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Un esercito di immigrati tenuto a distanza
Ormai l'Europa respinge chi le chiede rifugio
Il 17 febbraio scorso, il parlamento olandese ha approvato, a larga
maggioranza, l'espulsione verso paesi quali la Cecenia, l'Afghanistan
e la Somalia, di 26.000 stranieri privi di documenti. I fautori della
linea dura nei confronti del diritto di asilo hanno trovato alleati
in tutti i governi europei. Con la partecipazione (pagata) dei paesi
d'origine, architettano un piano che mira a esportare il «trattamento»
dei rifugiati, prevede l'apertura di altri campi e, a breve, può
portare alla morte del diritto di asilo.
Alain Morice
Ai confini dell'Europa i rifugiati stanno per essere trattati come
gli altri migranti. In un clima di crescente nervosismo, il diritto
d'asilo è sempre più messo in forse a fronte della necessità proclamata
di un «controllo» selettivo dell'immigrazione. Discutibile sul piano
dei principi - l'asilo è un diritto effettivo (consacrato dalla Convenzione
di Ginevra del 1951) mentre l'immigrazione è d'ordine discrezionale
- questa equiparazione è frutto della dichiarata volontà degli stati
membri dell'Unione europea (Ue) di rivedere il diritto all'asilo...
per meglio arrivare all'abolizione del diritto d'asilo.
Le crescenti disuguaglianze sul piano del benessere (e della democrazia)
tra paesi dominanti e dominati aggravano i timori di un'invasione
incontrollata di stranieri. A questa preoccupazione si aggiunge lo
sconcerto causato dal fallimento delle politiche d'accoglienza e
di integrazione dei migranti. Queste ossessioni (1) inducono i governanti
a chiudere tutte le altre vie legali alle persone in fuga da situazioni
spaventose, gonfiando così le richieste d'asilo. Tra i sospettati
di richiederlo «abusivamente», molti hanno rischiato la vita per
riuscire ad approdare in Europa, dando così una conferma tanto terribile
quanto involontaria dell'immagine di un afflusso impossibile da arginare
(si veda la cartina). Su queste premesse si mobilitano tutte le risorse
dell'elettoralismo xenofobo: rifugiato o meno, lo straniero sarebbe
comunque un pericolo, e consentirne l'irruzione una follia (2).
Nel 1997, il Trattato di Amsterdam pone il diritto d'asilo in posizione
prioritaria nella politica migratoria dei Quindici. Dopo un rodaggio
sempre più perfezionato, i meccanismi ideologici e giuridici dell'Unione
europea si declinano in tre mosse: per prima cosa si dice che la
pressione ai confini è divenuta insostenibile; poi si contesta la
fondatezza della domanda d'asilo; infine, dato che i limiti operativi
di queste enunciazioni non tardano a diventare evidenti, ci si organizza
per rimuovere l'ingombrante problema dei rifugiati lontano dagli
occhi della società civile. Ora, questa «esternalizzazione» comporta
inevitabilmente una politica di internamento in appositi campi: un
meccanismo che minaccia la stessa legittimità della nozione di rifugiato.
La lotta contro l'immigrazione clandestina comporta spese tanto gravose
quanto inefficaci. E induce gli stati a tollerare o a gestire sul
proprio territorio zone ad hoc, gestite al di fuori del diritto comune,
che preoccupano a ragione i difensori dei diritti umani.(3) A proposito
del campo di Ceuta, in Marocco, ove 300 richiedenti asilo registrati
sono in mezzo alla strada, il presidente della Commissione spagnola
di aiuto ai rifugiati (Cear) ha così espresso il suo sconcerto: «È
doloroso dover dire che a causa della politica del governo, oggi
la Spagna è una terra ostile ai profughi. (...) La Spagna democratica
del 2003 ha dimenticato la Spagna insanguinata del 1939, che ha visto
centinaia di migliaia dei suoi figli fuggire il regime di terrore
di Franco e cercare rifugio in ogni parte del pianeta (4)».
