Gli
ambiti del razzismo e della discriminazione
tratto
da: Rete d’urgenza contro il razzismo. Relazione finale (1 settembre 1998 - 1
ottobre 1999).
In
questa sezione ci si occuperà degli ambiti in cui maggiormente si sono
verificati gli episodi di violenza o di discriminazione a sfondo xenofobo o
razzista riportati alla Rete, analizzando alcuni casi specifici e indicando le
strategie che sono state adottate dalla Rete.
Più del 20% dei casi rilevati ha riguardato problemi relativi all’ingresso, al soggiorno, alla libera circolazione e alla cittadinanza (molti di questi hanno riguardato l’ultima regolarizzazione ancora in corso; circa la metà ha riguardato questioni legate all’accesso alla casa, al lavoro, all’istruzione e a beni e servizi). Un po’ meno del 20% dei casi ha riguardato problemi con le forze dell’ordine e nel campo della giustizia e poco più del 10% dei casi ha riguardato problemi fra privati cittadini.
Guardando
ai dati nell’ottica del razzismo istituzionale, dei sessantuno casi qui presi
in considerazione, trentotto hanno riguardato o sono avvenuti all’interno di
istituzioni pubbliche, e ventitré hanno riguardato episodi all’interno di
luoghi di lavoro, di locali pubblici o fra privati cittadini.
Discriminazioni
da parte delle Istituzioni nell’ambito del soggiorno e della cittadinanza[1].
Le
informazioni raccolte attraverso l’attività di sportello ed i racconti dei
diretti interessati, ma anche le segnalazioni pervenute da operatori che in vari
ambiti lavorano a contatto con cittadini stranieri, danno l’impressione che le
pratiche discriminatorie da parte di alcune amministrazioni costituiscano non
un’eccezione, ma una vera e propria prassi.
La
prima causa di ciò è la legislazione in materia: lacunosa e spesso
contraddittoria attribuisce agli stranieri presenti sul territorio del nostro
Paese, anche se regolari, una ridotta capacità di tutela dei propri diritti,
moltiplicando gli adempimenti burocratici e lasciando eccessivo spazio alla
discrezionalità dei diversi enti, se non dei singoli impiegati. In alcuni casi
vi è stata, da parte dell’amministrazione, una precisa volontà
discriminatoria. Vogliamo qui segnalare alcuni problemi.
Regolarizzazione
A
seguito dell’emanazione della L. 40 del 1998 che ha in parte innovato la
disciplina dell’immigrazione dagli stati non facenti parte dell’Unione
Europea e le norme riguardanti la condizione giuridica dello straniero, il D.
p.c.m. del 16 ottobre 1998 ha previsto la possibilità di regolarizzare la
propria posizione per gli stranieri che fossero in grado di dimostrare la
propria permanenza in Italia nel periodo anteriore al 27 marzo 1998, data di
entrata in vigore della legge, e che si fossero presentati entro il 15 dicembre
1998 ai locali uffici della Questura. Gli interessati dovevano inoltre
dimostrare di possedere tutti gli altri requisiti normalmente necessari per il
rilascio del permesso di soggiorno – per lavoro, autonomo o subordinato o per
coesione familiare – concretamente richiesto.
Nel
caso in cui i richiedenti fossero stati in precedenza oggetto di espulsione
amministrativa, la regolarizzazione era subordinata alla revoca di tale
provvedimento da parte del Prefetto.
Il
D. p.c.m. del 16 ottobre 1998 lasciava amplissima discrezionalità circa la
procedura da seguire per ricevere le domande di regolarizzazione ai competenti
uffici presso le Questure e prevedeva il rilascio di un numero limitato di
permessi (38.000), giustificando l’adozione di pratiche restrittive.
Si
procedeva in questo modo: a chi si presentava entro il 15 dicembre 1998 presso
l’ufficio stranieri della Questura, munito di un documento di identità e di
un elemento di prova della propria presenza sul territorio italiano in data
anteriore al 27/3/1998, veniva dato un appuntamento per una data successiva, in
cui presso gli appositi sportelli istituiti in uffici decentrati, doveva essere
perfezionata la domanda. In quest’occasione veniva poi dato un ulteriore
appuntamento per ritirare l’esito della domanda.
