Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati
SECONDO RAPPORTO SULL'INTEGRAZIONE DEGLI
IMMIGRATI IN ITALIA
APPROFONDIMENTI
DISCRIMINAZIONE E
RAZZISMO
Introduzione
Nel
capitolo sulla discriminazione del Rapporto 1999, è stata
evidenziata la difficoltà di comporre un quadro ragionevolmente esteso degli
atti e delle pratiche discriminatorie a causa della mancanza di un rilevamento
sistematico e con criteri condivisi del fenomeno sul territorio nazionale.
Dobbiamo dire fin da subito che questa situazione non è mutata sostanzialmente
sebbene sono state realizzate alcune esperienze progettuali in aree
circoscritte. Allo stesso modo, pur registrando dei miglioramenti nella conoscenza
e applicazione a vari livelli delle norme antidiscriminazione contenute nel T.
U. delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla
condizione dello straniero - artt. 43 e 44 del d.lgs. 286/98 -, si deve
osservare ancora che le norme in oggetto sono lungi dal dispiegare tutta la
loro potenzialità nella prevenzione e contrasto del fenomeno. Daremo conto di
seguito, in modo breve, delle prime esperienze note di applicazione delle norme
anti-discriminazione o di casi in cui si ritiene potessero essere applicati.
1. Accesso ai servizi: la casa
Il
reperimento di un alloggio e di un lavoro continua ad essere ai primi posti fra
i problemi che molte persone immigrate incontrano nel processo d’integrazione
e, in questi due settori, sono stati registrati gravi atti discriminatori.
Proprio in fatto di ricerca di un alloggio si è registrato nel corso dell’anno
uno dei primi casi di applicazione delle norme anti-discriminazione di cui
diamo conto sotto. Le discriminazioni nel settore non sono limitate al solo
mercato privato dell’affitto ma anche nell’accesso alle case popolari gestite
dall’Iacp. Casi come quello che di seguito presentiamo rivestono un’importanza
particolare in quanto si presentano come vere e proprie «discriminazioni
istituzionali» sia per il carattere pubblico dell’ente e del servizio coinvolti
sia perché si basano formalmente sull’applicazione di «norme generali che sono
uguali per tutti».
Il caso
in questione si riferisce ad un bando per la costituzione di una «graduatoria
generale degli aspiranti all’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale
pubblica nel Comune di Pordenone» (bando n. 32/1999). emanato il 26 febbraio
1999, i cui risultati sono stati pubblicati il 22 febbraio 2000. Dalla
graduatoria sono stati esclusi gli immigrati che non sono riusciti a presentare
parte della documentazione che dovevano farsi rilasciare dalle autorità dei
paesi d’origine, tradotta e autenticata dalle rappresentanze consolari e
diplomatiche italiane nei propri paesi, attestante eventuali redditi percepiti
all’estero e la proprietà o nuda proprietà o l’usufrutto su case situate
all’estero.
La legge regionale in materia di edilizia residenziale pubblica prevede che accedere alle case popolari occorre (L.R. n. 75/1982, art. 24 lett. c) «non essere proprietari, o nudi proprietari, di altra abitazione, ovunque ubicata, adeguata alle necessità del proprio nucleo familiare, intendendosi adeguato l’alloggio composto da un numero di vani catastali pari a quello dei componenti il nucleo familiare, maggiorati di 2, con un minimo di 4 vani. In caso di proprietà o comproprietà di più alloggi, si sommano i vani di proprietà o i vani teoricamente corrispondenti alla quota di comproprietà di ogni singolo alloggio. Viene inoltre considerato inadeguato l’alloggio dichiarato inabitabile con apposito provvedimento del Sindaco per motivazioni di natura statica o igienico-sanitaria, ovvero dichiarato non conforme alla normativa sul superamento delle barriere architettoniche, quando il richiedente il contributo o altra persona con lui convivente sia portatore di un handicap motorio». Inoltre prevede per i cittadini extracomunitari altri requisiti quali: il possesso di un permesso di soggiorno in corso di validità e l’essere residenti in regione da almeno cinque anni.
A
verifica del requisito soggettivo previsto dalla legge regionale sopra
riportata, la Commissione comunale incaricata di tale verifica ha stabilito che
i cittadini extracomunitari partecipanti al bando (107 su 712 nella città di
Pordenone) dovevano presentare «un’autocertificazione (1),
accompagnata da un’ attestazione dell’autorità consolare competente dalla quale
risulti motivatamente che la suddetta autocertificazione non è mendace,
attestante gli eventuali redditi percepiti nel 1997, fuori del territorio
italiano, da tutti i componenti del proprio nucleo familiare per il quale è
richiesto l’alloggio». Inoltre si afferma che nella tale «autocertificazione
dovrà risultare che nessuno dei componenti il proprio nucleo familiare sia
titolare del diritto di proprietà, di nuda proprietà o di usufrutto su di un
alloggio o porzione di fabbricato ovunque ubicati (quindi oltre che nel proprio
paese d’origine anche in qualunque altro stato estero). Nel caso in cui tali diritti
su abitazioni esistono, nell’autocertificazione dovranno essere dichiarate, e
adeguatamente documentate, l’ubicazione di tale immobile, la quota di
proprietà, le dimensioni e la destinazione dei singoli vani, allegando
planimetria dell’immobile con le misure di ogni stanza». Nel caso che tutta
questa documentazione sia in lingua diversa dalla lingua italiana, il tutto
doveva essere tradotto e «certificato conforme al testo straniero dalla
competente rappresentanza diplomatica o consolare, ovvero da un traduttore
ufficiale».
L’esclusione
dalla graduatoria dei partecipanti extracomunitari per «carenza di
documentazione essenziale, deriva dall’interpretazione letterale operata dalla
Commissione di Pordenone dell’espressione «ovunque ubicata», estesa non solo al
paese d’origine ma anche in qualunque altro stato estero e dalle
caratteristiche (autorità competente ed elementi costitutivi) della
documentazione comprovante la condizione richiesta. Ai cittadini italiani la
Commissione ha chiesto di presentare un’apposita autocertificazione o
dichiarazione sostitutiva, mentre per i cittadini extracomunitari ha ritenuto
di applicare per analogia, pare per evitare una possibile
discriminazione «alla rovescia» a danno degli italiani, quanto previsto dalla
sentenza della Corte Costituzionale n. 217/90 in materia di accesso al gratuito
patrocinio per un imputato straniero. Tale sentenza stabilì che per accedere al
patrocinio gratuito, l’imputato straniero non doveva semplicemente procedere
all’autocertificazione dei propri redditi nel paese d’origine presso la propria
autorità consolare in Italia, ma che quest’ultima doveva, in modo motivato,
dichiarare la veridicità delle condizioni di bisogno dichiarato
dall’interessato, esplicitando gli accertamenti fatti in tale senso [Citti
2000].
Occorre
evidenziare a questo punto che sia il bando sia la lettera di richiesta di
integrazione della documentazione inviata ai cittadini extracomunitari
partecipanti al bando erano entrambi precedenti all’entrata in vigore del
regolamento di attuazione del T.U. sulla condizione dello straniero (Dpr. 31
agosto 1999, n. 394) che esclude la possibilità dell’autocertificazione
consolare per i cittadini stranieri per fatti, stati, e qualità personali
diversi da quelli certificabili da autorità italiane e rinvia a certificati o
attestazioni rilasciati dalla competente autorità dello Stato estero,
debitamente tradotti ed autenticati dall’autorità consolare italiana che ne
attesta la conformità all’originale (Dpr. 394/99, art. 2 comma 2). Quando l’Ater
di Pordenone indisse il bando, l’autocertificazione per i cittadini stranieri
era unicamente regolata da un decreto del ministero di Grazia e Giustizia
(D.lgs n. 431/95, art. 5) la quale prevedeva la possibilità per i
cittadini extracomunitari residenti in Italia di certificare fatti, stati, e
qualità personali non certificabili da autorità italiane mediante dichiarazioni
fatte presso le autorità consolari dei paesi d’origine in Italia, con
successiva facoltà delle autorità italiane di effettuare controlli sulla
veridicità delle dichiarazioni rese, ricorrendo alle competenti autorità
consolari italiane all’estero [Citti op. cit].
