Le MOnde Diplomatique - Luglio 2002
alle porte di parigi, disagio sociale
ed emarginazione
Quei dannati alla periferia del paradiso
Messi all'indice, nel corso di una campagna
elettorale incentrata sull'«insicurezza», come i principali
fautori di disordine nella società francese, gli abitanti dei quartieri
popolari di periferia hanno reagito in modi diversi. Se alcuni hanno espresso
nelle urne il loro desiderio di cambiamento o la loro esasperazione, altri,
«disgustati» dalla politica, hanno scelto l'astensione. Epicentro
del disagio di questi «figli dell'immigrazione», la Grande-Borne,
cité popolare poco distante da Parigi, si porta dietro la sua cattiva
reputazione come una malattia vergognosa.
di Rabah Ait-Hamadouche *
Una lunga muraglia che si estende a perdita
d'occhio: è la Grande-Borne.
Il grande complesso di Grigny (Essonne), 30 km a sud di Parigi, è
chiuso ai due lati dall'autostrada A6 e dalla nazionale 445. In una veduta
aerea, ha qualcosa di quasi poetico, che ricorda un labirinto.
Un armonioso dedalo di stradine, piazzette, spazi verdi e sculture giganti.
Nel pensiero dei suo ideatore, Emile Aillaud, questa utopia architettonica
degli anni '60 doveva essere tutta costruita intorno all'infanzia. Ma una
volta rimessi i piedi in terra, ecco che la realtà riprende i suoi
diritti: vecchi edifici senza balconi, intervallati qua e là da quadrati
erbosi. Grigio, cemento, e dovunque lo stesso aspetto fatiscente.
Vera e propria città nella città, questo agglomerato di case
popolari, considerato a rischio, allinea cifre impressionanti: 90 ettari,
3.600 alloggi, 15.000 abitanti, 52 nazionalità censite... Ma anche
altri dati statistici sono esplosivi: 25% di disoccupati, che balzano al
50% tra la popolazione di età inferiore ai 25 anni; un quarto degli
abitanti di origine straniera, e varie centinaia di inquilini che vivono
sotto la minaccia dell'espulsione.
Epicentro del disagio sociale, la «città che fa paura (1)»
si porta dietro la sua cattiva reputazione come una malattia vergognosa.
Disoccupazione, precarietà, senso di insicurezza e di esclusione
sono il pane quotidiano dei suoi abitanti. Si è insediata qui una
società parallela (2),
che impone i suoi codici, le sue leggi e i suoi riti: meglio conoscerli
per sperare di vivere in pace. Non è più veramente la «Francia
di sotto», ma piuttosto quella «di lato»: un sottogruppo
della comunità nazionale, che viene tenuto a distanza.
Entrando a Grigny, un cartello affisso in place du Damier lancia un primo
segnale: «Prudenza al volante: in questa zona ci sono circa 8.000
bambini». Alcuni, all'imbrunire, giocano ai giardinetti. Con loro
ci sono tre famiglie - una araba, l'altra asiatica, la terza europea - che
si guardano senza parlare, come cani di terracotta.
Regna la diffidenza, segno di un grado avanzato di disgregazione sociale.
La ghettizzazione accelerata di questa società, disertata in massa
dai francesi «doc», ha notevolmente accentuato il senso di abbandono.
Il folto gruppo di immigrati di lunga data, in maggioranza afro-maghrebini,
risente ancora più duramente di questo fenomeno di duplice segregazione,
mentale e spaziale. Alla precarietà delle condizioni si aggiunge
la «violenza simbolica» del razzismo diffuso, di cui gli immigrati
dicono di soffrire quotidianamente.
«Molti dei "bianchi" che abitano qui si sentono vittime di un'invasione.
Hanno tanta paura di noi che vivono dietro le loro serrande chiuse.