Inizialmente,
nonostante il D.p.c.m. prevedesse come unico termine perentorio quello del 15
dicembre 1998, ed una circolare del 30/10/98 affermasse che “il giorno in cui
è richiesta la prenotazione vale quale data di presentazione”, a chi si
presentava in un giorno successivo a quello fissato veniva senz’altro negata
ogni possibilità di presentare domanda di regolarizzazione.
Anzi,
in alcuni di questi casi allo straniero, che pure era in possesso di tutti i
requisiti per ottenere il permesso di soggiorno, veniva notificato il decreto di
espulsione: una prassi palesemente illegittima, ma interrotta solo dopo una
serie di annullamenti da parte del Pretore.
La
materia è stata poi disciplinata nei dettagli da un susseguirsi di circolari
ministeriali, spesso applicate e rese note con ritardo, finché il d. legs. n.
113 del 23/4/1999 (pubblicato il 27 aprile 1999) non ha eliminato il tetto
massimo di permessi concedibili e la circolare del Ministero dell’Interno del
10 maggio 1999 non ha imposto un’interpretazione del dettato normativo volta a
favorire l’accesso alla regolarizzazione.
Tali
interventi, però, in quanto tardivi, hanno finito per provocare indubbie
disparità di trattamento tra chi si è recato a presentare la domanda di
regolarizzazione prima della modifica legislativa e chi lo ha fatto in una data
successiva.
Inoltre
in alcuni casi il danno causato dall’applicazione restrittiva precedente non
è più rimediabile: a Torino non è stata accettata come prova della presenza
in Italia prima del 27/3/98 la corrispondenza ricevuta, considerata invece
ammissibile dalla circolare del 10/5/99, impedendo così ad alcuni la stessa
presentazione della richiesta entro il 15 dicembre e relegandoli in condizione
di illegalità. Ugualmente, in assenza di disposizioni in tal senso, nella
nostra città è stato deciso di non consentire il perfezionamento della domanda
dopo il 18 marzo 1999. Il Tribunale Amministrativo ha accolto un ricorso sul
punto, ma non pare che gli uffici della Questura ne abbiano tenuto conto in
quanto precedente.
Problemi
sono sorti sui documenti di identificazione, per cui quelli rilasciati da alcuni
Paesi non venivano considerati validi e si procedeva a fotosegnalazione
dell’interessato.
Inoltre
in un primo periodo non sono state rese note le modalità per richiedere al
Prefetto la revoca di eventuali precedenti provvedimenti espulsivi, molti anzi
non sono stati neppure informati della necessità di presentare una richiesta ed
hanno quindi dovuto procedervi in un momento successivo, con conseguente –
ulteriore – ritardo nel rilascio del permesso.
Da
notare infine la lentezza con cui la procedura si sta svolgendo, per cui
frequentemente nel giorno stabilito per il ritiro degli esiti viene comunicato
che sono ancora in corso accertamenti e consegnato un invito per una data
successiva: se a volte i tempi si allungano nell’interesse del richiedente,
che viene ammesso a presentare integrazioni, più spesso, come nella situazione
che precede, si tratta di ritardi e disfunzioni degli uffici. Ciò comporta
numerosi problemi specie nel caso in cui i datori di lavoro abbiano necessità
di perfezionare il rapporto in tempi rapidi.
L’intervento
della Rete è stato diversificato a seconda del tipo di problemi da affrontare.
Innanzitutto,
data la situazione di confusione ed incertezza un compito fondamentale è stato
quello di raccogliere segnalazioni ed informazioni tra le varie associazioni
aderenti e di farle circolare.
La
presenza dello sportello ha dato invece la possibilità di fornire agli
interessati informazioni sui propri diritti e di affrontare direttamente alcuni
casi: in una circostanza si è chiesto l’intervento del difensore civico,
mentre altre volte è stato sufficiente accompagnare lo straniero presso gli
uffici della Questura. Tale procedura del resto ha dato modo di verificare come
l’atteggiamento dei funzionari cambiasse in presenza di un cittadino italiano.