Per contestare la legittimità di una proporzione crescente delle
domande d'asilo, alcuni paesi, tra cui l'Austria, dichiarano di ritenere
ormai superati i criteri della Convenzione del 1951; e propongono
«un'impostazione nuova, non più fondata su un diritto individuale
e soggettivo, bensì sull'offerta politica emanante dagli Stati d'accoglienza
(5)». Fino al 2003, la Francia ha sempre postulato una dottrina restrittiva:
solo chi subiva le persecuzioni di uno stato in quanto tale poteva
trovare grazia agli occhi dell'Ufficio francese di protezione (sic)
dei rifugiati e apolidi (Ofpra), e ottenere lo status di «rifugiato».
Il fatto che una domanda d'asilo fosse motivata da situazioni di
oppressione della donna, persecuzione di minoranze, confisca dei
beni o anche da massacri interetnici poteva essere motivo di rifiuto,
dal momento che l'agente persecutore non era uno stato. Più tardi
la Francia inventerà l'«asilo territoriale» (legge dell'11 maggio
1998), eretta ora in seno all'Unione al rango di «protezione sussidiaria»:
un asilo al ribasso, e soprattutto reversibile, considerato come
«un'ammissione eccezionale al soggiorno», nonché «distinta dalla
nozione di riconoscimento della qualità di rifugiato» ai sensi della
Convenzione di Ginevra.
Negli anni 1980 hanno incominciato a diffondersi le nozioni di «falso
rifugiato» o «rifugiato economico», volte a stigmatizzare i richiedenti
asilo ritenuti illegittimi. «Le numerose domande per il riconoscimento
dello status di rifugiato presentate da immigrati economici (...)
devono essere risolutamente respinte», scriveva nel 1984 il presidente
della Commissione per i ricorsi dei rifugiati (Crr) André Jacomet.(6)
Dopo le accuse agli «immigrati clandestini che impediscono l'integrazione
degli stranieri già stabiliti nel paese», ci viene propinato un altro
ritornello: «il troppo asilo uccide l'asilo», così interpretato nell'attuale
linguaggio dell'Ue: «L'ipertrofia dei flussi composti sia da persone
con esigenze legittime di protezione, sia da migranti che utilizzano
le vie e le procedure del diritto d'asilo per entrare nei territori
degli stati membri, (...) costituisce una minaccia reale per l'istituto
stesso dell'asilo (7)».
Sospettato a priori di frode, il richiedente asilo alla fine è accusato
(e qui siamo al colmo!) di intasare gli uffici adibiti all'espletamento
della sua richiesta, oppure alla sua espulsione. Per poter dirottare
i richiedenti «abusivi» verso le zone di parcheggio (in attesa di
rimpatriarli) senza un esame effettivo dei loro motivi, nel 1992
una risoluzione europea ha istituito la nozione di «domanda manifestamente
infondata», (ripresa l'anno dopo da una legge francese) e quella
di «frode deliberata» (8) Ma queste misure, lungi dal prosciugare
l'afflusso, hanno avuto l'unica conseguenza di accrescere a dismisura
il numero dei richiedenti che al di fuori di ogni procedura contraddittoria
sono dichiarati «indesiderabili», anche se è difficilissimo espellerli
- come è avvenuto nel caso dei curdi provenienti dall'Iraq, dato
che i trasporti aerei erano stati sospesi per più di due anni dopo
la guerra del Golfo del 1991.
Sulla questione dei rifugiati «clandestini» esistono alcune dissonanze
tra gli stati membri, specialmente in merito al lucroso mercato del
lavoro nero: lo si è potuto constatare in Italia nel caso dei canali
d'afflusso della manodopera albanese. Per tre anni, fino alla sua
chiusura, nel dicembre 2002, il campo di Sangatte, ufficialmente
affidato dalle autorità francesi alla Croce Rossa, ha consentito
il passaggio di almeno 80.000 rifugiati verso l'Inghilterra - il
che potrebbe essere interpretato come un ragguardevole contributo
al lavoro nero al di là della Manica. In senso più generale, nessuno
può ignorare che i profughi senza uno status contribuiscono a far
girare gli affari di taluni settori economici. Ma tant'è: la guerra
al diritto d'asilo è oramai dichiarata. E si fonda su un inquietante
arsenale di argomenti, nonché su una serie di metodi che si sviluppano
essenzialmente su due linee: tenere a distanza e rimuovere.