Il caso
dell’Ater di Pordenone è interessante per diversi motivi: il primo è che a
fronte di una formale «parità di opportunità» (la possibilità di partecipare al
bando) fra cittadini italiani ed extracomunitari, si è scelto una procedura
differenziata per entrambi, non espressamente prevista dalla legge (almeno non
allora) e che ha portato all’esclusione dalla graduatoria in base alla
nazionalità dei concorrenti extracomunitari. L’interpretazione estensiva della
locuzione «ovunque ubicata» suscita seri dubbi in quanto così facendo la
stessa viene estrapolata dal contesto dell’intero comma, il quale, fa
riferimento all’eventuale dichiarazione di inabitabilità fatta dal Sindaco o
non conformità con le norme sul superamento delle barriere architettoniche. E’
evidente che il sindaco di Lima o di Dakar non potrà emettere un provvedimento
di inabitabilità o di non conformità ai sensi delle leggi italiane. Questi
ultimi riferimenti fanno ritenere che l’espressione «ovunque ubicata» vada
limitata ai soli immobili situati nel territorio italiano. Alla luce del
principio di parità di trattamento degli immigrati regolarmente soggiornanti
rispetto agli italiani e del divieto di discriminazione previsti dal T.U. sulla
condizione dello straniero, l’esclusione dalla graduatoria degli
extracomunitari fa prefigurare un atto discriminatorio indiretto ed
illegittimo, del tipo di quelli che la legge citata vieta.
Un
secondo motivo è dato dal fatto che la richiesta di allegare la planimetria
dell’immobile eventualmente posseduto dall’immigrato all’estero, nel presumere
un’omogeneità (o quantomeno forte similarità) fra la struttura e
l’organizzazione amministrativa italiana rispetto a quelle di tutti i paesi di
provenienza degli immigrati coinvolti, esclude già in partenza coloro che non
potranno presentare tale documentazione proprio per la diversità, a volte
radicale, della struttura ed organizzazione amministrative. L’imposizione di
una condizione che, in partenza, non può essere soddisfatta non per una
caratteristica del soggetto ma per la sua «appartenenza ad una data nazione» e
la cui rilevanza come requisito è fortemente dubbia, costituisce, stando alle
norme anti-discriminazione del D.lgs 286/98, una discriminazione indiretta.
Analogo ragionamento vale per quanto riguarda soggetti titolari di permessi di
soggiorno per rifugio politico o umanitario, i quali non potrebbero per ovvi
motivi tornare nei paesi d’origine per produrre la documentazione richiesta.
Inoltre,
anche la richiesta di comprovare eventuale redditi percepiti all’estero in
aggiunta alla dichiarazione dei redditi effettuata in Italia appare
ingiustificata alla luce del fatto che, ai fini dell’assolvimento degli
obblighi fiscali in Italia, la cittadinanza non ha rilevanza essendo la
«residenza fiscale» il requisito decisivo. Qualunque soggetto che risulta avere
la propria residenza fiscale in Italia - italiano o straniero che sia - è tenuto a pagare le tasse su tutti i
redditi che ha prodotto ovunque nel mondo, compresi quelli relativi a locazioni
di eventuali immobili situati all’estero [Citti op.cit]. Pertanto, la richiesta
di ulteriore documentazione sui redditi maturati all’estero appare come una
condizione aggiuntiva imposta agli stranieri extracomunitari.
Infine,
la richiesta della legge regionale (L.R. n. 75/1982, art. 24, lett. b) riguardo
all’essere residenti in regione da almeno cinque anni quale condizione
necessaria per poter concorrere all’assegnazione dell’abitazione, appare di per
sé discriminatorio ed in contrasto con quanto previsto dal T.U. per cui lo
straniero regolarmente soggiornante gode dei diritti in materia civile
attribuiti al cittadino italiano (D.lgs. 286/98, art. 2 comma 2). Quanto visto
fin qui conferma che affinché si realizzi il principio di parità di trattamento
ed il divieto di discriminazione, occorre che a vari livelli, si rivedano
leggi, circolari, regolamenti, prassi consolidate oltre a certe consuetudini
amministrative e/o professionali.
2. Il mercato privato della casa
La Commissione ha registrato per l’anno passato che tra il 60 e l’80% delle persone immigrate ha trovato un alloggio ricorrendo al mercato degli affitti [Zincone 1999]. Tuttavia molti immigrati incontrano ancora molte difficoltà nell’accesso alle case attraverso il mercato privato degli affitti. In un’indagine condotta a Verona monitorando per un anno le offerte di case in affitto pubblicate sui giornali locali, sono stati rilevati 96 annunci che riportavano in modo esplicito la dicitura «no extracomunitari» [CESTIM, MLAL 2000]. La pubblicazione di tale esplicita esclusione è cessata dopo che il settimanale è stato avvisato mediante lettera che tali annunci costituivano delle violazioni delle norme contro la discriminazione contenute nella legge sull’immigrazione; il direttore del settimanale si è impegnato a non pubblicarli più e fino alla fine di ottobre, non ne erano stati pubblicati altri del genere. La cessazione di questi annunci nulla ci dice sulle pratiche effettive presso le agenzie immobiliari e sul comportamento reale dei proprietari.
Rilevamenti
effettuati in diverse città del Centro-Nord hanno evidenziato che molte agenzie
immobiliari dichiarano di non poter affittare le case agli immigrati
extracomunitari per il volere degli stessi proprietari di immobili i quali,
spesso, comunicano all’agenzia tale volontà al momento della messa a
disposizione dell’appartamento per una locazione. Anche nell’ipotesi che queste
dichiarazioni siano vere, è del tutto evidente che i titolari delle agenzie
immobiliari o le persone da loro incaricate rimangono responsabili di fronte
alle legge delle discriminazioni compiute rifiutando di affittare delle case a
delle persone a causa della loro vera o presunta appartenenza nazionale.
3. Accesso ai servizi: banche ed altri servizi finanziari
Fra gli aspetti
dell’integrazione delle persone immigrate poco indagati c’è certamente quello
dell’accesso ai servizi bancari, finanziari ed assicurativi. La stabilizzazione
dell’immigrazione in Italia comporta, tra le altre cose, l’aumento della
domanda di servizi come quelli bancari. Gli immigrati sono interessati non solo
ai servizi definibili ordinari (aperture di conti correnti, libretti di risparmio,
prestiti per l’impresa o per l’acquisto della casa eccetera) ma anche ai
trasferimenti di denaro nei paesi d’origine. In base alle stime della Caritas
di Roma e dell’ufficio italiano dell’Oil (Organizzazione internazionale del
lavoro), anche per il 1999 le rimesse degli immigrati dall’Italia ha superato,
così come per l’anno precedente, quelle in entrate dagli italiani emigrati (988
miliardi di lire contro 619). Le potenziali di questo aspetto particolare sono
testimoniate dal grande interesse e dall’attivismo di alcune agenzie
specializzate nel trasferimento di somme di denaro anche piccole.
Una
recente indagine realizzata in Italia ed in altri quattro paesi dell’Ue
(Belgio, Finlandia, Inghilterra e Spagna) ha cercato di individuare le entità e
la qualità delle interazioni tra le popolazioni immigrate ed il sistema
bancario nei singoli paesi [Lunaria 2000]. In Italia tale lavoro ha coinvolto
alcune banche nelle città di Bologna, Milano, Napoli Padova, Perugia, Prato e
Roma ed ha cercato di focalizzare alcuni obiettivi: verificare l’esistenza o
meno di barriere all’accesso ai servizi bancari da parte degli immigrati;
compilare un inventario dettagliato delle procedure richieste agli immigrati
per accedere a diversi servizi bancari, rilevando eventuali differenziazioni di
tali procedure per i cittadini italiani e gli stranieri immigrati; raccogliere
informazioni su esperienze concrete di discriminazione vissute dagli immigrati
nel rapporto con il sistema bancario; infine raccogliere informazioni sui
servizi mirati, compresi eventuali agevolazioni, diretti ai clienti immigrati
ed altri esempi di buone pratiche realizzate nel settore.
Da
questa ricerca emerge, tra l’altro, che gli istituti bancari non considerano la
popolazione immigrata in Italia un segmento di clientela interessante per
motivi sia di ordine economico sia di tipo culturale. I motivi economici
riguardano la precarietà del lavoro che caratterizza buona parte degli
immigrati nonostante la crescita del numero di quelli regolarmente inseriti nel
mercato del lavoro e il fatto di essere piccoli clienti con transazioni che
presentano alti costi di gestione e bassa redditività. Appare chiaro allora che
la scelta di predisporre servizi mirati a questa specifica clientela non viene
fatta soltanto per ragioni di convenienza economica ma anche per ragioni
sociali. Come fattore culturale alla base della scarsa considerazione, viene
indicata la rappresentazione negativa che i media fanno del fenomeno e che ha
contribuito a creare nell’immaginario collettivo un’immagine negativa delle
persone immigrate. Molti esperti del settore interpellati concordano nel
ritenere che la popolazione immigrata acquisirà maggior interesse per le banche
in futuro sia per le potenzialità di sviluppo delle piccole attività imprenditoriali
proprie di alcuni gruppi nazionali, sia per l’importanza crescente delle
rimesse, e più in generale per le potenzialità che sono proprie di un fenomeno
economico-sociale in crescita.
