Intervento
del dott. Antonio Stivanello,
responsabile del Ser.T. 2 di Padova
Quando
diciamo che l’ambiente influenza le persone diciamo una cosa ovvia. Nel Magreb
i giovani non si drogano prima di tutto perché la droga non c’è, ma anche
perché non hanno l’occasione di pensarci, hanno ben altre preoccupazioni che
non il ricercare lo sballo. È poi chiaro che, tutte le volte che una società
vive una grande crisi, l’uso delle sostanze
stupefacenti crolla. Nella nostra società il rischio di cominciare ad
usare sostanze stupefacenti c’è, come pure quello di ammalarsi di A.I.D.S.,
ma noi operatori non possiamo certo vietare a qualcuno di drogarsi, possiamo
tutt’al più dirgli che la droga gli fa male.
La
prevenzione, oggi, funziona abbastanza bene e abbiamo pochissimi nuovi casi di
trasmissione del virus H.I.V., purtroppo ne avvengono ancora diversi in carcere,
anche se dà fastidio che questo si sappia.
Il
carcere è l’unico posto dove non si possono distribuire siringhe, perché è
risaputo che in carcere nessuno si droga: avete mai sentito che ci sia droga nel
carcere? Assolutamente no!? Si possono, allora, dare le siringhe? Assolutamente
no!?, perché, altrimenti, bisognerebbe ammettere che in realtà la droga c’è.
Voi
sapete che in carcere non circola il denaro; l’eroina viene comprata
scambiandola con l’oro, oppure facendo caricare il denaro sul conto corrente
di chi la vende: questo problema, delle “transazioni”, lo affrontiamo, o
no!?
Altro
problema è costituito dagli extracomunitari, nei cui confronti non abbiamo
alcun tipo di preparazione, così li lasciamo completamente allo sbando, con
delle mistificazioni totali riguardo all’assistenza nei loro confronti.
Quando
Schifano dice che questi vanno con le tossiche... ma cosa dovrebbero fare?!
Vengono qua, l’unica cosa che riescono a fare, se gli va bene, è di spacciare
hascisc; non hanno un posto dove possono dormire, tranne nelle case di via
Anelli, dove trovano gli alloggi più costosi della città: ovviamente, dietro
questa situazione, ci sono interessi di marketing che coinvolgono più gli italiani che gli stranieri. Chiarito ciò,
dobbiamo cominciare a verificare alcune cose: queste persone ci sono, quindi
dobbiamo occuparcene seriamente, da subito.
Il
problema principale è costituito da quelli che sono il Italia illegalmente,
perché per lo straniero regolarmente residente a Padova, l’unica cosa da
stabilire è se deve occuparsene Schifano al Ser.T. 1, oppure io al Ser.T. 2.
Per
chi invece non è in regola, l’unico modo di essere seguito è quello di
finire in carcere, perché qui ha lo stesso trattamento di ogni altro detenuto.
Per quanto riguarda il carcere, il Ser.T. sta facendo un lavoro di coordinamento
tra i vari servizi territoriali, con il progetto Teseo, al fine di migliorare la
qualità degli interventi.
Finora
non abbiamo una casistica importante riguardante gli stranieri regolari, per
quanto riguarda le situazioni di tossicodipendenza: a drogarsi sono quasi sempre
i clandestini, anche se ci sono dei figli di stranieri, anche nati in Italia,
che hanno quasi vent’anni e che rientrano nei normali parametri di rischio
degli altri giovani italiani.
Gli
immigrati irregolari si possono distinguere in due grosse categorie, lasciando
da parte il fenomeno della prostituzione, sul quale andrebbe fatto un discorso
particolare: quelli che arrivano in Italia per cercare un lavoro e non lo
trovano e quindi finiscono per occuparsi di attività illegali, e quelli che, già
nel loro paese di origine, erano delinquenti abituali.
Questi
ultimi, anche loro, trovano in Italia una migliore condizione di vita, perché
la detenzione in un carcere italiano è senza dubbio meno dura che non quella in
un carcere nordafricano.
Molti,
però, vengono qui per trovare lavoro e, non trovandone, finiscono per diventare
la manovalanza dello spaccio della droga, ruolo che in precedenza era occupato
dai tossicodipendenti italiani. Questo lavoro di vendita sulla strada è
rischioso, spesso vengono presi, quindi meno una persona ha da perdere, più
facilmente lo accetterà.
