Immigrazione
e carcere
Davide Petrini - Università
di Torino
Vorrei
affrontare, in questo mio intervento, un problema un po’ particolare,
certamente meno dibattuto tra tutti quelli che attengono al tema della devianza,
della criminalità e soprattutto del controllo sociale dei cittadini
extracomunitari: la loro situazione penitenziaria.
Sappiamo
bene che vi è un gran discorrere, a livello scientifico oltre che politico e
giornalistico, sulla criminalità degli stranieri e sull’aumento dei tassi di
incarcerazione; vi sono e si contrappongono, poi, spiegazioni del fenomeno molto
diverse tra loro: alcuni mettono addirittura in discussione il dato che
mostrerebbe un aumento della criminalità rispetto ai cittadini italiani; altri,
invece, ne ricollegano le cause alla situazione di disagio in cui gli stranieri
(soprattutto se irregolari o clandestini) sono costretti a vivere; altri ancora
denunciano il verificarsi di arresti e condanne per reati c. d. «paradossali»,
cioè commessi al solo fine e scopo di regolarizzarsi e di poter emergere dalla
clandestinità, verso un vita pienamente compatibile con le regole sociali;
altri, infine, tirano in ballo la maggiore «visibilità» sociale degli
stranieri, accompagnata da una maggiore attenzione nei loro confronti da parte
delle agenzie di controllo sociale, ed in modo particolare delle forze di
polizia.
Ebbene,
vorrei provare a tralasciare queste questioni pur così importanti, che possono
essere affrontate con maggiore preparazione e competenza da altri interventi,
per riflettere sul tratto terminale della vicenda processuale e penale degli
stranieri condannati per aver commesso un reato: il loro trattamento
penitenziario.
A
fronte, infatti, della già citata scarsa attenzione che viene prestata, anche
nel dibattito sociale e politico, alla fase dell’esecuzione penale
(disinteresse, peraltro, che avvolge un po’ tutte le categorie di detenuti,
compresi quelli italiani, finché non si verifica un fatto grave che coinvolge
un condannato «eccellente», o un suicidio non smuove, per qualche giorno,
l’attenzione dei media) mi sembra che vi siano molte buone ragioni per
riflettere sulla condizione di detenzione degli stranieri extracomunitari.
Innanzitutto,
anche se si tratta di un elemento fin troppo banale, l’aumento dei tassi di
incarcerazione (che costituisce un elemento certo, meno controvertibile rispetto
all’aumento dei reati commessi da stranieri) sta producendo una profonda
modificazione nella composizione sociale del carcere: oggi, in molti dei nostri
istituti penitenziari, entrano quotidianamente più stranieri che italiani, e
tra pochi mesi la percentuale dei primi sarà superiore al cinquanta per cento
anche per ciò che riguarda le presenze in valore assoluto.
In
secondo luogo, la presenza di cittadini che parlano lingue spesso
incomprensibili ai loro custodi, che hanno abitudini e usanze (religiose,
alimentari, di culto e così via) molto diverse dalle nostre, che manifestano
tra loro problemi di convivenza e di coabitazione, pone quotidianamente enormi
difficoltà di gestione del carcere. Si potrebbe azzardare che oggi, se si
escludono le questioni relative al trattamento degli imputati e condannati di
mafia (si tratti di collaboratori di giustizia o di pericolosi criminali che
hanno rivestito un ruolo predominante all'interno di organizzazioni criminali)
il vero problema, per l'amministrazione penitenziaria, riguarda i detenuti
stranieri: essi difficilmente possono essere tenuti tutti insieme, in apposite
sezioni, perché la custodia, a Torino, per esempio, non accetta di montare la
guardia in un braccio dove nessuno è in grado di capire cosa si dicono e cosa
decidono di fare i detenuti; d’altro canto, dividere gli stranieri in ogni
sezione può rendere particolarmente difficile gestire le loro esigenze (dalla
preghiera per i musulmani, ai particolari bisogni di carattere alimentare), e
rischia, inoltre, nella drammatica emergenza di sovraffollamento che coinvolge
tutti i nostri istituti penitenziari, di produrre inevitabili atteggiamenti di
rifiuto, di chiusura e di contrapposizione negli altri detenuti.
Onestamente,
ma con grande rammarico, la direzione di un carcere come «Le Vallette» di
Torino deve ammettere di essere in grande difficoltà, dal momento che le stesse
esigenze e i bisogni di un'intera e cospicua categoria di detenuti non sono
neppure chiaramente individuabili.
E
proprio a tale proposito si pone una terza ed ultima ragione di interesse del
nostro problema: l’ordinamento penitenziario vigente, frutto della riforma del
1975 e dei successivi interventi (dalla legge «Gozzini» del 1986 sino alla
recentissima legge «Simeone» dello scorso maggio 1998) è stato pensato, sia
per quanto concerne i presupposti e le modalità del trattamento che per quanto
attiene alle misure alternative alla detenzione, per i detenuti italiani e, come
vedremo nel dettaglio, non si presta assolutamente ad affrontare in maniera
appena degna le esigenze di imputati e condannati stranieri. Ne deriva una
situazione che, ad ascoltare coloro che maggiormente sono coinvolti in attività
di sostegno e di volontariato in carcere, viene descritta come una sorta di
totale abbandono a se stessi, rispetto alle iniziative interne al carcere, nei
confronti delle occasioni di contatto con la società libera e nelle opportunità
di accesso a misure extra murarie.