Sul
piano normativo non ci sono impedimenti all’accesso degli immigrati ai servizi
bancari. I rapporti tra le banche ed i clienti, immigrati compresi, sono
regolati dalle norme sulla trasparenza bancaria contenute nel Testo Unico in
materia bancaria e creditizia del 1994 (TUB) che dettano alcune regole miranti
a tutelare la clientela. Le regole di tutela e trasparenza riguardano l’obbligo
di esporre nei locali aperti al pubblico le informazioni sui tassi di
interesse, le spese per le comunicazioni alla clientela ed ogni altra
condizione economica relativa alle operazioni e ai servizi forniti, compresi
gli interessi di mora e le valute applicate per il calcolo degli interessi. Il
TUB impone inoltre, a tutela del cliente, la forma scritta dei contratti in
parola pena la nullità del contratto: una copia del contratto deve essere
consegnata al cliente. Le variazioni delle condizioni contrattuali devono
inoltre essere comunicate al cliente pena la nullità delle stesse.
Dall’indagine,
è risultato che tra le banche consultate solo una ha predisposto un modello del
contratto per alcuni servizi più richiesti anche in lingua inglese mentre
pochissime hanno tradotto alcune informazioni in lingue straniere (inglese,
francese, tedesco, arabo, cinese e portoghese). In qualche caso le banche si
sono limitate ad offrire al proprio personale dei corsi di inglese e francese
nelle agenzie con una certa utenza immigrata. Se da questo quadro emerge una
luce sulle possibili iniziative da adottare e da perfezionare nell’immediato in
futuro per migliorare la qualità dei servizi offerti agli immigrati, è
altrettanto chiaro che al momento e sul piano dell’informazione verso il
clienti, l’utenza immigrata si trova in condizione di svantaggio (o quanto meno
di trattamento di minor favore), in particolare quella parte che non conosce
perfettamente l’italiano.
I
servizi bancari più richiesti dall’utenza immigrata sono: il libretto di
risparmio, il conto corrente con annessi (libretto degli assegni, carta
bancomat, carta di credito), cambio di valuta, rimesse di soldi all’estero,
prestiti e mutui per l’acquisto della casa. Gli istituti bancari sono liberi di
decidere se offrire o meno l’accesso a un dato servizio, così come nel
definirne le modalità nel quadro delle norme nazionali di riferimento.
L’anagrafe bancaria non distingue tra italiani e stranieri ma solo tra
residenti e non; ciò rende difficile avere dati disaggregati per nazionalità, è
pure vero che la banca fin dal momento della richiesta del servizio la banca
accerta l’identità del richiedente compresa ovviamente la nazionalità in base
alla quale differenzia la richiesta di documenti da presentare. Le uniche
banche, fra le interpellate, che hanno fornito dati specifici sono quelle che
hanno predisposto servizi mirati ed agevolati per l’utenza immigrata. (2) Tuttavia alcuni dei dirigenti interpellati
hanno esplicitamente riconosciuto l’esistenza di disparità di trattamento tra
cittadini italiani e immigrati nell’accesso ad alcuni servizi.
I
documenti richiesti per aprire un libretto di deposito o un conto corrente
variano da banca a banca. Il primo (il libretto di risparmio) è un servizio che
non comporta alcun rischio per la banca in quanto è facilmente e costantemente
sotto controllo mentre il secondo (il conto corrente bancario) comporta qualche
rischio in più per la possibilità che il cliente vada in rosso e questa
possibilità determina una differenziazione delle condizioni di fruizione dei
due tipi di servizio per qualunque cliente. Per aprire il libretto di
risparmio, viene richiesto da tutte le banche solo il documento di identità ai
clienti italiani, mentre agli stranieri immigrati alcune banche richiedono in
aggiunta uno o più dei seguenti: la busta paga, il certificato di residenza, il
codice fiscale ed il permesso di soggiorno. Appare difficile capire il perché
una banca, per l’accesso di una persona immigrata ad un servizio che non
comporta alcun rischio non ritiene sufficiente richiedere semplicemente il
documento d’identità come fa con i cittadini italiani. Per l’apertura di un
conto corrente bancario ad un immigrato, oltre ai documenti supplementari già
visti, alcune banche ne aggiungono altri e precisamente, la garanzia di un
altro cliente immigrato o italiano noto alla banca, la dichiarazione del
reddito e un versamento iniziale. E sembra che a volte queste condizioni
aggiuntive non bastino: in qualche caso, prima di aprire il conto corrente, la
banca chiede al datore di lavoro la conferma che l’aspirante cliente è suo
dipendente o collaboratore. E evidente che questo tipo di pratica rafforza
ulteriormente il potere del datore di lavoro sul lavoratore immigrato, rendendo
più difficile per quest’ultimo azioni di rivalsa in caso di controversie sulla
condizioni di lavoro.
Una
volta avuto accesso al conto corrente, l’accesso ai servizi di bancomat e carta
di credito non conseguono automaticamente a richiesta per tutte le banche ed
alle stesse condizioni richieste ai cittadini italiani. Quasi tutti gli
istituti bancari interpellati concedono la carta bancomat solo dopo un congruo
periodo di tempo al fine di verificare l’affidabilità del cliente, allo stesso
modo condizionano l’accesso a questo servizio al versamento automatico dello
stipendio sul conto corrente. Ciò significa che gli immigrati regolarmente
presenti in Italia che hanno una precarietà lavorativa, che lavorano in proprio
o che lavorano al nero non possono di fatto accedere a questi servizi. Ai
cittadini italiani la carta bancomat viene di solito data dopo qualche
settimana, raramente è necessario attendere per mesi, fatta eccezione per
esigenze tecniche di approntamento dello strumento.
Maggiori
difficoltà si presentano per l’ottenimento della carta di credito. Qualche
banca non la concede affatto, altre chiedono una fideiussione e altre ancora
chiedono un garante, l’anzianità del rapporto di lavoro oltre al versamento
automatico dello stipendio sul conto corrente. La preoccupazione maggiore delle
banche sembra essere quella della solvibilità del cliente. Le banche non sono
state in grado di fornire dati sul tasso di insolvenza dei loro clienti
immigrati. Solo le due banche che hanno predisposto servizi specifici per
l’utenza immigrata hanno registrato, in un caso, un’insolvenza del 3,125% in
tre anni e ritenuta nei limiti di quella dei correntisti italiani e,
nell’altro, un’insolvenza del 5% che, sebbene preoccupi i direttori delle
agenzie, non ha portato alla cessazione del servizio specifico ma solo al
rafforzamento degli strumenti di controllo. (3)
In generale, molti dirigenti bancari riconoscono che le verifiche che vengono
svolte dagli operatori prima di concedere ad un immigrato l’accesso a questi
servizi sono più accurate rispetto a quelle che vengono svolte nei confronti
dei cittadini italiani.
L’accesso
al credito è quello che presenta maggiori difficoltà per gli immigrati. La
concessione di un prestito costituisce per la banca un operazione ad alto
rischio che comporta la richiesta di garanzie particolari. Ciò vale
sicuramente anche per i cittadini italiani: un cittadino italiano che non può
provare di avere un reddito fisso e quindi che non è lavoratore dipendente,
ottiene con molte difficoltà un prestito. Nel caso delle persone immigrate, le
banche usano una prudenza ancora maggiore nel concedere prestiti. Dai dati
della ricerca sembrano non essere molti gli immigrati che hanno richiesto
questo servizio; alcune direzioni generali hanno dichiarato di aver concesso
prestiti ad alcuni clienti immigrati. Le garanzie richieste sono: la
dichiarazione dei redditi, il versamento su conto dello stipendio e, in alcuni
casi, garanzie personali o patrimoniali. Emergono anche prove a sostegno del
fatto che laddove la banca adotta una strategia per facilitare l’accesso al
servizio mirata all’utenza immigrata, la domanda cresce. Una delle due banche
del campione che hanno predisposto servizi agevolati ha concesso prestiti ad
una quota pari al 21,5% dei propri clienti immigrati. Questa banca, nell’ambito
dell’offerta specifica ed agevolata all’utenza immigrata, prevede l’erogazione
di prestiti per far fronte a problemi familiari, per l’acquisto dei libri
scolastici e per l’avvio di un’attività commerciale, con un meccanismo di
rimborso mensile in tutti e tre i casi. (4)
L‘iniziativa di questa banca gode di un fondo di garanzia a copertura di
eventuali crediti non soluti. La procedura di accesso al credito è lunga e
complessa soprattutto per quanto riguarda l’erogazione di finanziamenti a
sostegno dell’impresa e mira a valutare a fondo la validità e la sostenibilità
economica del progetto d’impresa. Secondo i responsabili di questo pacchetto
presso la banca, sino alla metà di quest’anno non si erano riscontrati casi di
insolvenza fra coloro che hanno ottenuto un finanziamento a sostegno della
propria impresa.