In
poco tempo, gli immigrati hanno scalato anche il secondo livello della gerarchia
dello spaccio, quello nel quale non si vendono solo le bustine per conto
di altri, ma si preparano anche, quindi si compra la droga in quantità
maggiori, la si suddivide, la si confeziona in dosi singole.
Che
il primo e il secondo livello non siano più nelle mani degli italiani lo si
verifica anche attraverso le entrate in carcere, che per gli italiani sono
sensibilmente diminuite. I clandestini, fuori dal carcere, non possono essere
assistiti dal S.S.N., come avviene per tutti i residenti. Nella nostra regione
c’è una disposizione, data dall’Assessore Braghetto, che prevede di
intervenire sulle persone senza fissa dimora, o comunque non residenti, solo per
specifiche patologie, come le malattie trasmissibili, tra cui l’A.I.D.S. e la
tubercolosi, per la tutela della maternità, compresa l’interruzione
volontaria della maternità, ed il pronto soccorso.
Per
il resto non è possibile intervenire e, quindi, non possiamo dare assistenza
sanitaria, sociale e farmacologica a queste persone.
All’interno
del carcere, l’assistenza può essere data ma, nel momento della ammissione
alle misure alternative, per i clandestini, per i clandestini non c’è nessuno
che paga le rette per il mantenimento in comunità, quindi non possono essere
accolti.
Uno
dei problemi che si sono verificati è stato quello di persone che erano in
trattamento farmacologico in carcere e, una volta usciti, hanno continuato ad
avere questo supporto farmacologico, perché avevamo provato a fare
un’iniziativa sperimentale in questo senso. Iniziativa che abbiamo dovuto
interrompere perché arrivavano extracomunitari da tutta l’Italia a chiedere
l’assistenza, visto che eravamo i soli a dargliela.
Abbiamo
provato anche a contattare gli altri Ser.T. e abbiamo verificato che il solo
tipo di intervento che loro fanno è la somministrazione di farmaci non
sostitutivi, quindi una terapia disintossicante breve della durata di tre
giorni, poi chiudono la cura.
La
sola possibilità, che i clandestini hanno, di farsi curare è che qualcuno
paghi per loro perché, senza residenza, nella nostra regione non viene
rilasciato il libretto sanitario e, senza questo, le A.S.L. non sono tenute a
dare prestazione, tranne gli interventi di pronto soccorso e di prevenzione che
dicevo prima.
Per
quanto riguarda la cura dell’A.I.D.S. non è prevista la somministrazione
degli antiretrovirali, che costano milioni ed il cui uso creava qualche problema
alle A.S.L. Detto questo, all’interno di ogni Ser.T. ci sono situazioni
particolari, ad esempio casi nei quali l’extracomunitario esce dal carcere
sotto terapia metadonica e questa non può essergli tolta di colpo: la continua
all’esterno a scalare, fino ad esaurimento. Non è possibile, invece, che un
clandestino arrivato dalla strada riceva il metadone rivolgendosi al Ser.T. e
questa regola è valida per tutta l’Italia.
Un
altro problema è costituito dagli extracomunitari che rimangono in carcere per
un lungo periodo e prendono la residenza presso l’Istituto: quando sono
scarcerati, questa residenza rimane, oppure scompare?
Perché,
se rimane, allora hanno diritto a tutte le prestazioni, dal ricovero nelle
comunità terapeutiche agli interventi a bassa soglia. A Padova succede che la
residenza decada automaticamente, perché il Comune ha fatto questa scelta, non
vuole avere centinaia di pazienti che escono dal carcere e vanno a gravare sui
servizi pubblici: gli basta avere i residenti, come assistiti.
È
solo un discorso economico, quindi, ed a livello puramente economico va
affrontato, senza falsi pietismi. Se in Italia questi extracomunitari ci sono,
con loro abbiamo tre possibilità: la prima è quella di eliminarli, cioè di
espellerli tutti; la seconda è quella di fare in modo che in Italia non vengano
affatto, facendo in modo che nei loro paesi d’origine il livello di vita
si innalzi e loro non abbiano più convenienza ad emigrare; la terza è
quella di inserirli nella società italiana, con gli stessi diritti e le stesse
regole di qualsiasi altri cittadino.
