ESTERI
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IL RACCONTO
Nei quartieri della rivolta
dove il nemico è la polizia

di FRANCESCO MERLO


PARIGI - Improvvisamente arriva una donna bianca e anziana che si agita contro Ahmed, un giovane nero che, con l'aiuto di un laccio emostatico, si è colorato di rosso il percorso dei vasi sottocutanei, e ora mi mostra un ghirigoro di capillari di squisito disegno. La donna gli grida con voce stridula: "Sporco negro, vattene via". Spaesato, le chiedo cosa le ha fatto quel ragazzo con i pantaloni bassi sulle natiche, e le mutande bene in vista. Ma la signora mi lancia uno sguardo d'odio: "Fatti i cavoli tuoi, io sono sua nonna". Qui i ragazzi sono tutti arabi o neri, e Kamel, la mia guida, mi dice con serietà che per cinquecento euro sono pronti a bruciare un'auto per me.

E per mille euro anche a rovesciare un camion prendendolo di peso tutti insieme: "Purché non fai foto, puoi scrivere quello che ti pare". Penso dunque che anche io come loro vivo intrappolato nel mio cemento, quello dell'ideologia, dei film e dei libri che riempiono gli scaffali delle biblioteche di Parigi. Seduto infatti su uno dei tanti piloni di calce e mattoni guardo i ragazzi che la sociologia descrive come i nuovi ribelli metropolitani, i nuovi James Dean raccontati dal film "La Haine". Ma qui non c'è nessun Cassius Clay e nessun Mohamed Dia, il topo di banlieue, il banlieusard di Sarcelles, che ha creato appunto la griffe della moda che porta il suo nome, "Dia", ed è diventato un imprenditore ricco e rispettato negli Stati Uniti, famoso per quella frase orgogliosamente tatuata in inglese sull'avambraccio destro: "Nato africano a Parigi. Nato francese a New York. Un mondo da abbracciare. Nove vite da vivere: per metà oggi per metà domani". Qui non ci sono mondi da abbracciare, i loro tatuaggi sono segni incomprensibili per me, e questi ragazzi hanno l'aria d'essere tutti spacciatori e consumatori di "shit".

Con l'aiuto di qualcuno si può comprare anche la loro benevolenza e dunque girare con qualche libertà tra i palazzi che sono tutti uguali e tutti diversi, a tre piani, a sette piani, a dodici piani, facciate decrepite con le finestre senza più colore, e qualche volta persino murate, luoghi che sembrano fatti apposta per smarrirsi. Forse oggi anche Teseo si perderebbe nei quartieri delle banlieues che, a corona, circondano Parigi e certo la minacciano, ma magari anche la proteggono permettendole di restare quel che è, una delle città più belle, più sicure e più assediate del mondo, un po' come quelle città della rivoluzione cinese che, spiegò Lin Piao, erano assediate dalle campagne, e i maoisti si chiedevano se era la campagna che avrebbe conquistato la città o se, viceversa, era la città che avrebbe conquistato la campagna.

Forse è vero che neppure "i poliziotti di prossimità", ma solo i giovani topi di banlieues sanno orientarsi tra questi anfiteatri di cemento perché fiutano la tana. Se per esempio si entra in una portineria e si attraversa l'androne, subito ci si ritrova in un corridoio basso che corre a zigzag, largo appena da farci passare due persone affiancate, e dopo un po' si sbuca da un'altra parte che però è uguale a quella di partenza, dove la strada diventa un po' parcheggio e un po' piazza. Proprio qui, in questo slargo, due anni fa, una trentina di adolescenti uccisero a pugni e a calci un padre di famiglia che si era messo in testa di difendere il figlio regolarmente sottoposto ad arroganze e vessazioni dai suoi coetanei.

Bruno e forte, una massa di capelli crespi, butteroso e impassibile, Djamel, che non deve avere venti anni, mi racconta quel linciaggio come si rievoca un pubblico spettacolo di virilità e di ragione. Per assistervi, lui si era piazzato là in fondo, contro il muro. Gli dico che io al suo posto mi sarei sentito male, tanto la cosa era trista, ma lui mi risponde con un fremito delle grosse narici e una frase che non capisco e che probabilmente significa che bisogna avere fegato o forse solo che non è un tipo da perdersi in smancerie.

Ma è appunto solo con l'archivio criminale, e con la guida di un banlieusard, che ci si può raccapezzare quando si è intrappolati nel cemento, prigionieri nel labirinto della modernità. Non è certo con la ragione di Cartesio né con quella di Weber o di Aron che ci si orienta qui a Mantes-la-Jolie, perché la ragione non è fatta per girare in banlieue. Eppure in questa "città" passo anche attraverso parchi e giardini con soffici tappeti di muschio e foglie gialle, fiori, panchine e fontane. E nel centro di La Corneuve, la città che Sarkozy vorrebbe "ripulire dalla feccia" e dove ci spostiamo nel tardo pomeriggio, il boulevard è uguale a quelli dei tanti quartieri multietnici di Parigi, con il supermercato, le lavanderie, il grande bar, la piazza, il municipio e la chiesa. Nella banlieues, in ogni banlieue, c'è una maggioranza silenziosa e operosa, ci sono piccoli commercianti, tassisti, edicolanti, impiegati, operai.