L’invio
dei propri risparmi ai familiari nel paesi d’origine è uno dei servizi che
parte dell’utenza immigrata chiede alle banche le quali, formalmente lo offrono
a tutti ma in via preferenziale, lo riservano ai clienti. Il costo di questo
tipo di servizio non solo varia fra banche ma varia anche la quota fissa richiesta,
alla quale alcune aggiungono una commissione proporzionale all’importo inviato
in una percentuale che oscilla tra lo 0,5 e il 2%. Non si registrano
differenziazioni del costo in base alla nazionalità tranne che nel caso delle
due banche più volte menzionate che hanno predisposto delle offerte agevolate
applicando un costo fisso decisamente inferiore rispetto alla forbice minima e
massima registrata per le altre banche. (5)
In
generale, gli immigrati sembrano preferire, allo stato attuale, l’utilizzo di
altri canali diversi dalle banche per le rimesse a favore dei familiari
(agenzie specializzate, viaggi propri, di amici o conoscenti); questa
preferenza è dovuta solo in parte al costo dell’operazione tramite banca, ma
soprattutto alla lentezza e alle complicazioni organizzative per i destinatari.
Per queste ragioni, rapidità e relativa facilità di fruizione, si è affermata
in pochi anni anche in Italia la Western Union, un’agenzia specializzata
i cui servizi sono gestiti da un’organizzazione finanziaria non bancaria la
Finint, che ha visto passare le proprie commissioni attive dai 4 miliardi di
lire nel 1996 ai 19 miliardi del 1998.
L’accesso
al servizio di cambio valuta non presenta particolari problemi anche se alcune
banche tra quelle intervistate hanno dichiarato di richiedere, oltre al
documento di identità normalmente ritenuto sufficiente per svolgere questa
operazione, anche il permesso di soggiorno e il codice fiscale.
Abbiamo
fin qui visto alcune delle zone d’ombra nei rapporti tra il sistema bancario
italiano ed i migranti qui residenti. Tali ombre non si riferiscono ad una
formale esclusione dall’accesso a determinati servizi ma si sostanziano in
disparità di trattamento realizzate attraverso l’adozione di criteri o regolamenti
che hanno l’effetto di limitare la fruizione di detti servizi da parte
dell’utenza immigrata. Negare l’accesso a un servizio come l’apertura di un
conto corrente a chi non può dimostrare di avere un lavoro dipendente può
sembrare, a prima vista, ragionevole dato il rischio connesso a tale servizio
per la banca; ma fare lo stesso nel caso del libretto di risparmio appare
un’operazione gratuitamente discriminatoria. Ma anche nel primo caso è
sufficiente pensare al numero elevato di immigrati titolari di permessi di
soggiorno per lavoro autonomo e alla quota, fra questi, di effettivi lavoratori
autonomi (titolari di piccole imprese di servizi, artigiani, esercenti libere
professioni ecc.) per rendersi conto di quanto la ragionevolezza della
richiesta delle banche sia più apparente che reale, se si accetta il principio
di parità di trattamento dei singoli indipendentemente dalla loro nazionalità.
In un periodo di crescente flessibilità e precarizzazione del lavoro,
l’adozione di criteri come quelli sopra descritti rischia di escludere senza
uscita molti lavoratori immigrati dalla fruizione di alcuni fra i più basilari
servizi bancari.
Accanto
a queste situazioni di svantaggio, emergono anche aspetti positivi. La ricerca
qui considerata non ha effettuato un inventano delle buone pratiche di tutto il
sistema bancario italiano rivolte all’utenza immigrata ma si è limitata a
registrare quelle messe in atto dalle banche coinvolte nella ricerca. Abbiamo
visto in precedenza che alcune banche hanno elaborato materiali informativo non
solo in lingue europee come l’inglese, il francese o il portoghese ma anche in
arabo e cinese. L’accessibilità delle informazioni contribuirà a favorire un
maggior utilizzo dei servizi bancari da parte degli immigrati.
Ancora
più importante sembra l’offerta di un pacchetto di servizi agevolati rivolti a
clienti immigrati. La gamma delle agevolazioni comprendono alcune delle
seguenti misure: l’apertura di un libretto di risparmio e/o di un conto
corrente con una bassa spesa fissa annua; la possibilità di rimesse all’estero
ad una spesa bassa e fissa; la possibilità di avere piccoli prestiti per
far fronte a spese familiari, sanitarie, scolastiche o per la casa;
finanziamenti a sostegno dell’attività commerciale; conti correnti agevolati per
associazioni che rappresentano o svolgono servizi a favore degli immigrati;
l’emissione della carta bancomat (6)
polizza assicurativa che garantisce una certa diaria giornaliera in caso
di ricovero per infortunio e un contributo spese per il rimpatrio della salma
nel paese di origine in caso di morte.
Di
altrettanto interesse sono le misure adottate per favorire le rimesse ai paesi
d’origine. Alcune banche hanno realizzato accordi con istituti bancari di
alcuni paesi di origine degli immigrati (Sri Lanka, Marocco, Tunisia,
Filippine, Perù, Senegal) per facilitare l’invio di rimesse anche a quei
familiari che non hanno un conto corrente dove ricevere direttamente gli invii
dall’Italia. Altre hanno stretto già o stanno negoziando accordi con Finint per
distribuire i servizi Western Union presso i propri sportelli in modo che il
cliente immigrato potrà scegliere di effettuare la propria rimessa attraverso
il bonifico bancario, che costa in media di meno ma è più lento, o se utilizzare
il servizio Western Union presente nella sua banca, che costa molto di più ma
consegna quanto inviato nel giro di poche ore. Infine, risulta che una banca ha
stipulato un accordo con il Centro Islamico Italiano che prevede conti correnti
agevolati per gli immigrati di religione musulmana. Gli interessi maturati su
tali conti verrebbero devoluti al Centro Islamico poiché questa religione non
ammetterebbe che siano corrisposti interessi ai titolare dei conti.
4. Accesso ai servizi assicurativi
Gli
immigrati si avvalgono dei servizi assicurativi almeno per la responsabilità
civile per l’uso dell’automobile. Segnaliamo in questa sezione una circolare (7) dell’Istituto per la vigilanza
sulle assicurazioni private e di interesse collettivo uscita quest’anno e che
non solo segnala alcune discriminazioni nei confronti degli stranieri
extracomunitari ma precisa ulteriormente la nuova situazione determinata dal
D.lgs. 286/98. Dalla circolare, ma anche da una sentenza della Corte di Appello
di Milano (sentenza del 12.5.1999), (8)
emerge che in casi di richiesta di risarcimento danni da parte di cittadini
stranieri per incidenti stradali le compagnie d’assicurazione frequentemente
richiamano il principio della reciprocità per la determinazione di quanto
liquidare allo straniero. In sostanza succede che le assicurazioni in molti
casi come quello ricordato sopra, propongono dei risarcimenti inadeguati nei
confronti degli stranieri regolarmente soggiornanti, riconoscendo al
danneggiato quanto verrebbe riconosciuto ad un cittadino italiano per un fatto
analogo nel paese d’origine delle straniero.
La
circolare ricorda che la legge di «riforma del sistema italiano di diritto
internazionale privato» stabilisce che «la responsabilità per fatto illecito è
regolata dalla legge dello stato in cui si è verificato il fatto», per cui ogni
sinistro che si verifichi in territorio nazionale è soggetto all’applicazione
delle legge italiana in materia. Precisa inoltre che, anche nell’ipotesi che la
reciprocità possa essere correttamente invocata in materia di assicurazione,
tale principio comporta solo che il paese d’origine dello straniero riconosca
al cittadino italiano, senza discriminazioni, i diritti civili connessi al
risarcimento del danno e all’istituto dell’assicurazione.
