizi territoriali, nella possibilità di promuovere e valorizzare il suo
ruolo di straniero come risorsa e opportunità nel tessuto socioeconomico
ospitante.
Per poter prestare la propria opera
in modo conforme a quanto fin qui individuato il mediatore deve possedere
alcuni precisi requisiti di base:
- origine preferibilmente
straniera, con esperienza personale di immigrazione;
- elevata e aggiornata conoscenza
della lingua, della cultura e della realtà socioeconomica dell’area geografica
di origine;
- buona conoscenza della lingua
parlata e scritta e della cultura italiana;
- sufficiente conoscenza della
realtà italiana e del territorio in cui opera;
- congruo periodo di permanenza in
Italia;
- motivazione e disposizione al
lavoro relazionale, capacità di empatia e di riservatezza;
- adesione al codice deontologico
dell’azione di mediazione, riguardante specificatamente gli obblighi di
riservatezza, di correttezza e di non subordinazione nei confronti degli attori
della relazione.
(La formazione.)
Come possiamo agevolmente
constatare quello che è stato costruito è un profilo professionale peculiare e
di livello elevato, che proprio per questo ha bisogno di un riconoscimento
formativo altrettanto specifico ed elevato, che per poter assolvere alle sue funzioni
deve avere alcune caratteristiche minime omogenee in tutto il territorio
nazionale. Occorre, cioè:
- assicurare una struttura della
formazione a doppio livello, di base e di specializzazione;
- formule di accreditamento
successivo attestanti l’aggiornamento sulle specializzazioni conseguite e sullo
sviluppo culturale nelle proprie aree di origine;
- contenuti della formazione della
specializzazione di secondo livello che si riferiscono alla conoscenza e
all’approfondimento procedurale dei vari possibili settori di utilizzazione
(lavoro; servizi specializzati per l’integrazione; educativo; sanitario;
scolastico; sicurezza e giustizia; carcerario; assistenza sociale; emergenza e
prima accoglienza, ecc...).
Da ultimo, la
specificità e la novità della professionalità del mediatore interculturale
richiedono un intervento anche sull’accreditamento delle agenzie di formazione,
argomento tanto delicato quanto inevitabile. Le esperienze passate e quelle
internazionali suggeriscono l’adozione di un percorso in due tempi: il primo
immediato e a livello nazionale, il secondo immediatamente successivo e a
livello regionale. Nel primo si riconoscono agenzie formative accreditate gli
enti locali (solo qualora producano direttamente la formazione) e gli organismi
con esperienza documentata nel campo della mediazione interculturale ammesse al
registro nazionale istituito dalla Legge 40 e regolato dagli art. 52 e seguenti
del Regolamento di attuazione. Nel secondo la regolamentazione regionale
stabilizza definitivamente le sue regole. Un’iniziativa di primo accreditamento
in tal senso del Ministero degli Affari Sociali permetterebbe di iniziare
subito la costruzione dei nuovi percorsi formativi armonizzati e
contemporaneamente darebbe alle Regioni il tempo necessario per concordare tra
di loro un sistema di accreditamento e di riconoscimento professionale che, pur
nel rispetto delle competenze territoriali, deve permettere ai mediatori
interculturali di offrire le proprie prestazioni professionali su tutto il territorio
nazionale, indipendentemente dal luogo di formazione e di riconoscimento.
In ogni caso occorre tener
presente, come di norma avviene, che, al momento iniziale del riconoscimento
professionale da parte istituzionale, le esperienze qualificate condotte fino a
quel momento come mediatore possono essere considerate “crediti” sufficienti a
soddisfare le condizioni di base di requisiti e di formazione.
Un ulteriore vantaggio di una
formazione così strutturata è costituito dal fatto che il mediatore interculturale
così formato può essere efficacemente utilizzato, singolarmente o all’interno
dell’associazionismo e del volontariato, come consulente nella progettazione e
nella promozione di specifiche iniziative nel campo dell’immigrazione sia a
livello locale che regionale e nazionale.
Dunque, con la definizione della
professionalità del mediatore interculturale abbiamo esaminato nel concreto
un’applicazione dei principi di integrazione dati dal legislatore. Tuttavia la
sola mediazione culturale non basta a “colmare il divario di conoscenze
derivante dalla specifica condizione di straniero”, per usare le parole del
documento programmatico e raggiungere l’uguale finalità, appunto, di non
discriminare, non emarginare, dando a tutti le medesime opportunità di pensare,
di agire, di utilizzare quanto la collettività nazionale mette a disposizione
di tutti.
(Perché la semplificazione e
l’integrazione amministrativa.)