Da notare al proposito un altro particolare inquietante: ci è stato riferito
che presso lo sportello appositamente istituito dalla Questura per lo
svolgimento delle pratiche di regolarizzazione non era possibile entrare
accompagnati da un avvocato di propria fiducia.
Per
alcuni casi più complessi è stato invece necessario ricorrere ad assistenza
legale.
Acquisto della cittadinanza italiana
È
da segnalare che, nonostante la legge nulla preveda in tal senso, una circolare
prevede quale requisito per ottenere la cittadinanza italiana, per gli stranieri
regolarmente soggiornanti da almeno 10 anni nel territorio dello Stato, un
reddito minimo ed un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Diverse
persone si sono rivolte a noi lamentando come, nell’attuale situazione del
mercato del lavoro, il soddisfacimento di tale requisito sia estremamente
difficile, specie per chi non avendo, appunto, la cittadinanza italiana, non può
concorrere a impieghi pubblici.
In
effetti tale disciplina, contenuta ancora una volta solo in una fonte di rango
secondario, è lesiva della dignità e dei diritti dei cittadini stranieri, e
che subordina di fatto ad un criterio di censo l’ottenimento della
cittadinanza e l’esercizio dei relativi diritti.
Discriminazioni
nel lavoro.
Molti
problemi sono stati registrati anche nell’ambito del lavoro, ambito in cui è
utile fare alcune distinzioni.
Un
primo problema riguarda le condizioni di lavoro delle donne impiegate come
collaboratrici domestiche: spesso i contratti di lavoro non vengono registrati,
gli orari di lavoro non vengono rispettati, le mansioni modificate e, dato che
frequentemente questi rapporti includono anche vitto e alloggio, notevoli
quantità di denaro vengono trattenute dagli stipendi. Inoltre, spesso, si
creano situazioni ricattatorie e di forte pressione psicologica in cui il datore
di lavoro impone condizioni di lavoro che limitano fortemente la libertà
individuale. Tre casi ci hanno particolarmente colpito.
Il
primo è quello di una donna ghanese, assunta a 25 ore settimanali come
assistente ad un anziano e impiegata dodici ore al giorno, incluso il sabato,
alternativamente in casa o come operaia nella piccola fabbrica dei datori di
lavoro. Quotidianamente insultata con riferimenti alla sua provenienza al
termine del rapporto di lavoro; chiedendo un giorno di tempo prima di firmare un
documento di cui non capiva il significato, è stata aggredita e spinta dalle
scale, cosa che le ha provocato gravi contusioni. In questo caso la Rete ha
indirizzato la signora al sindacato, dove è stata aperta una vertenza per il
rapporto di lavoro e il mancato pagamento delle ore lavorate; è stato inoltre
nominato un avvocato che la seguirà nella causa per l’episodio di violenza.
Il
secondo caso riguarda una donna romena, in Italia da alcuni anni, regolare dal
1996, ma col permesso di soggiorno scaduto dal 1998. La ragione del mancato
rinnovo del permesso di soggiorno è che la signora, fra il gennaio 1997 (data
di scadenza del suo permesso) e il dicembre 1998 (tempo utile per fare la
regolarizzazione) non è mai stata autorizzata ad allontanarsi dalla casa della
famiglia presso cui era impiegata. In due anni di lavoro (da cui si devono
escludere sei mesi del ’97 passati in Romania per risolvere alcuni problemi
personali), la signora non aveva mai avuto le chiavi di casa e non le era mai
stato dato un regolare stipendio. Il suo lavoro era in teoria retribuito, ma una
parte le veniva trattenuto per il vitto e l’alloggio e il resto le veniva dato
sotto forma di beni oppure a piccole cifre per volta: poteva fare una lista
delle cose di cui aveva bisogno e la padrona di casa le acquistava per lei e
quando aveva bisogno di contanti, per esempio di centomila lire, lo doveva
chiedere alla padrona di casa, la quale decideva che magari gliene dava solo
cinquanta. Anche in questo caso il sindacato ha aperto una vertenza; un avvocato
sta cercando di aprire un procedimento per la questione relativa al permesso di
soggiorno.