Ancora
più interessante è il richiamo della circolare alla legge 40/98 ed al T.U. e al
modo in cui ha modificato lo stesso istituto della reciprocità. L’attenzione
delle imprese del settore viene richiamata in particolare sull’articolo 2 comma
2 del T.U. che riconosce allo straniero il godimento dei diritti civili
attribuiti al cittadino italiano e l’articolo 1 comma 1 del regolamento di
attuazione che stabilisce che la reciprocità va accertata nei soli casi previsti
dal T.U. o dalle convenzioni internazionali e secondo le modalità previste
dallo stesso T.U..
Prosegue
poi affermando che «appare evidente come il problema del risarcimento dei danni
nei confronti dei cittadini stranieri possa considerarsi superato alla luce
delle vigenti disposizioni in materia». Ritiene inoltre che, sotto il profilo
del rispetto dei principi costituzionali, non sarebbe legittima neppure una
disparità di trattamento a seconda che il cittadino extracomunitario sia
regolarmente o irregolarmente soggiornante in Italia, in quanto l’eventuale
irregolarità del soggiorno si riferisce a profili di polizia che non hanno
alcuna incidenza negativa sul diritto al risarcimento. La valutazione e la quantificazione
del danno biologico deve avvenire con riguardo al luogo dove il soggetto
danneggiato conduce la sua esistenza e svolge la sua attività; in altre parole
occorre far riferimento al paese di effettiva residenza del soggetto ed è
ragionevole tenere conto di questo nel caso che il soggetto sia regolarmente o
irregolarmente in Italia.
Conclude
invitando le imprese del settore ad attenersi alle indicazioni contenute nella
circolare, evitando che da un richiamo improprio del principio di reciprocità
derivino discriminazioni a danno degli stranieri extracomunitari e ricordando
che quanto affermato vale come principio generale per cui deve trovare
applicazione non solo nel settore della responsabilità civile auto ma in tutto
il settore della responsabilità civile tutte le volte che il danneggiato è un
cittadino extracomunitario.
La
circolare appena illustrata evidenzia la necessità che enti ed istituzioni
adeguino i propri regolamenti interni alla norma sulla condizione dello
straniero; nel caso delle imprese di assicurazione, è stato sufficiente richiamare
al rispetto dell’equiparazione dello straniero al cittadino italiano in materia
civile per evitare una illegittima discriminazione che si basava su
un’incertezza interpretativa.
Sempre
nel settore assicurativo, ci è stata segnalata da alcuni immigrati la buona
pratica di alcune imprese; al fine di fornire la garanzia di cui all’articolo
23 comma i del T.U. D.lgs. 286/98 per l’ingresso per ricerca di lavoro, alcune
assicurazioni hanno istituito un’apposita polizza a basso costo che copre la
fideiussione nella misura richiesta dal regolamento attuativo e le circolari
applicative. Si tratta di un atto di fiducia in grado di permettere ad un
numero ragionevole di persone immigrate di attivare una filiera migratoria
parentale e/o amicale che costituisce una buona base di partenza per
l’integrazione nella società.
5. Accesso ai servizi sportivi
Nel
corso dell’anno è emersa più volte la conferma che lo sport sia investito, in
quanto fenomeno sociale ed al pari di tanti altri, dal problema del razzismo e
della discriminazione, nonostante una diffusa retorica dello sport come
elemento di unione fra i popoli. Lungi dall’unire i popoli, sempre più lo sport
viene usato quale veicolo di un nazionalismo (9)
che non di rado sfocia in vero e proprio razzismo. Così come era avvenuto
in altre parti d’Europa, anche l’opinione pubblica italiana ha dovuto prendere
atto nel corso dell’anno della crescente presenza di gruppi organizzati di
tifosi che prendono lo sport come pretesto per manifestare apertamente il loro
razzismo e la loro xenofobia. Tanto numerosi sono stati gli episodi di questo
genere nella passata stagione sportiva, che il ministro competente è stato più
volte costretto a minacciare l’interruzione delle manifestazioni sportive
durante le quali gruppi organizzati esprimevano apertamente il proprio
razzismo.
Anche
nel mondo dello sport professionistico non sono mancati episodi di razzismo che
hanno conquistato le cronache: in uno dei casi del genere avvenuto tra due
giocatori entrambi stranieri non-Ue, un giocatore nero è stato insultato per il
colore della sua pelle.
Al fine
di valutare lo stato di integrazione degli immigrati anche in questo settore
della vita pubblica, ovvero le opportunità di accesso e di fruizione delle
attività del settore sportivo, ci si riferirà ad alcune delle discipline più
praticate ed ai relativi organismi di governo (federazioni), alle regole
interne, alle procedure e alla prassi in vigore: esamineremo brevemente le
federazioni del calcio (FIGC), della pallavolo (FIPAV), della pallacanestro
(FIP), dell’atletica (FIDAL) e del nuoto (FIN). Queste sono le discipline che
contano il maggior numero di atleti e di pubblico ed intorno alle quali ruotano
anche grossi interessi economici.
L’attività
sportiva presenta una struttura organizzativa ben articolata a livello locale,
nazionale e internazionale. Le federazioni sportive si occupano, attraverso le
proprie sedi regionali, nazionali e internazionali, dell’organizzazione dello
sport agonistico a livello giovanile, dilettantistico e professionistico. Delle
federazioni fanno parte poi le società sportive (dette anche club) che
organizzano e gestiscono le squadre. Federazioni e società sportive stilano i
regolamenti per la pratica delle diverse attività, nel quadro di norme
nazionali ed internazionali.
In
linea generale, e comunemente a tutte, la discriminazione in queste discipline
sportive si presenta in forma indiretta attraverso norme, regolamenti e prassi
nazionali e locali che hanno, al di là dell’intenzione, effetti discriminatori
nei confronti dei cittadini stranieri o di origine straniera regolarmente
soggiornanti in Italia. Alcuni fra coloro che si occupano di sport agonistico a
livello dilettantistico fra i giovani ed alcune famiglie straniere i cui figli
intendono praticare sport agonistico ma non professionistico in Italia,
segnalano l’esistenza di tali discriminazioni. La discriminazione maggiore
sembra infatti riguardare quei giovani stranieri non-Ue residenti in Italia che,
a causa della presenza di quote che limitano il tesseramento degli stranieri
non-Ue, si ritrovano ad essere esclusi dall’attività sportiva.
Nel
calcio il problema riguarda i giovani che hanno compiuto i sedici anni: solo
uno di loro può essere tesserato per ogni squadra. In una grande città come
Torino con circa 150 squadre di calcio, questa regola comporta che solo 150
ragazzi stranieri che hanno compiuto 16 anni potranno giocare a calcio a
livello agonistico ma non professionistico. Una revisione del regolamento della
federazione avvenuta nel 1999 non ha, contrariamente alle aspettative di molti,
modificato tale regola. Anche i giovani naturalizzati non godono di parità di
trattamento con altri cittadini italiani: ad essi è richiesta infatti
un’anzianità di tesseramento con la FIGC di almeno 5 anni per poter
essere in squadre senza limitazione di numero.
Per la
pallavolo la limitazione scatta a tredici anni: nella categoria dilettanti non
ci sono limitazioni al numero di tesserati stranieri, ma solo uno, tesserato
con la FIPAV da almeno due anni, è ammesso in campo. (10)
Nelle squadre giovanili di pallacanestro non sono invece ammessi gli
atleti non comunitari. (11) Per
l’atletica, ogni società può tesserare un massimo di 4 atleti (due maschi e due
femmine per anno. (12) Per il nuoto,
non vi sono limitazioni di numero per gli atleti non comunitari tesserabili, ma
sono richiesti due anni di tesseramento per la partecipazione ad attività di
squadra. (13)
Anche
sul piano delle procedure, appaiono delle disparità di trattamento: agli atleti
dilettanti non comunitari è richiesta la presentazione, oltre del permesso di
soggiorno valido per almeno un anno e del certificato di residenza, anche di
un’attestazione del datore di lavoro o del certificato di iscrizione a scuola.
Nel caso della pallavolo, il tesseramento di cittadini stranieri è esclusiva
competenza della federazione nazionale (invece che dei comitati provinciali) ed
è subordinato alla presentazione, per gli atleti minori di 13 anni, di un
certificato di residenza, uno di iscrizione a scuola e una certificazione del
motivo di trasferimento della famiglia in Italia. Anche nel caso della
pallacanestro e dell’atletica, oltre al permesso di soggiorno sono richiesti
certificati di lavoro o di studio.
