cestim on line

Il deserto che uccide i clandestini

In Arizona 14 immigrati morti disidratati nel tentativo di raggiungere il sogno americano

dal nostro inviato VITTORIO ZUCCONI - WASHINGTON -

Li hanno trovati sparsi lungo il sentiero per Yuma, buttati come ciottoli sulla terra arida. Trentacinque esseri umani, bambini e uomini, immigrati clandestini messicani scaricati oltre la frontiera nel deserto dell'Arizona e poi abbandonati senz'acqua dall' orco che li aveva guidati, indicando loro le luci immaginarie e irraggiungibili della città dei sogni. Sono morti di sete in 14, sul treno umano per Yuma, lungo un sentiero che nemmeno a farlo apposta si chiama "The Devil's Path", il viottolo del diavolo, un quindicesimo è agonizzante, gli altri 20 sono in ospedale, disidratati. Tra loro un bambino di dieci anni che il padre ha tenuto in vita bagnandogli le labbra con la sua saliva e qualche goccia di urina. Sono annegati in un deserto senza una goccia d'acqua, la bocca piena di sabbia quando le loro reni hanno smesso di funzionare, la mente che scivola via nell'ultima allucinazione, il miraggio che dietro quel cespuglio secco ci sia la skyline del sogno che li ha consumati, El Norte, l'America che vive nel terrore del maledetto clandestino. Dicono che non ci sia morte più infame di questa che divora i naufraghi del deserto, arrostiti tra la brace dell'aria e la padella del terreno rovente che tocca i 60 gradi, camminando disorientati in circolo, bevendo se stessi fino quanto le reni si bloccano e la mente vola via felice dietro il sogno, lasciandosi dietro un guscio secco come le mute dei serpenti a sonagli. Quattordici uccisi apparentemente dal deserto, ma in realtà da altri uomini, ventuno prosciugati dal sole, con le reni spossate. Niente di nuovo, niente di straordinario, dal fronte mondiale dell'immigrazione che preme contro le dighe porose dei ricchi. Il primo di loro era stato trovato per caso, da una pattuglia che frugava nella notte con il grosso riflettore sul tetto della jeep, per pescare i wetbacks, le schiene bagnate dal sudore come chiamano con disprezzo i messicani rinsecchiti che corrono per attraversare la frontiera. Quando l'agente Glen Payne lo ha visto, è rabbrividito. «Era solo un morto, uno dei due, tremila all'anno che troviamo ogni anno qui nel deserto della Cabeza Prieta, (la testa nera) e lungo il sentiero del diavolo verso Yuma», racconterà l'agente. «Ma ormai lo sappiamo: dove ce n'è uno, ce ne sono sicuramente molti altri, tutti come lui, rannicchiati sotto un cespuglio, nudi per il caldo, la mano bloccata attorno al manico di una tanichetta di plastica ormai secca da giorni, che stringono come un talismano, Arrivano sempre in gruppi e muoiono a grappoli». Nel deserto li chiamano "i figli dei coyotes". Ma i coyotes sono animali misericordiosi, rispetto ai coyotes umani che partoriscono queste tragedie, i traghettatori del deserto che si fanno pagare mille, anche duemila dollari in alta stagione, cinque milioni di lire a cabeza per caricare i desperados della miseria, portarli di notte oltre la "frontera" indifendibile dell'Arizona, mille chilometri di sabbia dura e di arbusti, e poi lasciarli promettendo di tornare subito con l'acqua per tutti. Non tornano mai e non è tornato neppure Hernan Hernandez, detto "El Negro", grande Caronte di anime perse che oggi la polizia messicana e la Border Patrol americana cercano. Ha abbandonato i suoi 35 passeggeri da qualche parte nel deserto (fate un po' il conto, almeno un centinaio di milioni di incasso, per una notte di lavoro di un "coyote") ha indicato il Nord, Yuma, ed è sparito. Uno di loro, Pepe Rincon, che ripescheranno vivo e ora sta all'ospedale di Yuma dove tentano di fargli ripartire i reni, gli ha detto: «Ascolta, Negrito, io sono un buon lavoratore, voglio solo lavorare in America, non puoi lasciarmi qui a morire». Cammina, gli ha risposto Hernandez, cammina sempre a Nord. Hanno camminato per almeno tre giorni, il massimo che un uomo possa resistere senz'acqua succhiando foglie e centillinando la proprio urina, cercando di restare uniti, di formare un convoglio, un treno umano per Yuma, e poi la disidratazione, il sole, la stanchezza hanno cominciato a staccare i vagoni. E' caduto subito il più vecchio, il primo che sarà trovato con la sua tanica di plastica vuota. Poi un ragazzo di sedici anni. Poi due che giuravano di avere visto il profilo di Yuma luccicare nella notte, nella direzione sbagliata, e saranno trovati a 30 chilometri dalla città della salvezza. Sono morti in 14, finora, dei 35 che "El Negro" aveva scaricato, il quindicesimo, Pepe, moribondo all'ospedale, gli altri con qualche speranza in più di campare. Tra di loro anche un bambino di 10 anni che il padre ha trascinato in braccio, leccandogli le labbra con la lingua per calmarlo, fino ad appena quattro chilometri dall'autostrada per Yuma, dove qualcuno si sarebbe fermato. Forse. Ma neppure la Border Patrol, il console messicano, i comandi militari, tutto l'armamentario inutile di forza e di legge e di comizi che l'America tenta di erigere contro l'alluvione quotidiana della disperazione, sanno davvero quanti fossero i figli di questo coyote, se i morti siano soltanto 14, se il totale fosse di 35 e soprattutto quanti stiano, in questo momento, remando coi piedi nell'oceano senz'acqua verso il grande sogno, un posto da bracciante, facchino di supermercato, sgorgatore di cessi e di fogne. La Border Patrol ne ha ripescati e salvati 4.300 soltanto negli ultimi due anni, spesso a poche ore dalla morte. Ma 230 muoino ogni anno, di caldo e di freddo, nei forni del giorno e nei frigoriferi delle notti nel deserto e ora arriva l'estate, la stagione alta. Vengono i giorni del sole estivo che candeggia i teschi delle vacche, spacca la terra e ha pietà dei figli dei coyotes, perché almeno li ammazza più in fretta.