È
chiaro che in casi come questi andrebbero cercate soluzioni di tipo più
generale come ad esempio includere nei contratti per lavoro domestico norme che
garantiscano il rispetto dei diritti peculiari di chi lavora a domicilio. La
Rete si sta adoperando per avere contatti col sindacato e discutere questo tipo
di proposta.
Anche
in fabbrica o nell’edilizia si registrano episodi di maltrattamenti o sfavori
da parte di compagni o datori di lavoro.
In
un caso, un uomo proveniente dal Marocco veniva continuamente insultato,
minacciato e aggredito da un compagno di lavoro. In seguito ad un ultimo
episodio, più grave degli altri, il signore ha fatto denuncia ai Carabinieri;
era però disponibile a ritirare la denuncia se l’aggressore fosse stato
allontanato. In questo caso, lo abbiamo aiutato a scrivere una lettera al
titolare della fabbrica in cui chiedeva che fossero presi provvedimenti al fine
di garantire la sua incolumità e lo svolgimento del lavoro. Abbiamo saputo che
dopo circa un mese l’aggressore è stato licenziato; il nostro ha ritirato la
denuncia ma ha comunque preferito lasciare il suo posto di lavoro.
In
un altro caso la denuncia veniva da un giovane di origine marocchina, tecnico
specializzato in un’industria, che alla richiesta di avanzamento di livello si
sentiva rispondere: “tu non ti lamentare, i tuoi connazionali vendono
accendini per strada”. In questo caso abbiamo scritto una lettera alla
direzione dell’azienda spiegando che quella era una frase discriminatoria.
Quindi ci siamo messi in contatto col rappresentante sindacale del giovane
lavoratore. La ditta rispondeva dicendo che il giovane era di provate capacità
professionali e che otterrà l’avanzamento di livello ad ottobre; il sindacato
sta seguendo il suo caso.
Un
altro grave problema è quello dell’accesso al lavoro. Abbiamo segnalazioni
sulla difficoltà di accesso, ma non esistono dati precisi sulla discriminazione
in questo ambito. Per questa ragione, per l’anno 1999-2000, abbiamo messo a
punto un progetto di monitoraggio, sia qualitativo che quantitativo, in
collaborazione con i sindacati e alcuni sportelli lavoro dell’associazionismo
torinese.
Sempre
a proposito del lavoro, è da segnalare un caso di “disattenzione” da parte
del legislatore che rischia di creare un ulteriore ostacolo[2].
L’art.
16 della legge n. 56 del 1987 prevede per le pubbliche amministrazioni
l’assunzione di personale, da inquadrare nei livelli retributivo –
funzionale per cui non è richiesto un titolo di studio superiore a quello della
scuola dell’obbligo, attraverso chiamate numeriche dalle locali liste di
collocamento. Uno dei pochi ambiti in cui questo sistema di avviamento al lavoro
ha ancora un qualche rilievo.
Il
problema se a tali chiamate potessero concorrere anche i non cittadini italiani,
generalmente esclusi da incarichi pubblici a livelli superiori, era stato
positivamente risolto da una circolare ministeriale prima e, in seguito, da un
inciso di poche parole contenuto nell’art. 9 della L. 39/90 (la cosiddetta
“legge Martelli”): dopo aver disciplinato la regolarizzazione degli
stranieri allora presenti sul territorio nazionale il legislatore prevedeva la
possibilità per i cittadini extracomunitari e gli apolidi di stipulare
qualsiasi tipo di contratto di lavoro, “secondo
le norme in vigore per i lavoratori italiani, escluso il pubblico impiego, salvo
i casi di cui all’art. 16 L. 28/2/1987 n. 56”.
Tale
norma è stata però travolta dalla generale abrogazione della legge 39/90
sancita dall’art. 46 della l.40/98, che però, disciplinando ex novo la
condizione giuridica dello straniero in Italia, ha tralasciato di intervenire su
questo punto.