Da
quanto visto fin qui, emerge una situazione di disparità di trattamento in base
all’origine nazionale o alla cittadinanza che colpisce in modo particolare i minori
stranieri non comunitari. La gravità di casi come questi può essere meglio
apprezzata se si pensa alla situazione di quei giovani non comunitari nati in
Italia da genitori entrambi stranieri che, in una fase di sviluppo psico-fisico
delicata per tutti, scoprono questa loro differenza rispetto a coetanei ed
amici con i quali, fino ad allora, hanno condiviso numerose esperienze. Ma
anche per i non nati qui, rimane grave l’esclusione da un’attività che dovrebbe
avere un ruolo educativo e di socializzazione importante.
6. Stato di applicazione delle norme contro le discriminazioni
L’anno
in corso ha registrato le prime applicazioni delle norme anti-discriminazione
del D.lgs 286/98 e si sono anche verificate molte altre situazioni in cui la
violazione di tali norme era ragionevolmente ipotizzabile ma che ha dato
seguito ad alcun ricorso alle autorità giudiziarie né ad altro soggetto per una
ricomposizione extragiudiziale. Al momento della stesura del presente
rapporto, l’esito del ricorso alla giustizia civile come previsto dalle norme
in oggetto è noto per due casi mentre altri sono ancora in via di
determinazione. Pertanto, sebbene il numero dei casi sia limitatissimo, sarà
bene passarli in rassegna perché rivelano alcune luci ed ombre delle norme
stesse, della loro interpretazione ed applicazione. (14)
Il
primo caso di applicazione ovvero di giudizio di un organo giudiziario in base
alle previsione degli articoli in esame è avvenuto a Milano. Si tratta del caso
di una donna straniera regolarmente soggiornante alla quale un’agenzia
immobiliare ha rifiutato di affittare un alloggio con la motivazione che «i
proprietari non avevano intenzione di affittare agli extracomunitari», (15) In seguito a questo rifiuto, la donna
discriminata si è rivolta ad una associazione che offre consulenza legale alle
persone immigrate; i volontari di questa associazione hanno contattato la
stessa agenzia con la richiesta di un alloggio in affitto per una cittadina di
un paese extracomunitario. Ai volontari è stata data la stessa risposta
negativa. In sede di giudizio, l’agenzia chiamata in causa ha negato di aver
ricevuto una richiesta per locazione da parte della donna straniera, ma il
giudice ha ritenuto provata la circostanza denunciata, riconoscendo
attendibilità ai testimoni del ricorrente: i volontari dell’associazione che
avevano fatto la telefonata di «controllo» in seguito alla lamentela della
donna discriminata. Inoltre, lo stesso giudice ha riconosciuto alla vittima della
discriminazione il diritto al risarcimento dei danni morali, quantificati in
lire un milione, oltre alle spese processuali.
Il
secondo caso di azione di tutela civile contro la discriminazione promossa in
base al D.lgs 286/98 e sulla quale si è già pronunciato un tribunale si è
verificato a Firenze. In questo caso, una donna di origine straniera
extracomunitaria ha denunciato un controllore dei servizi di trasporto del
Comune di Firenze - l’ATAF - per avere
effettuato la verifica a bordo del titolo di viaggio iniziando da lei e
trascurando gli altri passeggeri, averla obbligata a scendere dal mezzo; non
aver creduto alle generalità da lei rese, averla rincorsa e fermata e fatta
salire su una macchina dell’ATAF senza segni di riconoscimento per accompagnarla
alla Polizia e per averla minacciata di farla rimpatriare nel paese d’origine.
Il ricorso è stato respinto perché dall’istruttoria non è emersa una
«specificità discriminatoria» ma solo «un comportamento arbitrario» da parte
del controllore, che avrebbe potuto verificarsi, indipendentemente dalla razza,
con qualunque altro soggetto che fosse entrato in contrapposizione con lo
stesso in quel contesto relazionale.
Un primo aspetto d’interesse
dei due casi citati è rappresentato dal ruolo dei testimoni nella valutazione
di ciascuna. Nel primo, i testimoni del ricorrente sono stati ritenuti
attendibili anche di fronte alla negazione dell’agenzia immobiliare di aver
ricevuto una richiesta di locazione da parte della donna. Nel secondo invece,
il testimone della ricorrente (sua sorella) e quelli del controllore (due suoi
colleghi) tutti presenti durante l’evento, hanno sostenuto posizioni diverse
che sono finite in qualche modo per «annullarsi». Pur rilevando, quindi, un
comportamento arbitrario, definito nell’ordinanza «reazione stizzita ed
abnorme» l’atteggiamento della donna, si è ritenuto che l’origine etnica di
questa non fosse la causa dell’accaduto, o almeno non sono emerse prove a
sostegno.
Entrambi
fatti raccontati rimandano al problema della prova in casi di discriminazione
su qualunque base. L’esperienza di lotta alle discriminazioni nei confronti
delle donne dimostra che è estremamente difficile ed a volte impossibile per
una vittima di un atto discriminatorio dimostrare l’accaduto; basti pensare ai
casi in cui la vittima è sola mentre l’attore ha dalla sua uno o più testimoni
pronti a sostenere posizioni favorevoli allo stesso, o ai fatti i cui elementi
di prova sono in possesso del soggetto che ha compiuto l’atto discriminatorio,
e ancor più se questo rappresenta un organo istituzionale [Mughini 2000]. Le
esperienze di protezione legale contro le discriminazioni dimostrano che non
c’è un’efficace tutela di legge contro un atto discriminatorio in assenza dello
spostamento dell’onere della prova a carico dell’accusato/a, è per questo che,
in molti paesi europei e nella legislazione dell’Unione europea, questo
spostamento viene previsto in ogni provvedimento contro le discriminazioni. La
legge 40/98 e il Testo Unico nella quale è stata trasfusa non prevedono
lo spostamento dell’onere della prova e ciò rappresenta un limite grosso al
quale bisognerà porre rimedio quanto prima, anche in ottemperanza alla
previsione della recente direttiva Ue in materia di parità di trattamento
indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica. (16)
Torneremo in seguito a questo problema quando esamineremo le due recenti
direttive dell’Ue e quali cambiamenti comporteranno nella legislazione
nazionale.
Altro
aspetto d’interesse è dato dal risarcimento del danno non patrimoniale concesso
nel caso dell’agenzia immobiliare. L’applicazione di questa previsione conferma
la novità rappresentata dal risarcimento del danno morale svincolato
dall’ipòtesi di sussistenza degli estremi del reato [Mantello 1999; Mughini op.
cit.; Pipponzi 2000]. Questa novità è implicita nell’orientamento facilmente
riscontrabile in molte legislazioni adottate di recente sulle discriminazioni,
che preferisce l’uso di
norme del diritto civile per contrastare buona parte degli atti discriminatori anziché fare ricorso al diritto penale. In altre parole, la lotta mediante legislazione alle discriminazioni pone sempre più l’accento sulla cessazione della discriminazione e sul rimedio per la vittima mentre ridimensiona l’aspetto della punizione per il responsabile per tali comportamenti. A sostegno di questa linea di condotta si citano come limiti la pesantezza e rigidità del procedimento penale oltre i tempi lunghi che richiede per arrivare a sentenze definitive che possono disincentivare molte vittime dall’intraprendere azione legale a tutela dei propri interessi. D’altra parte, ben difficilmente potrà essere adottata una misura come lo spostamento dell’onere della prova in un procedimento penale.
Fra i
casi di azione civile promossa ai sensi degli artt. 43 e 44 del D.lgs 286/98 ma
ancora in via di definizione, vale la pena citare quello di un lavoratore
immigrato, socio di una cooperativa di lavoro e inviato presso un’altra azienda
con la prospettiva di restarci a lungo. (17)
Questo lavoratore denuncia ad un numero verde, istituito da alcune Ong locali
per il monitoraggio della discriminazione e del razzismo, che nell’azienda dove
lavora ci sono bagni separati evidenziati da due cartelli differenti indicanti uno
«per dipendenti» e l’altro «per ospiti» e che ai lavoratori stranieri è vietato
fare uso del bagno dei dipendenti. Il lavoratore afferma che in precedenza,
c’era un cartello, all’ingresso dello stabilimento, con la scritta «vietato
agli extracomunitari» e che sul posto di lavoro c’è un clima molto ostile nei
confronti dei lavoratori stranieri. Come parte della procedura di controllo e
verifica dei casi segnalati al numero verde, gli operatori hanno contattato,
senza successo, la direzione aziendale per avere il suo punto di vista e sono
poi andati a visitare lo stabilimento senza riuscire ad entrarvi. Poco dopo
l’ultimo tentativo (una telefonata) di parlare con la direzione aziendale, il
lavoratore denunciante è stato licenziato dalla stessa, dicendo di «non voler
aver problemi». Il lavoratore ha potuto proporre ricorso al giudice con il
sostegno dell’Osservatorio; al momento della stesura del presente rapporto il
procedimento è ancora in via di definizione [CESTIM, MLAL 2000].