Nel momento in cui decide di
avvicinarsi ai servizi lo straniero deve affrontare le difficoltà della comunicazione
linguistica e della comprensione ma anche quelle del reperimento
dell’informazione efficace, del rapporto con una molteplicità di
amministrazioni che non comunicano tra loro, della complessità delle procedure
con duplicazioni di documenti. A questo si aggiungono la mancanza di
un’adeguata formazione degli operatori pubblici sia in termini di relazioni
interculturali, sia di approfondita conoscenza della normativa specifica,
comportamenti degli operatori difformi tra loro, anche all’interno delle
medesime amministrazioni, talvolta con ambiti di discrezionalità al limite
della arbitrarietà.
Per il cittadino straniero è un
faticoso “percorso ad ostacoli” che condiziona in modo negativo determinante la
possibilità di usufruire appieno dei propri diritti, così come, quando vince lo
scoraggiamento, condiziona la sua situazione rispetto alla legalità,
all’accoglienza, al processo di integrazione. Per non parlare, poi, del rischio
di restare vittima di raggiri.
Tutto ciò significa il contrario di
quello che le Istituzioni nazionali hanno stabilito come processo di
integrazione e la spinta, invece, alla discriminazione latente e
all’emarginazione di fatto diventa forte. La necessità di dare una risposta
attiva a queste spinte ha trovato sensibili molte amministrazioni locali e
territoriali, con le leggi della riforma Bassanini e l’ammodernamento
informatico come preziosi alleati.
(Le necessità rilevate sul campo.)
Le esperienze sono state tante ma
l’obiettivo pressoché unico: integrare l’informazione e i procedimenti
amministrativi al fine di costituire una rete dei servizi in grado di far
muovere i dati e non i cittadini, coinvolgendo gli Uffici comunali, le
Prefetture, la Questure, l’Inps, le Asl, le Camere di Commercio, gli uffici
finanziari, i Provveditorati agli Studi, Sindacati, Patronati, ecc…insieme alla
risorsa Volontariato e Associazionismo.
Così, tanto per citarne alcune, a
Padova dove Questura, Comune, Provincia, Acli, Caritas, Sindacati si sono uniti
per l’apertura di un ufficio con più sedi decentrate nel territorio, che
semplifica e integra le procedure amministrative che fanno capo alla Questura.
Esperienza ripresa a Latina dove si è pensato ad un “Punto di servizio
integrato della Pubblica Amministrazione” destinato a coinvolgere Comune, Provincia,
Inps, Inail, Inpdap, Ufficio del Lavoro, Camera di Commercio, Ministero del
Tesoro, Ufficio del Territorio.
Così al Comune di Brescia che ha
modificato la collocazione organizzativa del proprio Ufficio Stranieri
spostandolo dai servizi sociali al Gabinetto del Sindaco e da lì ha realizzato
protocolli di intesa con le Camere di Commercio, il Provveditorato agli Studi,
la Provincia.
Continuando con il Comune di Roma
che attraverso l’Agenzia Chances, gestita in collaborazione con i Sindacati,
nel promuovere l’attività lavorativa fornisce un servizio integrato di
informazione e consulenza su tutte le questioni rilevanti nella vita
dell’immigrato e sta mettendo in rete, specializzandoli, tutti gli U.R.P.
decentrati che fungono da ricettore unico e smistamento delle richieste di
servizio da parte dell’utenza straniera.
Che cosa
ci dicono queste esperienze? Una cosa molto semplice: facciamo muovere le
informazioni e le carte al posto dei cittadini. In tutte queste esperienze si è cercato in vario modo di suggerire
concretezza agli obiettivi proposti dal Documento programmatico. I risultati
confermano in pieno ciò che all’inizio si era pensato: è possibile, se lo si
vuol fare, mettere insieme, senza modificare le attuali competenze di ciascuno,
le varie Amministrazioni che intervengono sulla vita degli immigrati e che
“fanno” di fatto il loro inserimento; è possibile integrare i singoli
procedimenti amministrativi, facilitando la vita agli Uffici e agli utenti
stranieri; è possibile offrire punti di contatto, tra pubblica amministrazione
e immigrati, più accessibili, più semplici e più efficienti, in modo tale che
sia più semplice e più efficiente la strada che conduce all’inserimento, alla
stabilizzazione, all’integrazione. Ma attenzione tutto questo non può essere
considerato come il punto d’arrivo ma come una soluzione immediata e
transitoria rispetto all’auspicabile
ridefinizione delle procedure ed al conseguente trasferimento delle competenze
amministrative sul soggiorno ai servizi territoriali.
(Ruolo delle legislazioni
regionali.)