Ne
risulta un vuoto legislativo, che può forse essere momentaneamente riempito
attraverso il ricorso ai principi generali sulla parità di condizioni
nell’accesso al lavoro e il riconoscimento di una prassi amministrativa ormai
costante, ma che, in assenza di un intervento del legislatore, può creare non
pochi problemi.
Infatti
siamo venuti a conoscenza di questa situazione in seguito alla segnalazione di
una giovane donna colombiana che presentatasi ad una chiamata ha trovato il
funzionario addetto che prima ha accettato la sua risposta, poi l’ha negata e
poi l’ha accettata di nuovo. Abbiamo informato la signora del “disguido”
con la speranza che le istituzioni competenti se ne siano già accorte e vi
pongano al più presto rimedio.
Discriminazioni
nell’accesso alla casa.
Trovare
casa e avere contratti equi è forse il problema più diffuso cui si trovano
davanti gli stranieri o le persone con la pelle scura nel nostro paese e quello
di più difficile soluzione. La discriminazione nell’accesso all’alloggio è
un caso di discriminazione molto denunciata ma su cui poco si è fatto. Numerose
sono state le persone, venute per altre ragioni, a dire che avevano grossi
problemi a trovare alloggio, che passavano ore a fare telefonate e che si
sentivano sistematicamente rispondere “l’appartamento è già stato
affittato”. In casi come questi è stato impossibile intervenire. È molto
difficile, infatti, far qualcosa contro chi non affitta agli stranieri,
soprattutto contro i proprietari singoli, perché bisognerebbe poter provare che
si tratta di discriminazione. Nel corso dell’anno anche i giornali hanno
riportato casi di questo genere: nell’inverno 1999 la vicenda di una famiglia
marocchina che non riusciva a trovare casa ha occupato per qualche giorno le
pagine di cronaca ed è stato risolutivo l’intervento di un gruppo di
volontari legato alla San Vincenzo; nel settembre i giornali hanno poi segnalato
il caso di una signora italiana di un quartiere benestante di Torino che ha
disdetto il contratto d’affitto a due giovani inquiline perché avevano amici
e fidanzati “negri”. Di questo caso sappiamo che si è presa carico il
gruppo del progetto della CGIL “Commissione per l’uguaglianza”.
Se
non molto è possibile fare in casi riguardanti privati cittadini qualcosa di più
sembrerebbe possibile nel caso delle agenzie immobiliari, poiché queste offrono
beni e servizi e i rifiuti ad utenti stranieri si possono contare. È proprio un
sistema per monitorare la discriminazione da parte delle agenzie immobiliari
quello che abbiamo messo a punto nel progetto che vorremmo realizzare l’anno
prossimo.
Un
altro aspetto del problema casa è quello delle condizioni contrattuali. In
molti casi infatti le condizioni contrattuali non vengono rispettate dai padroni
di casa, che per esempio non pagano spese a loro carico, non rilasciano ricevute
per gli affitti pagati, mantengono parti della casa data in affitto a loro
disposizione (un giovane ci ha raccontato del suo padrone di casa che entrava
senza preavviso, a volte si fermava a dormire o prendeva cibo dal frigo;
un’altra signora non ha mai potuto utilizzare la cantina e altri spazi del
negozio che aveva affittato). Per tutti i casi in cui è stato possibile sono
state iniziate delle cause civili o sono state seguite le cause già in corso.
Anche su questo problema delle condizioni contrattuali abbiamo messo a punto un
progetto di monitoraggio da realizzare nel corso del 1999-2000.
Beni
e servizi, istruzione.
Alcune
segnalazioni hanno riguardato l’accesso a beni e servizi. Segnaliamo qui due
particolari episodi che sono stati segnalati alla rete; altri se ne potrebbero
citare apparsi sui giornali nei mesi passati.
Il
primo episodio riguarda l’aggressione ai danni di un giovane marocchino
colpevole di aver aperto una scatola di lucido da scarpe per verificarne il
colore, ad opera del servizio di sicurezza di un grande supermercato torinese.