E dopo l'11 settembre la situazione è ancora peggiorata. Prima gli
arabi erano ladri; adesso sono anche terroristi», testimonia Abdel,
giovane padre di famiglia di origine tunisina. Eppure, la solidarietà
non è scomparsa del tutto tra queste famiglie, che si conoscono ormai
da anni: si sono moltiplicate le associazioni di inquilini sotto sfratto
e di madri di famiglia, i «club di taglio e cucito» e altre
forme di socializzazione. Per molti, sia francesi che emigrati, questo grande
complesso rappresenta l'ultimo capolinea sociale, una «miseria di
posizione» (3) oltre
alla quale non si può andare.
Alla Grande-Borne, la sera del primo turno delle presidenziali, l'estrema
destra si è ritrovata al secondo posto, con il 14,6% dei suffragi
espressi, davanti a Jacques Chirac (12,5%), ma molto distanziata da Lionel
Jospin (25%). Al secondo turno Chirac ha raccolto un massiccio 86% , contro
il 14% di Le Pen. E il tasso di astensioni è calato dal 44 al 30%.
Individuare gli elettori di Le Pen è una vera scommessa. In mancanza
di prove, varie voci, veicolate da taluni giornali, hanno parlato di un
«voto beur» (4)
in favore del leader del Fronte nazionale.
Vincent Geisser, dell'istituto di Ricerca sul Medioriente (Iremam), respinge
quest'affermazione definendola «fantasiosa» e non suffragata
da prove (5). A suo parere,
è un discorso che rientra nel diffuso clima di islamofobia, con l'aggiunta
di un tentativo di colpevolizzazione: «Tutti gli studi dimostrano
che i francesi di origine musulmana ricusano in massa l'estrema destra.
Il Fronte nazionale li prende direttamente di mira, denigra la loro memoria
migratoria e si atteggia a rappresentante degli eredi dell'Algeria francese.
Esiste però un voto marginale, strutturale, simile al voto lepenista
ebraico, da ascrivere per l'appunto all'attuale animosità tra queste
due comunità, ciascuna delle quali vota Le Pen in odio all'altra».
Un dato è comunque confermato: gli elettori figli di immigrati, in
proporzione molto elevata in queste città-dormitorio, sono sempre
più sensibili al tema della sicurezza. E non a caso. Le famiglie
di immigrazione recente sono tra le prime vittime delle «inciviltà»
e manifestazioni di teppismo di ogni genere: cassette della posta sfasciate,
atti di vandalismo a danno degli spazi comuni e delle auto. Gli episodi
ormai istituzionalizzati di macchine incendiate a date fisse - il 14 luglio
o il 25 dicembre - sono esasperanti.
Kader, padre di famiglia disoccupato, di origine algero-marocchina: «L'insicurezza
è come una pressione invisibile ma onnipresente. A un dato momento
esplode, così, senza una parola. La gente di qui non sa verbalizzare
il proprio malessere, e lo esprime con la violenza.
Ma l'insicurezza viene soprattutto dalla miseria che uccide i bambini, quando
cadono nelle gabbie degli ascensori». Gli abitanti dell'agglomerato
non esitano più a prendere le distanze dalla minoranza di delinquenti
che avvelenano la loro vita quotidiana.
È l'esasperazione a far emergere un discorso radicale da questa popolazione
ormai disinibita. Alcuni non esitano a far proprio il discorso lepenista,
interiorizzando la stigmatizzazione sociale di cui sono oggetto (6).
Gli stessi «fratelli maggiori», i trentenni, pur non sostenendo
la repressione a oltranza, si dicono preoccupati davanti a questa generazione
di adolescenti senza più punti di riferimento, incapaci di rispetto,
affascinati dal denaro e dalla forza: «L'insicurezza è calata
da quando la polizia provoca un po' meno, ma ce n'è sempre da vendere
- sbotta uno di loro. A me non va proprio che qualcuno mi porti via la macchina
o le dia fuoco. Ma anche la destra al potere mette paura.
Con i flash-ball (7) ad
esempio potrebbe succedere di tutto». A due passi da qui, quest'estate
si aprirà un commissariato.