Parlo con un droghiere algerino che ha un figlio in galera: tredici anni per spaccio di eroina. Si chiama Farid ed è nato in una piccola città del sud, in pieno Sahara, vicino alla frontiera con il Marocco. Lasciò l'Algeria con la famiglia nel 1984 dopo avere lavorato come poliziotto ad Orano e come musicista. Mi racconta la sua storia e mi parla dei quattro figli, uno dei quali si è iscritto a Scienze Politiche ed è il suo orgoglio. Dice che la sua banlieue, alla quale è affezionato come a una patria, è piena di gente come lui, ricca di speranze e di progetti che troppo spesso i figli distruggono, e mi vengono in mente le generazioni dei pugni in tasca, la rabbia di vivere, i nostri indiani metropolitani, e quelli che godevano calandosi il passamontagna. Ma forse la sinistra classica non può capire questi ragazzi, e può solo equivocare: "Sono delinquenti e basta" sospira Farid.

E, lisciandosi i baffi sul viso tagliente e malinconico, parla degli stupri collettivi che qui chiamano "torunantes", dei furti, delle rapine, dello spaccio di droga, degli incendi, dei saccheggi, delle violenze nelle scuole. Poi mi spiazza con un pensiero forte che tuttavia non è un'invettiva: "L'immigrazione va assolutamente fermata, prima che sia troppo tardi. E non per quelli che emigrano. Ma per i loro figli che nascono francesi senza mai diventarlo".

Mi portano dentro una casa, al terzo piano di un altro di quei palazzi multietnici che stanno nella banlieue della banlieue, e nell'androne di nuovo ci sono i ragazzi riuniti, aggressivi e sprezzanti, uguali a quelli che ho lasciato: "Sono senza ricordi, senza nostalgie e senza l'aspirazione all'integrazione. A loro importa solo procurarsi soldi" Guardando meglio, mi accorgo infine della differenza con i quartieri più colorati di Parigi: qui non c'è l'Occidente. Ci sono le razze e le religioni, ma non ci siamo noi. Ci sono anche i "barbuti", gli integralisti che secondo Farid fanno proseliti tra i più fragili e i più sensibili e alla fine "peggio della droga" si portano via i migliori. Ci sono i futuri martiri, ma non ci siamo noi. E ci sono le malesiane avvolte in scialli e veli d'ogni forma e colore che lasciano appena intravedere i visi, sembrano le artiste di uno spettacolo esotico e il loro odore è acre e piccante. Ma non ci sono le nostre ragazze. E mi domando se davvero si può affrontare questo mondo con un sentimento paritario come quello che provo, che ho sempre provato e che anche stasera mi sforzo di provare. Persino mi vergogno un po' di me stesso quando di notte una nuova guida reclutata per rinforzo mi porta dentro un cantiere in demolizione, come quello di Clichy-sous-bois dal quale, all'arrivo della polizia, erano fuggiti quei due poveri ragazzi che poi, presi dal panico, sono finiti in braccio a un generatore elettrico: uccisi da una scarica di ventimila volts.

Il cantiere che adesso mi fanno visitare lo scaliamo come una scarpata, strisciando su per la parete, su scalini malfermi, un piano dopo l'altro, sino al tetto del palazzo che non è stato ancora demolito ma è ormai poco più di uno scheletro, con le finestre divelte e i muri che crollano e senza il quarto piano che non c'è più, e chissà dove è sparito. È un posto che, se metti un piede in fallo, sotto la suola parte una colata di terriccio, di fango rappreso e di sporcizia che rischia di trascinarti giù a precipizio. Tirando il fiato per essere arrivati in cima, vediamo una specie di hotel per clandestini: coperte per terra, un portalampade, una scarpa bucata, una pianola a manovella, un cucinino a gas. E, ancora: puzza di pipì, escrementi in un angolo, e su un materasso sventrato una copia del Corano. In fondo scorgo le sagome di un uomo e di una donna: sono una coppia di turchi. A lui mancano i denti davanti, puzza di tabacco, di alcol, di piedi e di rancore. Vorrebbe qualche sigaretta, poi si arrabbia e minaccioso ci invita ad andarcene perché aspetta qualcuno e non vuole gente "in casa". Quelli come loro sono i vagabondi per i quali forse non esiste la strada del ritorno e che hanno spazzato via la mitologia del povero buono e filosofo, del barbone poeta, del clochard. Non è facile capire come uno Stato possa assicurare loro un po' di decenza, senza utopie ma con modestia e con rispetto.

È ormai notte quando infine penetriamo a Clichy-sous-bois, la banlieue che dal 31 di ottobre sta bruciando. Come ombre i ragazzi che corrono a gruppi e spariscono dentro i palazzi. Qui non esiste il centro urbano, ci sono i soliti casermoni di cemento, pochi negozi, le strade sono dissestate. Al secondo piano di un edificio mi stupisce la totale assenza di finestre che forse è una maniera per rendere gli appartamenti inabitabili. Due ragazzi lanciano una bottiglia contro la nostra auto, lo scenario è da "Fuga da New York", dappertutto rottami e bidoni che sembrano come gli esseri umani, ma di notte a Clichy anche una mente piena di buone intenzioni si può perdere nei labirinti del bene e del male. Qui il fuoco è quel che l'acqua è per Venezia, si vedono solo fiamme, si sentono le sirene, qualche urlo, musica e botti. Andiamo ancora dentro, finché ci ferma la polizia. Mi ritirano la patente, guardano la tessera di giornalista, vogliono che l'indomani io mi presenti al commissariato. Per prudenza e per avvedutezza anche la mia guida si lascia perquisire, ma finalmente capisco dal suo sguardo cos'è un banlieusard. Il mite Kamel infatti li avrebbe strangolati volentieri con le sue proprie mani. Scopro così che anche il mio Kamel odia i poliziotti, i preti e anche "i barbuti" che definisce "spioni di Allah". Anche lui, a 25 anni, è un sognatore e un matto. Forse diventerà un violento.

(5 novembre 2005)