In questo caso abbiamo scritto una lettera al responsabile del personale e a
quello della sicurezza, cui abbiamo chiesto un incontro durante il quale sono
stati chiariti i fatti. Per volontà della vittima dell’aggressione non è
stata fatta alcuna denuncia; i responsabili dell’ipermercato con cui abbiamo
parlato si sono detti disponibili a valutare iniziative di sensibilizzazione da
attuare all’interno dell’ipermercato, rivolte sia al personale che al
pubblico più vasto.
Un
altro caso è stato segnalato da una ragazza italiana e riguardava il diniego di
accesso ad una discoteca della provincia in cui si era recata con due amici
marocchini. In questo caso, i due giovani non hanno voluto denunciare i gestori
della discoteca; da parte nostra abbiamo assistito la ragazza a scrivere una
lettera che è poi stata pubblicata sulla rubrica “Specchio dei tempi” del
giornale La Stampa.
Anche
in questo settore sarebbe necessaria la realizzazione di un sistema di
monitoraggio il più possibile esteso.
Nel
settore dell’istruzione non abbiamo avuto segnalazioni rilevanti. Vogliamo
tuttavia ricordare il problema generale del mancato riconoscimento di titoli di
studio superiori acquisiti all’estero. Questo provoca il difficile inserimento
di grossa parte della popolazione immigrata sia all’interno di corsi di studio
sia il difficile accesso a posti di lavoro adeguati. Nel caso di una ragazza
colombiana che sette mesi dopo aver richiesto la convalida di una laurea non
aveva ancora ottenuto risposta dall’Università, con gravi conseguenze per la
sue opportunità occupazionali, abbiamo chiesto l’intervento del Difensore
Civico regionale, che ha appunto il ruolo di mediare fra il cittadino e
l’amministrazione pubblica in caso di problemi legati al cattivo
funzionamento.
Forze
dell’ordine e giustizia.
In
altri casi, persone si sono rivolte a noi per denunciare episodi di
discriminazione perpetrati da parte delle forze dell’ordine o all’interno
del sistema penale.
Per
quanto riguarda le forze dell’ordine, citiamo, ad esempio, due casi. Il primo
riguarda un giovane nigeriano che recatosi a Porta Susa a prendere un’amica,
nera americana, residente a Madrid e in arrivo a Torino da Milano, è stato
fermato insieme all’amica e ha subito il sequestro dell’automobile con
l’accusa di essere un taxista abusivo. Il giovane aveva fatto ricorso al
Prefetto e aveva già un avvocato, ma voleva sollecitare l’attenzione su un
episodio che riteneva discriminatorio. In questi casi, la via scelta è stata
quella della mediazione. Nel caso del giovane nigeriano abbiamo scritto una
lettera ai Vigili competenti, chiedendo di rivedere il caso in base alle
spiegazioni forniteci dall’interessato e di considerare l’ipotesi di essere
caduti in un malinteso derivante da un pregiudizio. Tuttavia il ricorso è stato
respinto poiché, secondo i vigili, la persona sarebbe stata individuata come
taxista, grazie ad alcuni appostamenti precedenti la sera del sequestro.
Un
altro caso è quello denunciato da un gruppo di senegalesi e riguarda le
continue molestie ai danni delle persone “di colore” che passano parte delle
loro giornate in una piazza popolare di Torino. Dopo la loro denuncia,
nell’estate del 1999 è accaduto un ulteriore episodio. Un sabato mattina,
dopo che un carabiniere si era presentato in borghese a reclamare soldi, oggetti
d’oro e telefonini, un gruppo consistente di persone – essenzialmente
nigeriani – ha bloccato il traffico nella piazza e ha denunciato il
carabiniere al locale commissariato di polizia. In seguito a questo episodio la
Rete ha prima contattato alcuni dei protagonisti di questo episodio, ha quindi
contattato il Capitano della Compagnia da cui dipendeva il carabiniere in
questione anche per segnalare la denuncia fatta alla Rete nei mesi precedenti.
Attualmente sono in corso due indagini, una interna al corpo dei carabinieri,
l’altra condotta dalla polizia.