L'indifferenza elettorale Azzedine, 27enne francese di origine algerina,
e Safouan, 24enne di origine tunisina, in tuta e occhiali scuri, si presentano
in perfetta uniforme da «selvaggi», quelli che mettono paura
alla gente minuta.
In Rue du Minotaure, hanno occupato uno stanzone fatiscente in cui ristagna
un tenace sentore d'urina. Questi due giovani adulti, in rotta con tutto
e tutti, esclusi fin dai primi anni dal sistema scolastico, hanno sempre
vissuto qui. La politica? Non li interessa. «Perché andare
a votare? Le Pen o Chirac, per noi non cambia nulla. I politici non vogliono
sapere che qui si vive in un ghetto. Non cercano di capire che la nostra
violenza nasce da questa situazione al limite della sopravvivenza. Solo
una volta ci hanno considerati veramente francesi: a Verdun, quando si trattava
di andare a farsi massacrare in prima linea. La Francia non accetta la sua
immigrazione, ce lo fa capire tutti i giorni. Allora, in queste condizioni,
ciascuno si fa i fatti suoi».
Said, francese di origine algerina, da cinque anni educatore a Grigny, ne
fa una questione d'onore: «Io non andrò a votare finché
i miei genitori - immigrati, vivono qui da trent'anni e pagano le tasse
come tutti - non avranno diritto di voto a livello locale. Eppure la Francia
ha spaccato loro la schiena. Nessuno si interessa a noi.
Non sono mai venuti qui prima delle elezioni, e neppure tra i due turni;
mentre siamo soprattutto noi a essere presi di mira dall'ideologia Fn. Per
farla breve, ai genitori dicono: "Chiudi il becco", e ai figli: "Parla finché
ti pare"».
Secondo il Movimento dell'immigrazione e delle banlieues (Mib) la maggior
parte dei francesi figli di immigrati che vivono nelle periferie delle grandi
città non vanno a votare e in maggioranza non sono neppure iscritti
alle liste elettorali. E, al pari dei cittadini di origine francese provenienti
dalle stesse classi sociali, manifestano una netta insofferenza per la politica
istituzionale.
In questo contesto, il trauma collettivo del 21 aprile ha fatto opera di
catarsi. Robert, animatore nel settore sportivo, ricorda l'allarme di alcuni
giovani beurs: «Era la spada di Damocle dell'espulsione: li ho visti
in preda al panico». Un vero risveglio di coscienza civile secondo
Jibril, 21 anni, di origine senegalese: «Anche se nessuno pensava
che Le Pen potesse farcela, tutti i miei amici si sono dati una mossa per
andare a votare Chirac». Il 24enne Mansour, di origine algerina, operatore
commerciale, non è disposto a dimenticare queste elezioni: «La
mattina del 5 maggio è stata mia madre a svegliarmi per farmi andare
a votare. E dire che fino a quel momento da noi non si era mai parlato di
politica». Oltre tutto, i francesi figli di immigrati, in particolare
maghrebini, non accettano più che si parli a loro nome. Nel momento
in cui il razzismo si decolpevolizza, non sopportano questa «confisca
della loro parola», che rende ancora più netta la loro sensazione
di essere cittadini illegittimi. Sta prendendo forma così una presa
di coscienza generalizzata, una riflessione sull'avvenire comune.
«Si incominciava già a sentire un fremito da qualche anno,
ma il 21 aprile ha segnato la nascita di un nuovo coinvolgimento. Il centro
di gravità dei francesi figli di immigrati si sposta nuovamente verso
la Francia, mentre prima si era perso da qualche parte, tra le due rive
del Mediterraneo», osserva Farhad Khosrokhavar, professore associato
all'Ecole des hautes études en sciences sociales (Ehess). Già
in questi ultimi mesi il conflitto israelo-palestinese, vettore di politicizzazione,
aveva cristallizzato questo nuovo slancio. La seconda Intifada e la difesa
del popolo iracheno rappresentano una lotta «rispettabile» per
i francesi di origine maghrebina, che si sentono intimamente coinvolti.
Ai loro occhi, è una «buona causa», che viene a compensare
l'immagine negativa della quale soffrono.