Tenere a distanza il profugo; e quando teme legittimamente per la
propria sicurezza, mettere in risalto i vantaggi di qualche luogo
fuori dall'Europa, in prossimità del paese dal quale è fuggito, che
si ritiene debba rispondere alla sua richiesta di protezione. Nimby
(Not in my backyard - ossia non nel mio cortile di servizio): l'applicazione
di questo principio è all'origine di una casistica ricca di sottili
distinguo. Sul piano pratico si è fatto sfoggio di una grande inventiva.
Ad esempio, in conformità con la Convenzione di Schengen del giugno
1990, sono state progressivamente istituite pesanti sanzioni contro
le compagnie di trasporti che accettano di far salire a bordo dei
loro aerei persone sospettate di voler aggirare le leggi sull'immigrazione.
La privatizzazione dei controlli all'origine, affidati a personale
civile, è divenuta ormai un'istituzione, così come la crescente presenza
di poliziotti che ai banchi degli aeroporti istruiscono il personale
su come individuare i potenziale migranti illegali.
Per di più si sta rimettendo in discussione lo stesso status di rifugiato.
Un vecchio argomento utilizzato ai tempi delle persecuzioni naziste
tra le due guerre è stato riesumato in Francia nel 1999, durante
la guerra civile jugoslava. Il governo Jospin allora in carica ha
decretato, tra gli applausi discreti dell'opposizione parlamentare
(di destra), che concedere lo status di rifugiati alle minoranze
del Kosovo sarebbe stato un modo per ratificare «il fatto compiuto»
delle violenze serbe (9). Si è visto allora affacciarsi uno strano
ragionamento, di un paternalismo misto a culturalismo, secondo il
quale restando nelle vicinanze quella gente si sarebbe trovata meglio,
e una volta venuto il momento sarebbe stata più disponibile a partecipare
alla ricostruzione del paese (10); un altro modo per dire che i paesi
più lontani si troverebbero meglio se non dovessero farsi carico
dei rifugiati.
Delocalizzazione dell'asilo
Peraltro, fin dal 1992 l'Europa ha fatto ricorso alla nozione di
«paesi sicuri», che autorizza a rispedire i profughi negli stati
d'origine o di transito ove questi siano ritenuti in grado di offrire
garanzie per la loro sicurezza. Laddove esistano accordi di riammissione,
i paesi che li hanno sottoscritti sono tenuti a riprendersi le persone
respinte. Quanto alle «garanzie», comunque alquanto ipotetiche, dato
che la situazione di alcuni paesi definiti «sicuri» può cambiare
molto rapidamente (com'è accaduto in Costa d'Avorio, dove, a causa
del conflitto, la Francia ha cessato di dirottare gli immigrati indesiderabili),
sono ancora meno valide nei casi in cui i paesi in questione dirottano
i profughi verso altre destinazioni. Oltre tutto, raramente il loro
elenco è reso di pubblico dominio. Attualmente gli Stati dell'Unione
hanno difficoltà ad accordarsi, più che sul principio, su un elenco
comune dei «paesi sicuri», per evidenti ragioni diplomatiche.
Parallelamente, una proposta di direttiva europea del giugno 2002
(11) ha aperto la strada alla nozione di «asilo interno»: prima di
concedere la sua protezione, il paese al quale è rivolta la domanda
d'asilo verificherà se il richiedente non possa trovare sul territorio
del proprio paese un luogo dove poter stare al sicuro. Nel progetto
si specifica che luoghi del genere possono essere gestiti da «organizzazioni
internazionali e da autorità permanenti apparentate a uno Stato».
Ma su quali garanzie potrebbe contare la persona così dirottata verso
zone instabili e mal controllate? A quanto pare, ci si è dimenticati
di Srebrenica (12). La Francia si è comunque affrettata, senza attendere
l'accordo dei suoi partner, a inserire l'asilo interno nella sua
recentissima legge sul diritto d'asilo, del 10 dicembre 2003.