Allora, visto che è possibile,
perché non prevedere già ora nelle legislazioni regionali l’istituzione di
questi “Sportelli Unici”, a livello provinciale e di città metropolitane, che:
-
legittimino
il raccordo organizzativo tra più amministrazioni;
-
stabiliscano
procedure amministrative di semplificazione e razionalizzazione;
-
individuino
anche un ruolo delle parti sociali e delle grandi organizzazioni del privato
sociale che, non potendo essere sostitutivo della pubblica amministrazione, ha
bisogno di vedere legittimate e chiarite le possibili forme di collaborazione
che, comunque, si rivelano ogni giorno importanti nel tenere il collegamento
con la popolazione immigrata?
Proviamo solo per un momento a
pensare quanti problemi in meno avrebbero gli stranieri ed i nostri uffici
stessi se vi fossero dei punti, tenuti insieme da una rete di comunicazione
informatica e da procedure amministrative comuni e condivise, nei quali alla
stessa persona il cittadino chiede l’informazione, l’elenco delle cose da fare,
consegna la domanda di servizio, poi riceve l’informazione sullo stato del
procedimento fino all’eventuale consegna di quanto richiesto e tutto questo
senza che i vari singoli funzionari che partecipano al procedimento vedano mai,
o quasi, il cittadino stesso. Aggiungiamo a questo la possibilità di fornire ai
singoli utenti che vogliono, o sono obbligati, ad accedere agli sportelli
integrati una sorta di assistenza e consulenza, fornita materialmente ad
esempio dalle Parti Sociali e dal privato sociale, che aiuti l’immigrato a
sapere chiaramente e precisamente di che cosa ha bisogno, che cosa può chiedere
e come si debba preparare, perché sia pronto ad accedere al servizio senza
ritardi e delusioni. Del mondo sociale va accettata e valorizzata la capacità
di favorire una lettura più attenta dei bisogni degli immigrati, di farsi
carico di un’analisi critica della situazione esistente, di concorrere alla
creazione di strumenti di controllo della funzionalità amministrativa e di
gestire le istanze del precontenzioso e di ricorso, quando le decisioni degli
uffici non rispondono agli standard di tutela sanciti dalla legge. Anche questo
e forse per prima cosa può significare non discriminare e non emarginare.
E nel frattempo possiamo anche
pensare, come peraltro previsto dall’attuale legislazione, a che cosa
modificare per arrivare a semplificare e suddividere meglio e più razionalmente
le competenze delle varie Amministrazioni.
(La risorsa Associazionismo e
Volontariato.)
E proprio parlando di legislazione
attuale mi piace toccare un ultimo punto che è stato citato in varie forme in
tutte le relazioni di oggi e che riguarda il coinvolgimento con le
associazioni, il volontariato, il privato sociale. Sappiamo che il loro ruolo è
importante e necessario per instaurare e mantenere un rapporto corretto e
positivo con le varie comunità straniere e proprio per questo, al di là della
collaborazione di carattere istituzionale, credo che sia opportuno dare un
orientamento a questo coinvolgimento. Credo cioè che sia arrivato il momento di
applicare formalmente, nelle normative regionali e locali, quanto dispongono il
Testo Unico e il Regolamento, che riservano agli organismi che svolgono
attività a favore degli stranieri immigrati, iscritti al registro tenuto dal
Ministero degli AA. SS., la possibilità di accedere ai fondi previsti dal Testo
Unico. In particolare il Regolamento è molto chiaro: “l’iscrizione al registro
di cui al comma 1, lettera a, è condizione necessaria per accedere direttamente
o attraverso convenzioni con gli enti locali o con le amministrazioni statali,
al contributo del Fondo nazionale per l’integrazione”.
Obbligo di legge a parte, ritengo
infatti che questo sia un modo per attribuire ai soggetti che ogni giorno
collaborano con noi un ruolo certo ed economicamente sostenibile nel sostegno
ai processi di integrazione degli immigrati.
(Conclusioni.)
Concludo: oggi siamo partiti dalle
posizioni già apprezzabili del Testo Unico e del Documento di programmazione e
ne abbiamo esaminato alcune applicazioni particolarmente discriminanti nei
servizi; da domani occorre, ai vari livelli nazionale, regionale e locale,
prendere atto formalmente di quello che sul campo e nei fatti le varie Italie
hanno prodotto. Questo non solo ci permette di rimanere nello spirito della
legge ma ci permette un passo in avanti nel definire e realizzare il modello
italiano di integrazione, perché dal pensare in termini di accostamento
multiculturale si passa a pensare in termini di interazione culturale,
dall’inserimento nell’istruzione scolastica si procede verso l’educazione
all’interculturalità, all’intervento sul disagio e l’indigenza si aggiunge il
sostegno alla normalità, dalla tutela dei bisogni si passa al diritto di
ottenere i servizi come tutti i cittadini. Questo significa trattare gli
stranieri immigrati come cittadini veri e non come peso, per quanto utile, da
sopportare.