L’immigrato,
che arriva in Italia per lavorare ma questo lavoro non lo trova, finisce
inevitabilmente nel mondo della criminalità e poi nel carcere. All’uscita dal
carcere. Per lui sarà ancora più difficile trovare lavoro e più facile che
riprenda a spacciare, perché se non ce l’ha fatta prima ad inserirsi, come
volete che ci riesca adesso, da pregiudicato!?
Però,
tra la scelta di ritornare nel paese di origine, portando con sé il fallimento
del proprio progetto di emigrante, e quella di rimanere il Italia, è più
facile la seconda. C’è poi la questione della loro nazionalità, perché
spesso gli stranieri danno falsi nomi e anche falsa nazionalità, perché non
vogliono far sapere alle autorità del loro paese di provenienza che sono finiti
nei guai con la giustizia italiana.
Abbiamo
dei dati significativi sulla presenza degli stranieri nella Casa Circondariale
di Padova, dove risulta che sono molto di più degli italiani e, tra loro, la
maggio parte sono tossicodipendenti, quindi il commettere reati e l’uso degli
stupefacenti è per loro strettamente commesso.
Riguardo
alla loro età, risulta che gli stranieri sono molto più giovani rispetto agli
italiani. Questo, probabilmente, dipende dal fatto che nel loro paese non erano
tossicodipendenti, ma lo sono diventati in fretta, quando iniziano a spacciare,
perché le bustine gli passano costantemente in mano. Non corre lo stesso
rischio chi la droga la commercia all’ingrosso, lui non la tocca nemmeno;
invece che sta al livello più basso deve confezionarla, convincere
l’acquirente della sua “bontà” e finisce, quasi per forza, per provarla.
Se
guardiamo alla suddivisione degli stranieri detenuti in base alla regione
geografica di provenienza, vediamo che al primo posto c’è l’Africa
settentrionale, poi c’è l’Europa dell’est, poi l’Africa occidentale.
Tra gli africani, la maggior parte sono tossicodipendenti, mentre
tra gli europei la situazione è capovolta: la maggior parte è
costituita da non tossicodipendenti.
Questo
accade perché si sono suddivisi il mercato: ai nordafricani la droga, agli
europei dell’est la prostituzione. Allora è più facile che si dichiari
tossicodipendente chi viene preso con una bustina in tasca, anche se non è in
realtà tossicodipendente, perché così facendo evita una pena maggiore,
rispetto a chi viene fermato per reati legati alla prostituzione, che magari usa
pure la cocaina, ma non si sogna certo di dichiarare la sua condizione di
tossicodipendente quando viene arrestato.
Per
gli italiani che entrano in carcere, abbiamo dati differenti: la maggior parte
dei tossicodipendenti italiani fa uso di eroina, ce n’è una parte che usa
hascisc e cocaina, mentre le anfetamine sembra che non le usi nessuno. Tra i
tossicodipendenti c’è un aumento delle politossicità: eroina ed hascisc
insieme; eroina e cocaina; cocaina ed hascisc; eroina, metadone e cocaina.
Per
quanto riguarda gli stranieri, la differenza più sostanziale è che molto pochi
di loro usano il metadone all’esterno del carcere, perché non gli viene dato,
a meno che non trovino il modo di comprarlo.
Il
Ser.T. si sta attivando, sul territorio, per fare interventi specifici rivolti
agli stranieri clandestini?
Il
problema del Ser.T., nel rapporto con gli stranieri irregolari, è che non è
autorizzato ad occuparsi di loro; quindi loro verrebbero al Ser.T., ma siamo noi
operatori a dirgli di non venire, perché per loro non possiamo fare nulla. Per
quanto riguarda gli interventi di riduzione del danno, a Padova c’è il
camper, cogestito da noi assieme alla Croce Rossa, che distribuisce siringhe e,
quando richieste, dà informazioni. Si tratta però di un intervento davvero a
bassissima soglia, per quanto riguarda gli stranieri clandestini: gli italiani,
se lo chiedono, possono essere aiutati ad uscire dalla tossicodipendenza;
perlomeno è possibile indicare loro le vie da intraprendere per essere aiutati
in questo, mentre con i clandestini ciò non è possibile, quindi non posso dire
che il Ser.T. si sia fatto carico del loro problema.