Al di
là dell’esito del procedimento in corso, il caso conferma l’importanza di avere
un centro regionale di osservazione, studio e informazioni sulle
discriminazioni e la gravità della sua non realizzazione da parte delle regioni
e province autonome. Un centro regionale dotato di adeguati poteri di
interlocuzione avrebbe potuto quantomeno richiedere alle forze di pubblica
sicurezza la verifica di quanto dichiarato dal lavoratore immigrato oltre ad
essere investito di legittimità a discutere direttamente con la direzione
aziendale.
7. Aggiornamento quadro europeo
Nel
primo rapporto sull’integrazione, abbiamo dato conto delle due proposte di
direttiva della Commissione europea per attuare l’art. 13 di Amsterdam. Le due
proposte erano inserite in un pacchetto che comprendeva una proposta di
decisione del Consiglio che stabilisce un programma d’azione comunitaria di
lotta contro la discriminazione (2001-2006).
La direttiva che «attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica» è stata adottata a giugno, mentre quella che «stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro» ed il programma d’azione sono stati approvati entrambi ad ottobre, ma al momento dell’uscita del presente rapporto, non sono stati ancora pubblicati sulla gazzetta ufficiale della Comunità europea. La direttiva che attua il principio della parità di trattamento fra le persone presenta molte luci e qualche ombra rispetto alla normativa nazionale. Una fra le prime è rappresentata dalla definizione della discriminazione che viene distinta in diretta ed indiretta’ rispetto alla normativa nazionale, la definizione della discriminazione diretta risulta più semplice e più facile da comprendere. Secondo la direttiva sussiste discriminazione diretta quando, a causa della sua razza od origine etnica, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia stata o sarebbe trattata un ‘altra in una situazione analoga (art. 2 (2) lett. a). La definizione della discriminazione indiretta è sostanzialmente uguale a quella contenuta nel T.U. sulla condizione dello straniero; infatti ai fini di attuare il principio della parità di trattamento, sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere persone di una determinata razza od origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone, a meno che tale disposizione, criterio o prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari (art. 2 (2) lett. b). A queste due definizioni la Direttiva della Commissione Europea aggiunge due elementi che le integrano: stabilisce che le molestie, definite conformemente alle leggi e prassi nazionali, sono da considerarsi una discriminazione in caso di comportamento indesiderato adottato per motivi di razza o di origine etnica e avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante. umiliante od offensivo’ in secondo luogo viene esplicitato che l’ordine di discriminare persone a causa della razza o dell’origine etnica è da considerarsi una discriminazione.
Altro
aspetto positivo riguarda l’onere della prova; l’articolo 8 afferma che «gli
Stati membri prendono le misure necessarie, conformemente ai loro sistemi
giudiziari nazionali, per assicurare che, allorché persone che si ritengono
lese dalla mancata applicazione nei loro riguardi del principio della parità di
trattamento espongono, dinanzi a un tribunale o a un’altra autorità competente,
fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una discriminazione diretta o
indiretta, incomba alla parte convenuta provare che non vi è stata violazione del
principio della parità di trattamento». Lo spostamento dell’onere della prova
viene esplicitamente escluso per i provvedimenti penali e vengono fatte salve
disposizioni in materia di prova più favorevoli alle parti attrici, mentre gli
stati membri «non sono tenuti» ad applicano «ai procedimenti in cui spetta al
giudice o all’organo competente indagare sui fatti».
Abbiamo
visto in precedenza che l’assenza nella normativa nazionale dello spostamento
dell’onere della prova rappresenta un ostacolo a volte insormontabile per una
vittima di discriminazione quando cerca la protezione della legge. Questo sarà
pertanto uno dei punti in cui tale normativa dovrà adeguarsi alla direttiva in
oggetto.
Un altro aspetto che comporterà un adeguamento della normativa nazionale riguarda l’istituzione di uno o più organismi per la promozione della parità di trattamento di tutte le persone senza discriminazioni fondate sulla razza o l’origine etnica ed indica tra le competenze di tali organismi
a)
l’assistenza indipendente alle vittime di discriminazioni nel dare seguito alle
denunce da essi inoltrate in materia di discriminazione;
b) lo
svolgimento di inchieste indipendenti in materia di discriminazione;
c) la
pubblicazione di rapporti indipendenti e la formulazione di raccomandazioni su
questioni connesse con tali discriminazioni.
La
necessità di un adeguamento non deriva da una mancanza di simile previsione
nella legge nazionale ma dalla non attuazione da parte delle regioni e province
autonome di quanto previsto dalla legge stessa, ovvero la costituzione dei
centri regionali di osservazione e studio delle discriminazioni e di assistenza
alle vittime. Ad integrazione ditale previsione, si potrà stabilire la
costituzione di un organismo nazionale di coordinamento con poteri ben definiti
al fine di espletare le proprie funzioni in modo efficace.
Infine, il grosso limite della direttiva rispetto alla normativa nazionale è dato dal fatto che non copre le differenze di trattamento basate sulla nazionalità, né qualsiasi trattamento derivante dalla condizione giuridica dello straniero non comunitario. E' evidente lo sforzo di non sovrapporsi a parti delle varie disposizioni nazionali in materia d’ingresso e soggiorno dei cittadini di paesi terzi, col rischio d’irritare alcuni paesi membri dell’Unione ma, così facendo, lascia uno spazio vuoto che non permetterà di raggiungere l’obiettivo dichiarato di avere un livello di protezione minima e garantire la parità di trattamento. Fortunatamente, la normativa nazionale èpiù puntuale ed inclusiva nella protezione che offre in quanto prevede lo stesso divieto di discriminazione sulla base della sola condizione di essere straniero o dell'appartenenza da una nazionalità o cittadinanza, salvo nei casi previsti dalla legge stessa. Così facendo, il legislatore ha tenuto distinte le norme, con connesse pratiche e procedure, sulla condizione dello straniero dalla necessità di tutelare e garantire la pari dignità di ogni persona e non solo dei cittadini, anche in osservanza del dettato costituzionale [Luciani 2000].
Per
garantire un livello minimo di protezione contro le discriminazioni, la
direttiva afferma che gli Stati membri possono introdurre o mantenere, per
quanto riguarda il principio della parità di trattamento, disposizioni più
favorevoli di quelle fissate nella stessa direttiva e che l’attuazione della
stessa non può in alcun caso costituire motivo di riduzione del livello di
protezione contro la discriminazione già previsto nell’ordinamento nazionale
nei settori di applicazione della direttiva.
8. Proposte
A più
di due anni dall’uscita del D.lgs 286/98, constatiamo che rimangono diversi
problemi nella sua attuazione, il primo dei quali è che la norma è ancora poco
conosciuta ed applicata, a partire dalla mancata attivazione dei centri
regionali fino all’adeguamento dei regolamenti, prassi e procedure in diversi
settori ed a più livelli.
Questa mancanza ha comportato
che la nostra conoscenza della diffusione del fenomeno e delle buone pratiche
messe in atto ha progredito poco e con difficoltà. In alcuni casi, dove i
regolamenti sono stati rivisti dopo l’entrata in vigore della legge 40/98, le
norme anti-discriminazione non sono state tenute in considerazione (esempio di
alcune federazioni sportive). Proposta: occorrono più iniziative per promuovere
la conoscenza e l’applicazione di queste norme; in attesa che le regioni
attivino i centri di osservazione, la Commissione potrebbe promuovere ricerche
specifiche per rilevare il grado di adeguamento di regolamenti, prassi e
procedure in alcuni settori chiave della vita pubblica come quelli del lavoro e
dell’alloggio. L’iniziativa in esame al Dipartimento per gli Affari sociali per
l’attivazione di un numero verde nazionale contro le discriminazioni può
costituire una buona occasione di rilancio di quanto la legge prevede in
materia di tutela contro la discriminazione.