«Sono i miei fratelli musulmani», riassume con fierezza il 27enne
Ali, musulmano fervente, che ci confida di aver votato per il trozkista
Olivier Besancenot, al pari di molti dei suoi correligionari - perché
secondo lui, da Bir-Zeit in poi (8),
«Jospin è un sionista».
Nel contesto islamico identitario, molto radicato da queste parti, si è
avviata un'ampia mobilitazione, in parallelo con gli eventi del Medioriente.
Se tra i più giovani e gli emarginati qualcuno fa confusione tra
ebrei e israeliani, professando sentimenti anti-ebraici, sarebbe errato
denunciare globalmente un antisemitismo di massa o una deriva comunitarista.
Secondo il sociologo Azouz Begag, la maggioranza di questi nuovi cittadini
non chiede altro che il «diritto all'indifferenza»: «Anche
se alcuni si rifugiano in un islam di facciata, non sarebbe onesto parlare
di ripiegamento comunitario. I maghrebini di Francia sono per l'integrazione.
Basti pensare, a riprova, all'alto tasso di "matrimoni misti" di questa
popolazione» (9).
La sinistra governativa, bersaglio di tutte le critiche, paga lo scotto
di questa nuova radicalizzazione: la si accusa di aver strumentalizzato
i «figli dell'immigrazione» e di non aver capito la violenza,
la segregazione, l'esclusione. Ecco come si consuma il divorzio da un partito
socialista giudicato troppo pusillanime su questioni come quelle dei sans
papiers e del diritto di voto agli immigrati.
Si è superata così una barriera psicologica. Segno di integrazione,
il comportamento elettorale dei cittadini figli di immigrati tende a normalizzarsi.
Come sottolinea il sociologo Abdelkader Belbahri, ricercatore all'università
di Saint-Etienne: «Il fatto che l'elettorato di sinistra abbia votato
in massa per Chirac ha eliminato il tabù del voto a destra agli occhi
di molti francesi di origine straniera.
Tanto più che rimproverano al Partito socialista di aver sostenuto
posizioni favorevoli a Israele, ma anche di aver lasciato marcire i problemi
delle periferie, agitando al tempo stesso lo spauracchio dell'insicurezza.
Infine, la sinistra è accusata di non aver consentito ai giovani
figli di immigrati di integrarsi in campo politico. Chirac lo ha capito
benissimo, come dimostra la nomina al governo di Tokia Saifi».
Le critiche non risparmiano Grigny, feudo comunista dai tempi della Liberazione
e oggetto di rivalità tra Pc e Ps. Eppure il suo consiglio municipale
annovera cinque maghrebini, tra cui la 27enne Basma Ben Said, disoccupata,
eletta consigliere municipale nel 1995. Basma se la prende con l'elettoralismo
del sindaco: «Sono venuti a cercarmi loro, dal municipio, per attirare
i voti arabi, solo perché sono conosciuta nei quartieri. Alle ultime
municipali mi avevano promesso una carica di assessore, tanto per agganciarmi;
ma una volta passate le elezioni mi hanno scartata, a motivo delle mie origini
che secondo loro potevano dar fastidio. Ma il peggio è che i consiglieri
maghrebini sono relegati in fondo alla sala e non hanno nessun peso reale.
Viene voglia di buttarsi a destra».
Vari movimenti sorti dai quartieri si organizzano in città, sul modello
dei «Motivé-e-s» di Tolosa. «Hanno cercato di farci
credere che gli immigrati dovessero automaticamente votare Ps o Pc, ma il
tempo dei pezzenti da film neorealista è finito. Il loro solidarismo
teleguidato non ha più senso. Non siamo più disposti ad andare
passivamente dove soffia il vento», dice con amarezza Mohamed Ourzik.
Grazie al movimento protestatario informale da lui creato, più di
quattrocento persone si sono iscritte alle liste elettorali. «Siamo
un gruppo senza distinzioni d'origine, ma inevitabilmente, data la struttura
sociale della città, la maggioranza è maghrebina. Vogliamo
essere considerati cittadini a pieno titolo, per partecipare attivamente
alla vita della società.