Alcuni dei nuovi membri dell'Unione, tra cui la Polonia e la Repubblica
ceca, sono oggetto di particolari preoccupazioni, dato che molti
rifugiati penetrano nello spazio europeo passando per i loro territori.
In virtù del regolamento europeo «Dublino II» in vigore dal 2003,
è il primo paese raggiunto dall'immigrante a doversi occupare del
suo caso.
Il 22 gennaio 2004 Ruud Lubbers, Alto Commissario delle Nazioni Unite
ai Rifugiati (Hcr), ha espresso ai ministri dell'interno europei
la sua preoccupazione per il rischio di intasamento dei sistemi d'asilo:
«In alcuni dei nuovi paesi dell'Unione (...) gli addetti all'espletamento
delle domande sono appena una quindicina o una ventina. (...) Cosa
succederà se altre migliaia dei richiedenti asilo verranno rispediti
verso questi paesi dagli altri stati dell'"interno" dell'Unione?
Si corre il rischio di un tracollo delle procedure armonizzate in
questi nuovi paesi (13).» Tra le altre cose, l'Alto Commissario ha
poi suggerito l'istituzione di «centri di accoglienza europei», con
il contributo di operatori e interpreti «di tutta l'Unione» - il
che lascia presagire un allineamento sui paesi ove il processo di
revisione della Convenzione del 1951 è più avanzato. Un orientamento
che pure conduce direttamente a un dispositivo di internamento degli
stranieri in campi speciali (14).
Nel febbraio 2003 il governo britannico ha proposto di far istruire
le domande presso «centri di transito» (transit processing centers),
incaricati di provvedere, lontano dagli sguardi, alla selezione tra
«buoni» e «cattivi» rifugiati - almeno tra quelli sopravvissuti al
viaggio - poiché come è diventato evidente, la mortalità tra gli
immigrati è oramai un mezzo di regolazione delle richieste d'asilo.
Si suggeriva inoltre di «esportare» questi siti ricorrendo a piattaforme
off shore in paesi quali il Marocco, la Turchia, la Croazia, la Somalia
o l'Iran - paesi «sicuri», come implicitamente si postulava (15)!
Dal canto suo l'Hcr aveva invocato la necessità di «condividere l'onere»
lanciando, alla fine del 2002, l'operazione «Convention plus», destinata
a far passare l'idea che per quanto possibile, i profughi dovessero
rimanere in zone vicine ai loro paesi di provenienza. E ritenendo
interessante la proposta britannica, ha suggerito di emendarla come
segue: nei casi di richieste d'asilo «abusive» di rifugiati «economici»,
questi dovrebbero essere internati in centri chiusi, comuni agli
Stati membri. L'unica differenza consisterebbe quindi nel fatto che
questi centri sarebbero localizzati all'interno dei confini dell'Ue
- molto probabilmente nei nuovi paesi membri (16).
Poiché la proposta britannica è stata respinta al Vertice di Salonicco
del giugno 2003, gli stati membri hanno deciso di privilegiare piuttosto
gli accordi di riammissione con i paesi d'emigrazione. Divenuto ormai
maestro nell'arte della doccia scozzese sui profughi, Ruud Lubbers
ha rivolto, nel novembre 2003, un severo monito agli Stati dell'Unione
sulle garanzie per i diritti umani nell'elaborazione di una politica
comune dell'asilo (in particolare per quanto riguarda i «paesi sicuri»).
Purtroppo però, con buona pace di queste dichiarazioni, l'Hcr sembra
allontanarsi sempre più dalla sua vocazione, che era quella di proteggere
le persone in pericolo, per mettersi progressivamente al servizio
delle politiche europee di delocalizzazione dell'asilo (17).