Il
ruolo positivo degli organismi di promozione della parità di trattamento nel
rendere efficace la lotta contro le discriminazioni è largamente riconosciuto
dalle istituzioni sia del Consiglio d’Europa sia dell’Unione e ciò viene
riaffermato nella recente direttiva di quest’ultima sulla parità di
trattamento. Abbiamo osservato in precedenza che per questo aspetto, basterebbe
pochissimo per adeguare la normativa nazionale alla direttiva in quanto il T.U.
sulla condizione dello straniero aveva già previsto tali organismi, affidandone
la competenza alle regioni. Poiché la suddetta direttiva prevede che gli stati
membri dell’Unione si adeguano entro il 19 luglio 2003, occorre sollecitare le
regioni e province autonome fin d’ora onde evitare un frettoloso adeguamento
all’ultimo minuto dettato più dall’esigenza di non incorrere in procedure
d’infrazione da parte della Commissione europea. L’assetto più funzionale di un
tale organismo non potrà che essere trovato dopo un congruo periodo di tempo
che permetta di far emergere i diversi problemi coinvolti (metodologie comuni o
simili, comparabilità dei dati, raccolta e disaggregazione dei dati in base
all’origine nazionale o etnica ecc.). Quest’ultimo aspetto richiede che si
avviino riflessioni in merito per le molte questioni che solleva; il timore
dell’utilizzo di tali informazioni per mettere in atto discriminazioni anziché
per verificare l’attuazione del principio di parità di trattamento è certamente
forte e necessiterà di predisporre le necessarie garanzie e meccanismi ma anche
una campagna per una corretta informazione alla cittadinanza.
Si
conferma la bontà della scelta di consentire alle associazioni di
rappresentanza o di tutela dei diritti degli stranieri o quelle sindacali di
poter intervenire, promuovendo azioni legali in casi di discriminazioni. Si
verifica in molti casi che le vittime di atti di discriminazione non intraprendono
azioni legali a propria tutela a causa di vari fattori: l’impatto emotivo
dell’esperienza, l’esigenza di dover ancora risolvere il problema (esempio
ricerca di una casa in affitto) per la quale l’azione legale non offre una
soluzione, i tempi lunghi dell’azione giudiziaria e, a volte, anche la
pressione di familiari ed amici che temono eventuali ritorsioni. Abbiamo visto
sopra che nel caso dell’agenzia immobiliare condannata a risarcire il danno per
discriminazione, l’apporto dell’associazione di volontariato che ha assistito
la vittima è stato decisivo nell’acquisizione della prova. Occorre potenziare
il sostegno alle associazioni della società civile che si occupano della tutela
dei diritti di migranti, rifugiati, Rom, Sinti e camminanti; grazie al sostegno
della Commissione europea,
alcune
di queste hanno già intrapreso azioni (18)
per la promozione della parità di trattamento e di contrasto alla
discriminazione in base alle nuove condizioni rese possibili sia dalla direttiva
europea sia dalla legge nazionale.
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M.
2000 Il
razzismo, Editori Laterza.
Direttiva
2000/43/CE del Consiglio del 29 giugno 2000 che attua il principio della parità
di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine
etnica, in «Gazzetta ufficiale delle Comunità europee», E. 180/22 del
19.07.2000.
Direttiva
2000/43/CE del Consiglio del 29 giugno 2000, in «Gazzetta ufficiale delle
Comunità europee», L. 180/22 del 19/07/2000.
Rete d’urgenza contro il razzismo, Rapporto di ricerca sulla discriminazione, Torino, 2000.
Note:
1) IACP per la Provincia di Pordenone, lettera del 25 agosto 1999,
oggetto: richiesta documentazione ex art. 49 L.R: 75/1982. Questa lettera
indica il termine per la presentazione dell’integrazione richiesta in 40 giorni
dalla data della stessa.
2) Fra gli interpellati, risultano aver predisposto un pacchetto di
servizi mirati ed agevolati il Banco Ambrosiano Veneto e la Banca popolare di
Milano. Il numero di clienti che hanno richiesto questi pacchetti risulta nel
primo caso pari a 3.500 cioè lo 0,4% del numero totale dei clienti, nel secondo
pari a 5.000 (0,3% del totale).
3) La Banca popolare di Milano (BPM) che ha predisposto il conto corrente
«Extrà» ha dichiarato che su 8000 conto correntisti avuti in tre anni, solo 250
sono risultati insolventi. Il Banco Ambrosiano Veneto che ha predisposto il
conto «People» ha registrato, su 5.000 correntisti, 250 insolvenze.
4)
L’intero pacchetto di servizi offerti nell’ambito del conto «Extrà» dalla BMP è
stato elaborato e realizzato in collaborazione con la Camera di Commercio di
Milano, la Fondazione San Carlo, il Fondo di garanzia per il credito al
Commercio e al Turismo (FIDOCOMET) e gli uffici stranieri dei sindacati CGIL,
CISL e UIL.
5) Il
costo fisso per l’invio di denaro tramite le banche coinvolte va dalle 15.000
alle 37.000 lire mentre la Banca Popolare di Milano e il Banco Ambrosiano
Veneto hanno previsto costi agevolati rispettivamente di 10.000 e 5.000 lire.
6) Questa non sembra un’agevolazione di per sé in quanto di norma viene
emessa, a richiesta, alla clientela di cittadinanza italiana dopo l’apertura di
un conto corrente.
7) Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni: Circolare 12 aprile
2000, n. 407-D; in «Diritto,
Immigrazione
e Cittadinanza» (rivista trimestrale promossa dall’Associazione per gli studi
giuridici sull’immigrazione e da Magistratura democratica), anno 11, n. 2/2000,
F. Angeli, p. 199-201.
8) «Diritto, Immigrazione e Cittadinanza», cit. p.1 16-117.
9) The European model of sport,
Consultation document of DGX
(http://europe.eu.int/comm/dg10/sport/publications/doc_consult_en.html
- 18/08/99)
10) FIPAV, Guida pratica, Stagione agonistica 1998/99.
11) FIP, Carte federali, 1995; FIP, Regolamento esecutivo, maggio 1998.
12) FIDAL, Regolamento organico, 1998.
13) FIN, Regolamenti federali, 1999.
14) Nel capitolo sulla discriminazione del Primo rapporto sull‘integrazione
degli immigrati in Italia, si rinviò ad altre parti dello stesso per una
valutazione strettamente giuridica degli artt. 43 e 44 del d.lgs 286/98,
limitandosi ad evidenziare alcune novità introdotte dagli stessi articoli. Quel
rimando non trova alcun riscontro in quanto questa parte è stata scorporata e
pubblicata come documento a sé; si veda pertanto Mantello, M. 1999:
Discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi: profili
della tutela civile (artt. 41 e 42 legge 6 marzo 1998 n. 40), Commissione per
l’integrazione, Working paper n. 6.
15) Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, p.74 - 75; Rivista trimestrale
promossa dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione e da
Magistratura democratica, anno Il, n.2/2000; Franco Angeli editore.
16) Si veda inoltre la Direttiva 2000/43/CE del Consiglio del 29 giugno
2000 che attua il principio
della
parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e
dall'origine etnica;
Gazzetta
ufficiale delle Comunità europee, L. 180/22 del 19.07.2000. Si veda inoltre la
Direttiva
97/80/CE
del Consiglio del 15 dicembre 1997 riguardante l’onere della prova nei casi di
discriminazione
basata sul sesso. Sulla giurisprudenza della Corte di giustizia europea, si
vedano in
particolare:
Danfoss, causa C-109/88, sentenza del 17 ottobre 1989, «Raccolta della
giurisprudenza»,
1989,
pag. 3199, par. 16; Enderby contro Frenchay Health Authority, causa C-127/92,
sentenza del
27
ottobre 1993, «Raccolta della giurisprudenza», 1993, pag. 5535, par. 13 e 14;
Royal Copenhagen,
causa
C-400/93, sentenza del 31 maggio 1995, «Raccolta della giurisprudenza», 1995,
pag. 1275, par.
24.
17) CESTIM - Centro studi sull’immigrazione; MLAL - Movimento Laici America Latina: Relazione finale del progetto «Numero verde Schengen... una telefonata contro la discriminazione », Verona, dicembre 1999 - ottobre 2000.
18) Per questa parte del Rapporto, abbiamo attinto molto dai rapporti di
progetti simili sostenuti finanziariamente dall’Ue e realizzati da
organizzazioni non-lucrative di utilità sociale (ONLUS) nazionali.