Come
viene fatto il trattamento metadonico a chi entra in carcere da
tossicodipendente?
Quando
si tratta di un tossicodipendente italiano, oppure di uno straniero regolarmente
residente, non esiste alcun problema a fargli iniziare una terapia metadonica,
sia che fosse già in trattamento all’esterno del carcere, sia che debba
iniziarla in carcere.
Invece,
quando si tratta di uno straniero clandestino, cerchiamo di evitare di dargli il
metadone, perché se fosse scarcerato dopo pochi giorni non potremmo proseguire
la terapia all’esterno. Naturalmente si fanno le eccezioni del caso, ma la
regola è questa e si tratta sempre di una questione esclusivamente economica.
Sarebbe difficile pensare a un diverso modello, perché le amministrazioni non
dispongono di risorse infinite e devono decidere a chi destinarle.
Ufficialmente
ogni persona detenuta ha diritto a ricevere le stesse cure, nella realtà questo
non avviene e, questa situazione, non è destinata a cambiare con il primo
gennaio 2000, quando la cura dei tossicodipendenti detenuti passerà sotto le
competenze delle A.S.L.: non credo che cambierà, perché ci sarà sempre il
problema che, se i clandestini vengono scarcerati, nessuna A.S.L. li prende in
carico e paga i costi relativi alle loro cure.
Secondo
lei, le terapie metadoniche di mantenimento hanno un senso, cioè sono efficaci
come strumento di cura?
Io
ritengo che il metadone sia un farmaco e che vada usato in alcune situazioni
specifiche: ha pochissime controindicazioni, da un punto di vista strettamente
farmacologico. L’uso del metadone s’inquadra in un discorso di riduzione del
danno, e qui bisognerebbe capire se intendiamo ridurre il danno rispetto alla
persona, oppure rispetto alla società.
Se
è rispetto alla persona, significa che ci deve soprattutto importare che in
paziente smetta di usare l’eroina, così evita di prendere l’A.I.D.S.
se
questo paziente, poi, commette una rapina e finisce in carcere, non significherà
affatto che in nostro obiettivo di riduzione del danno sia fallito. Se invece
come riduzione del danno intendiamo un maggiore controllo sociale, quindi ci
poniamo un obiettivo di riduzione della microcriminalità, allora il metadone
diventa uno strumento premiale e dovremmo darlo solo ai pazienti che promettono
di non commettere più reati. In questo ultimo caso dovremmo parlare di politica
sociale e non di politica strettamente sanitaria, legata alla somministrazione
del metadone.
Poi
succede anche che i nostri pazienti, insieme al metadone, usino cocaina ed
hascisc, perché il metadone li fa andare in depressione e devono in qualche
modo sostenersi. Ma, se il problema fosse solo questo, significherebbe che
l’operatore ha sbagliato il dosaggio, che avrebbe dovuto darne di più al
paziente: il metadone non è nato come farmaco disintossicante e richiede una
lunga terapia con alti dosaggi e un lento scalaggio, per arrivare alla
disintossicazione. Il punto è che, se non vogliamo usare il metadone in maniera
premiale, allora dobbiamo usarlo come farmaco e prescriverlo come tale.
Ci
sono anche persone che, aldilà della temporanea depressione, non hanno alcuna
identità e quindi preferiscono avere un’identità da tossici che non averne
alcuna. È probabile che abbiano iniziato ad usare l’eroina per avere questa
identità ed a loro il metadone serve come connotazione del fatto che sono
tossici, se glielo tolgo si scompensano, perché appunto si ritrovano senza
un’identità.
Ci
sono pazienti che dichiarano di usare l’eroina e la cocaina come autoterapia
per combattere la depressione, altri che usano l’eroina anche durante la
terapia metadonica, ma senz’altro sono molti di meno, da quando abbiamo
fissato a sessanta milligrammi la dose di partenza della terapia a scalare;
quando questo limite era fissato a trenta milligrammi, quasi tutti continuavano
ad usare l’eroina.
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