Per
quanto riguarda il sistema penale, stiamo al momento seguendo un caso piuttosto
sconvolgente. Un signore marocchino, che se ne stava seduto in un bar della
campagna piemontese, viene arrestato perché riconosciuto colpevole del furto di
un’auto da una signora entrata con la polizia in quel bar. Il signore finisce
in prigione e gli viene affidato un difensore d’ufficio che lui vede una sola
volta, al momento della nomina. Dopo un mese il giovane – che parla poco
l’italiano – nomina un altro avvocato consigliatogli da amici. Passano altri
due mesi senza vedere nessuno né sapere nulla del suo destino. A quel punto
inizia uno sciopero della fame e viene ricoverato in ospedale. Dopo aver perso
una ventina di chili, finalmente, all’avvocato da lui nominato viene
notificata la nomina e grazie al suo intervento viene predisposta l’immediata
scarcerazione. Siamo in contatto con questo avvocato e un mediatore culturale è
andato un paio di volte alle udienze. È in corso il processo per il furto
d’auto. Ora stiamo attendendo l’esito del processo, poi senz’altro
sosterremo una denuncia – in tribunale o sui giornali – per il comportamento
dell’autorità carceraria.
I
problemi relativi alla situazione carceraria sono stati approfonditamente
analizzati da un gruppo di lavoro denominato "Tavolo Giustizia" e che
fa riferimento al Comitato oltre il razzismo. In particolare è stato
evidenziato che i carcerati stranieri godono di meno diritti dei carcerati
italiani. Spesso non possono dichiarare un domicilio sicuro e quindi non possono
usufruire di benefici (es. arresti domiciliari), non possono fare telefonate dal
carcere per mancanza di personale in grado di controllare il loro contenuto, non
tutto quello che viene detto alle udienze viene tradotto ecc.
Abbiamo
ricevuto anche alcuni reclami nei confronti di avvocati. Vuoi per problemi di
comprensione linguistica, vuoi per una scarsa conoscenza delle norme relative
all’immigrazione alcune persone ci hanno segnalato la sensazione di non essere
equamente trattati dai loro avvocati. In questi casi ci siamo messi in contatto
con gli avvocati in questione e abbiamo cercato di capire se ci fossero problemi
reali o se tutto fosse semplicemente dovuto alla lentezza del sistema giuridico
italiano. Abbiamo messo a disposizione mediatori culturali al fine di aiutare la
comprensione fra avvocati e loro clienti. Più frequentemente abbiamo avuto
ragioni per rassicurare l’interessato sul fatto di essere in buone mani, in
altri casi abbiamo suggerito di rivolgersi ad altri studi legali.
Problemi
si registrano anche nei rapporti con gli avvocati d’ufficio. In particolare
sembra molto diffusa fra questi la pratica di consigliare il patteggiamento.
Come è noto, il patteggiamento è una rinuncia a far valere la propria difesa
in un processo in cambio di uno sconto di pena. Questo fatto è percepito come
profondamente ingiusto da coloro che si professano innocenti. In relazione a
questo ambito la Rete, in collaborazione con l’ASGI, sta pensando di proporre
all’Ordine degli avvocati un corso per penalisti e civilisti che lavorano con
clienti immigrati.
Privati
cittadini.
Alcune
delle persone che si sono rivolte alla Rete hanno segnalato episodi di violenza
attuata da vicini di casa o in luoghi pubblici. In questi casi spesso erano
state già inoltrate denunce di tipo penale. In questi casi abbiamo
sostanzialmente fornito consulenza legale gratuita e Abdessamad El Gazzar ha
accompagnato le persone che lo richiedevano ad udienze e incontri con avvocati.
Media.
Come
si noterà, nei nostri dati, non è monitorato il razzismo nei media. Rispetto a
questo punto esistono dei problemi di ordine pratico e di ordine etico. Per
prima cosa, l’analisi dei messaggi razzisti, o per lo meno dell’immagine
negativa della popolazione immigrata trasmessa dai media, è stata ampiamente
coperta da numerose indagini. Secondo, bisognerebbe avere le forze per sostenere
un monitoraggio ed elaborare strategie d’intervento quotidiane (es. catene di
lettere di protesta) specifiche per questo settore. Le azioni legali in questo
ambito hanno inoltre poco senso perché, a parte eventuali incitazioni alla
violenza che riguardano il codice penale, il resto attiene all’ambito della
libertà d’opinione. Pensiamo potrebbero essere utili iniziative di tipo
culturale: un corso per giornalisti è in fase di progettazione.