Il nostro è un movimento di liberazione intellettuale. Abbiamo proposte
da avanzare sull'istruzione, sulla sicurezza, sulle discriminazioni e su
molte altre tematiche ricorrenti».
Mohamed Moustamid, professore di danza di origine marocchina, conferma questo
nuovo stato d'animo: «Per essere riconosciuti, bisogna essere rappresentati
politicamente. Ho quindi deciso, insieme ad altri giovani motivati, di preparare
qualcosa per le prossime municipali. Per farci sentire dobbiamo innanzitutto
essere vicini all'orecchio del sindaco».
Portando fino in fondo questa logica di emancipazione, l'associazione France
et liens ha presentato a Grigny, alle recenti legislative, una lista «black,
blanc, beur» contro Julien Dray (10),
la cui credibilità è stata intaccata dalle sue posizioni sul
tema dell'insicurezza.
«Abbiamo la sensazione di essere stati traditi. Non ci sentiamo rappresentati.
Vogliamo diventare una forza politica capace di contare nella circoscrizione,
e dare un carattere permanente alla nostra azione. Ma attenzione: il nostro
impegno non è comunitarista. Siamo per la commistione delle culture
e delle generazioni», dichiara il capolista, lo studente 26enne Farid
Diab.
A quasi vent'anni dalla famosa Marcia dei beurs (11),
una nuova generazione di francesi sta dunque prendendo coscienza della forza
che rappresenta.
Ma durerà questa sete di impegno civile? «Siamo solo all'inizio
- risponde con ottimismo Djelloul Attig, insegnante e consigliere municipale.
Ho l'impressione che si incominci a tener conto positivamente della la nostra
voce».
note:
* Giornalista.
(1) Caroline Mangez, La Cité
qui fait peur, Albin Michel, Parigi, 1999.
(2) Amar Henni e Gilles Marinet,
La Cité hors-la-loi, Ramsay, Parigi, 2002.
(3) Pierre Bourdieu, La Misère
du monde, Seuil, Parigi, 1993.
(4) I beurs sono i figli dell'immigrazione
di origine maghrebina, ndr.
(5) La legge del 1905 sulla separazione
tra Chiesa e stato vieta di registrare come criterio statistico l'appartenenza
religiosa o etnica.
(6) Norbert Elias, John L. Scotson,
Logiques de l'exclusion, Fayard, Parigi, 1997.
(7) Il 16 maggio scorso il ministro
dell'interno ha autorizzato la polizia di quartiere a utilizzare i flash-balls.
Si tratta di pistole con pallottole di gomma, che però, a seconda
dell'uso, possono anche essere mortali.
(8) Il 26 febbraio 2000, l'ex
primo ministro francese Lionel Jospin, in visita ufficiale in Israele, fece
un discorso di condanna contro gli «attacchi terroristici» di
Hezbollah. Gli studenti dell'univesrità di Bir Zeit reagirono lanciandogli
delle pietre, ndr.
(9) Nel 1999, sono stati celebrati
30.000 matrimoni misti, cioè circa il 10 % delle unioni - a fronte
del 5 % di vent'anni prima. Ad essi vanno aggiunti i matrimoni «misti»
tra francesi di diversa origine, impossibili da quantificare (Fonte Institut
national d'études demographiques, Ined)
(10) Questa lista ha ottenuto,
il 9 giugno, lo 0,9% dei suffragi espressi, piazzandosi quindi al decimo
posto su 18 liste, davanti a Lutte Ouvrière (0,8%) e Génération
écologie (0,4%). Julien Dray, nato ad Orano in Algeria, è
dal 1988 il deputato socialista della circoscrizione dell'Essonne. È
stato rieletto per un quarto mandato il 16 giugno scorso, ndr.
(11) Prima manifestazione anti-razzista
in Francia, tenutasi nel 1983, con la partecipazione di oltre 200.000 persone,
ndr.
(Traduzione di E. H.) |