La rimozione dei rifugiati richiama automaticamente la creazione
di campi speciali. Le nozioni di «paesi sicuri», di accordi di riammissione»
o di «centri di transito» implicano tutte un trattamento articolato
per gruppi. Ne deriva una logica dell'eccezione, fondata sull'internamento
collettivo, perpetuamente rinnovato, di determinate categorie di
persone. La Convenzione del 1951 estendeva l'ammissione all'asilo
a «ogni persona che tema a ragione di essere perseguitata» a causa
di una qualsiasi appartenenza (18). Per converso, la nuova politica
europea, appoggiata dall'Hcr, enuncia che a determinate persone non
è concesso chiedere legittimamente asilo presso di noi a causa della
loro appartenenza.
Ricatto coloniale
Un'operazione ideologica estremamente preoccupante, anche perché
finalizzata a una precisa applicazione pratica: si procede a designare
e a istituire una serie di gruppi in base al criterio dell'origine,
confermandone così il carattere discriminatorio. In prospettiva,
il risultato inevitabile di questo tipo di politica sarà un razzismo
rivolto specificamente contro i profughi di determinati gruppi nazionali
o etnici, che peraltro già esiste, in Italia verso gli albanesi,
o in Francia nei confronti dei Rom di provenienza rumena.
Un secondo rischio risiede nel tipo di relazioni internazionali che
conforteranno queste politiche di esternalizzazione e di campi di
internamento: un modo per risprofondare nell'imperialismo, e non
certo per superarlo. Già l'ammissione dei nuovi stati membri è stata
oggetto di contrattazioni poco virtuose, con la richiesta, in cambio
del «ticket d'ingresso» nell'Unione, di un atteggiamento di buona
volontà per contribuire ad arginare le migrazioni: è il caso, il
particolare, della Polonia, primo paese con il quale il «gruppo di
Schengen» ha sottoscritto un accordo di riammissione negli anni 1990.
Ora però, sia per quanto riguarda gli accordi suddetti che le piattaforme
per i richiedenti asilo, si profila un dispositivo inquietante di
mercanteggiamenti e di divisione internazionale del lavoro.
Mercanteggiamenti: dietro la cortina fumogena degli aiuti allo sviluppo
(da negoziare con i paesi indebitati in cambio della loro cooperazione
«alla fonte» nella lotta contro l'immigrazione) si affaccia il pericolo
di un ulteriore aggravamento della corruzione dei dirigenti, spesso
beneficiari esclusivi di questi aiuti. C'è inoltre il rischio di
un rafforzamento dei sistemi clientelari ereditati dall'epoca della
colonizzazione, e in prospettiva, di un inasprimento delle tensioni
tra i paesi coinvolti nel tentativo di unirsi contro quel nemico
immaginario che è il rifugiato. Un sintomo allarmante: ha fatto la
sua comparsa la nozione di «paesi d'emigrazione illegale». Un oltraggio
alla dichiarazione universale dei diritti umani, che sancisce il
diritto di tutti di lasciare il proprio paese (19).
Divisione del lavoro: accanto all'agricoltura intensiva, alle miniere,
allo sfruttamento dell'infanzia e al turismo, non sono da escludere
nuove specializzazioni nazionali (lucrose nell'immediato ma in prospettiva
portatrici di miseria e di fame) quali l'insediamento di centri di
detenzione delocalizzati e telegestiti, con «consiglieri tecnici»
e appoggio logistico occidentale...
Non mancano i segni premonitori di scenari del genere. Nel settembre
2003, constatando lo stallo dei negoziati per gli accordi di riammissione,
il commissario europeo Antonio Vitorino ha espresso l'auspicio di
poter contrattare la disponibilità degli stati terzi a riprendersi
i clandestini provenienti dal loro territorio (compresi quelli in
transito) offrendo loro come contropartita la concessione di quote
d'immigrazione. Soprattutto - ha aggiunto poi - per i lavori non
qualificati di cui l'Europa ha bisogno. E ha precisato che l'idea
era nata in Italia, dove già veniva applicata (20).
