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07 novembre 2005
La voce delle periferie
«Gridiamo ai nostri figli: ora smettetela»
Il dolore di Samira, tunisina di Francia. E un'accusa: «I ragazzi delle banlieue sono stati provocati»
MANTES LA JOLIE (FRANCIA) - La giornata inizia bene per Samira: anche questa notte la sua vecchia Simca beige è arrivata indenne al mattino. «E' il primo pensiero che mi attraversa la testa quando mi sveglio - dice -. Il secondo è che preferirei non dover uscire». Invece si copre i capelli grigi con un ampio chador giallo oro, abbottona il lungo cappotto color tabacco ed esce. Sale in macchina, deposita la borsa di finto coccodrillo nero, in basso, sul tappetino del passeggero: «E' più prudente», spiega, ma non ce ne sarebbe bisogno. E infine avvia il motore della sua vecchia utilitaria che scivola per le strade di Val Fourré, il quartiere a più alta densità maghrebina di Mantes-la-Jolie, 50 chilometri a nord est di Parigi, inquieto satellite della capitale: «Qui abbiamo tutti origini altrove. Chi in Tunisia, come me. Chi in Marocco o in Algeria, chi in Senegal, e perfino in Turchia. Ma siamo tutti francesi, anch'io ho la nazionalità francese. I miei sei figli sono nati qui».
Il tono della sua voce sale, come si stesse rivolgendo direttamente al ministro dell'Interno francese, Nicolas Sarkozy: «Perché ha parlato in questo modo dei nostri ragazzi? Perché li ha trattati da rifiuti dell'umanità? Ha messo la polizia contro i giovani e i giovani contro la polizia, ha gettato benzina sul fuoco». D'accordo, ma a bruciare sono le scuole, le auto, i fast food dei loro stessi quartieri. La Simca di Samira costeggia la carcassa annerita di quella che forse, fino a qualche sera fa, è stata una Uno, evita un cassonetto rovesciato e semi-carbonizzato, supera l'impronta lasciata da un'altra macchina bruciata e rimossa: «I ragazzi sbagliano, lo sappiamo. Ma non sono tutti delinquenti. Venerdì scorso, alla moschea, l'imam ha gridato nel microfono di dire ai nostri figli di smetterla». Eccola la moschea di Val Fourré, grande, rosata, nuova, tempestata di telecamere: «Il sindaco ha annunciato che le metterà in tutta la città», borbotta Samira. Ma la moderna chiesa di San Giovanni Battista non è monitorata. O non ancora. «L'imam ha ragione - la donna segue il filo dei suoi pensieri -. Lo abbiamo ascoltato tutti in silenzio. Alla fine della preghiera noi mamme ci siamo fermate a discutere davanti all'ingresso. Alcune dicevano che bisogna fermare i ragazzi. Altre erano furiose per quello che è accaduto alla moschea di Clichy.
Sa, vero, che cos'è successo? La polizia ha lanciato i lacrimogeni, ci sono donne che sono rimaste intrappolate, hanno respirato i gas e poi hanno vomitato. Che cosa succederebbe se noi facessimo lo stesso davanti alla chiesa?». I suoi quattro figli maschi sono grandi, sposati e autonomi: «A casa - prosegue Samira -, sono rimaste soltanto le due femmine. La più giovane è handicappata. Insomma, è molto più bassa della norma. Io ho paura. Ho paura per me, ma soprattutto per loro. Vorrei che tutta questa violenza finisse. E' una scemenza. Ma bisogna dire tutta la verità: i giovani delle periferie sono stati provocati». Un ragazzo nero, con il cappuccio della felpa tirato fino a coprire gli occhi, striscia lungo il muro della massicciata della ferrovia, di fronte al commissariato, chiuso come una fortezza. Non si capisce se abbia più paura chi sta dentro o chi sta fuori. Samira ha fretta di rientrare: parcheggerà la vecchia Simca sempre nello stesso posto. Finora le ha portato fortuna.
Elisabetta Rosaspina
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