Politica.
Anche
del razzismo nella politica non è stato fatto un monitoraggio sistematico né
vi sono state specifiche denunce alla Rete. Ci siamo limitati a registrare
alcuni casi segnalati qua e là. Fra questi, le iniziative dei sindaci leghisti
in Piemonte.
In
alcune città del Piemonte, l’amministrazione comunale[3],
in nome della lotta all’immigrazione clandestina ed alla criminalità,
passando attraverso l’identificazione tra stranieri – regolari e non – e
delinquenti, hanno preso pubblicamente posizioni di chiaro significato razzista
ed emanato provvedimenti dal sicuro effetto discriminatorio.
Ad
Alessandria il Sindaco ha emanato nel gennaio del 1999 un’ordinanza in cui,
dopo aver indicato negli immigrati extracomunitari un pericolo per la sicurezza
e l’ordine pubblico, ha imposto di subordinare l’effettuazione di tutti i
servizi anagrafici all’esibizione di una lunga serie di documenti, tra cui,
oltre il permesso di soggiorno, il certificato penale e quello di sana e robusta
costituzione (!!!). Il provvedimento, dal chiaro intento vessatorio è stato
annullato dal Prefetto.
È
invece ancora in vigore l’ordinanza del Sindaco di Acqui che, partendo da
analoga premessa, invita tutti i cittadini a farsi delatori della presenza di
clandestini ed ordina alla Polizia Municipale di chiedere “a tutti i cittadini extracomunitari che si incontrano” i documenti
di identità ed il permesso di soggiorno. In questo caso non è stato possibile
impugnare l’ordinanza in quanto l’attività di controllo documenti rientra
nelle attribuzioni della Polizia Municipale. È stata dunque intrapresa
l’unica azione possibile: fornire aiuto e consulenza ad organizzazioni locali
che verifichino gli abusi nell’applicazione.
Sappiamo
dai giornali che situazioni come quelle descritte si sono verificate anche in
altre zone d’Italia e sono generalmente il frutto della strumentalizzazione
che alcune parti politiche operano sulla presenza degli immigrati
extracomunitari e sui pregiudizi diffusi tra i cittadini italiani.
L’intervento
in questi casi è molto delicato perché ci si trova ai limiti della libertà di
confronto politico: di fronte ad esponenti politici che disinfettano i treni su
cui viaggiano le donne di colore che probabilmente si prostituiscono, una
eventuale accusa di razzismo può ben poco.
Ciò
che invece può avere rilevanza è il sostegno a politiche che favoriscano
l’integrazione e la comprensione anche attraverso la ricerca di forme di
comunicazione che forniscano un’immagine dello straniero diversa dagli
stereotipi più comuni.
Sull’uso
di argomenti razzisti nella politica, a Torino, nella primavera 1999, da tutti i
partiti presenti a Torino, tranne la Lega, è stata sottoscritta una
“Dichiarazione dei partiti politici Europei per una società non razzista”
in cui i partiti politici si impegnano a non utilizzare argomenti razzisti in
politica. L’iniziativa, promossa dall’europarlamentare Rinaldo Bontempi, ci
è sembrata lodevole; tuttavia senza un’azione di monitoraggio tesa a
verificare il rispetto della Dichiarazione ci sembra che lo sforzo possa essere
facilmente vanificato.
Per
concludere, sembra di poter dire che anche se i nostri dati non hanno un valore
statistico tuttavia hanno un valore qualitativo. Gli episodi di cui siamo venuti
a conoscenza ci hanno dato un’idea della gamma di situazioni in cui molti
stranieri oggi in Italia vengono a trovarsi. Ci hanno anche dato un’idea del
grande lavoro che ancora deve essere fatto sia in termini di conoscenza e
definizione del fenomeno che in tema di leggi e di strategie d’intervento.