L'8 gennaio 2003, il Consiglio federale svizzero e il governo senegalese
firmavano un «accordo di transito», in base al quale il Senegal si
impegnava ad accogliere temporaneamente, per poi farli ripartire,
tutti i cittadini africani per i quali la Svizzera avrebbe emesso
un decreto di rimpatrio o di esclusione dal proprio territorio; al
Senegal sarebbe toccato sbrogliarsela per individuare i rispettivi
paesi d'origine. L'articolo 15 del protocollo, molto ellittico, riguarda
le «prestazioni speciali», le cui spese sarebbero «regolate con accordo
a parte» (sic). È facile immaginare a quali aberrazioni avrebbe dato
luogo quest'innovazione, se non fosse stata bloccata dall'effetto
congiunto (benché per motivi diversi) della levata di scudi suscitata
a Dakar e della reazione dei difensori dei diritti umani elvetici.
Ma per quanto tempo ancora?
note:
* Antropologo, Unità di ricerca Migrazioni e società (Urmis), Cnrs
(1) Nel senso etimologico del termine, che significa essere o sentirsi
sotto assedio.
(2) Sul significato di questa «retorica del pericolo», leggere Didier
Bigo «Sécurité et immigration», Cultures & Conflits, n°31-32, aut.-inv.
1998.
(3) Si veda la cartina di Plein Droit: «Les camps d'étrangers en
Europe», N° 58, dicembre 2003, nonché il sito della rete Migreurop,
presso pajol.eu.org.
(4) El País, Madrid, 2 gennaio 2004.
(5) Documento inaugurale della presidenza austriaca dell'Unione,
nel 1998. L'hanno scorso, dopo che un documento lasciava intendere
il proposito del Regno unito di denunciare la Convenzione, il governo
di Anthony Blair fu costretto a smentire (The Guardian, Londra, 6
febbraio 2003)
(6) Prefazione a La Protection des réfugiés en France di Frédéric
Tiberghien, Economica, Parigi, 1984
(7) Comunicazione della Commissione europea, 26 marzo 2003, citato
da Patrick Delouvin, «Europe: vers une externalisation des procédures
d'asile?», Hommes et Migrations, n° 1243, Parigi, maggio-giugno 2003.
(8) Risoluzione dei ministri europei responsabili dell'immigrazione,
Londra, 30 novembre- 1° dicembre 1992.
(9) Cfr. «Quel asile pour les Kosovars?», Plein Droit, n° 44, dicembre
1999. Il 12 aprile 1999, un telegramma diplomatico ingiungeva alle
rappresentanze francesi di selezionare con cura i rifugiati e poneva
in particolare la condizione che avessero un parente residente in
Francia.
(10) Cosa smentita dal fatto che proprio i kosovari sono all'origine
del campo di Sangatte, creato nel settembre 1999 per evitare che
questi rifugiati «provvisori» continuassero ad errare per le vie
di Calais.
(11) A due anni di distanza questa direttiva non è stata ancora adottata
- segno inequivocabile di disaccordo tra gli stati membri.
(12) Leggere Daphné Bouteillet-Piquet, «Un droit d'asile qui s'effrite»,
Plein Droit, n° 57, giugno 2003.
(13) Comunicato stampa dell'Hcr, 22 gennaio 2004.
(14) Cfr. nota 3.
(15) Cfr. Claire Rodier, «Les camps d'étrangers, nouvel outil de
la politique migratoire de l'Europe», Mouvements, Parigi, n° 30,
novembre-dicembre 2003. Si vedano inoltre i siti pajol.eu.org e statewatch.org.
(16) Comunicazione di Ruud Lubbers all'incontro informale dei ministri
dell'interno, Veria, 28 marzo 2003.
(17) Quest'orientamento ha attirato sulla Gran Bretagna e sull'Hcr
i fulmini di Amnesty International, che lo giudica «illegittimo e
impraticabile».
(18) Razza, religione, nazionalità, gruppo sociale, opinioni politiche
sono i criteri della Convenzione del 28 luglio 1951
(19) «Les Quinze ne sanctionneront pas les pays d'immigration illégale»,
titolava Le Monde del 23- 24 giugno 2003.
(20) Le Monde, 3 ottobre 2004.
(Traduzione di E. H.)
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