La necessità di ricerche empiriche
Lo
stesso obiettivo di predisporre interventi mirati all’interno delle strutture
penitenziarie rischia di essere paralizzato dall’assenza di dati e nozioni
precise sulle caratteristiche di questa anomala, e relativamente nuova fascia di
popolazione penitenziaria. Al di là del dato numerico, è difficile capire
quale sia la loro situazione giuridica, legata alla posizione di regolarità o
di irregolarità; quanti siano definitivi, in attesa di giudizio, appellanti e
ricorrenti; quali i titoli di reato per i quali vengono arrestati o condannati;
quali gli scaglioni di pena inflitta (ad esempio: 1 mese, 6 mesi – 1 anno; 1-3
anni; 3-5 anni; 5-10 anni; 10-20 anni; più di 20 anni; ergastolo).
Soprattutto,
sembra importante poter conoscere con una certa precisione non tanto la
provenienza geografica (Marocco piuttosto che Tunisia, Albania o Romania) quanto
i percorsi, le vie che li hanno portati da una certa zona del loro Paese sino in
Italia, e poi in carcere. Dopo quanto tempo, da quando erano in Italia, sono
stati arrestati: dopo anni e anni, passando attraverso le perdita del lavoro
regolare, e poi quindi del permesso di soggiorno, dei documenti, del lavoro in
nero, sino alla vendita di spugnette, di sigarette di contrabbando e poi di
hashish? Oppure sono stati arrestati tre mesi dopo che erano sbarcati in Puglia,
per gravi ed anche feroci fatti di sfruttamento della prostituzione?
Ecco,
quando dico che sono ancora poche le ricerche, penso proprio a livelli di
approfondimento di questo tipo, e credo che il contributo che esse potrebbero
dare, anche più in generale al dibattito sulla criminalità degli stranieri,
sarebbe davvero molto rilevante.
Alle radici della disparità di trattamento
Una
considerazione è doverosa, e non credo che smentisca la precedente affermazione
di non volermi confrontare con le cause dell’aumento dei tassi di
incarcerazione dei detenuti stranieri. Penso sia inevitabile ammettere che tutti
i diversi tentativi di spiegazione abbiano una qualche parte di verità. È
certo che più stranieri, rispetto agli anni precedenti, commettono reati anche
gravi. Ma è altrettanto certo che nei loro confronti esiste una maggior
attenzione da parte delle istanze di controllo sociale; essi spesso sono tenuti
in condizioni di disagio tali da rendere quasi inevitabile il compimento di
reati «di sopravvivenza»; molte violazioni penali (delitti di falso,
violazioni di pubblica sicurezza, e così via) attengono alla voglia e alla
necessità di regolarizzarsi, di emergere, di cessare di essere un fantasma
esposto al ricatto di datori di lavoro senza scrupoli o, peggio, delle
organizzazioni criminali che cercano bassa manovalanza a buon mercato e ad alto
rischio.
A
ciò si aggiunga che, sotto il profilo processuale, le ricerche esistenti
mostrano che lo straniero ha minori possibilità di accesso al diritto di
difesa, cioè è tendenzialmente difeso meno bene. Per esempio: è molto più
spesso contumace, anche indipendentemente dalla sua volontà (per problemi di
irreperibilità), e non beneficia della sospensione condizionale per tale unica
ragione, anche in presenza di violazioni di gravità modestissima, che lo
porteranno però in carcere al primo contatto con l’autorità. Naturalmente,
anche tale condizione di inferiorità incide sensibilmente sui tassi di
incarcerazione e sulle presenza in carcere, e costituisce una inaccettabile
fonte di differenziazione, di disuguaglianza e di ingiustizia – in una parola
– nella gestione del controllo sociale e dello strumento penale in
particolare.
Infine,
per quanto concerne la condizione di imputato e l’utilizzo di misure
cautelari, anche a non voler accettare la posizione di chi ritiene che,
comunque, i nostri giudici siano più propensi a ricorrere alla custodia
cautelare nei confronti degli stranieri anche a parità di gravità del reato e
di pericolosità sociale (con un aggiramento dei rigorosi parametri di legge
imposti dal nostro codice di procedura penale), è indubbio che le misure
personali diverse dalla custodia in carcere (penso soprattutto agli arresti
domiciliari, ma anche all’obbligo di firma, all’obbligo di soggiorno, e così
via) presuppongono un inserimento sociale difficilmente immaginabile per uno
straniero extracomunitario, che spesso ha difficoltà a dimostrare qual è il
suo domicilio, e che non dispone, nella maggior parte dei casi, di una famiglia
o di conviventi che, in qualche maniera, divengano garanti nei suoi confronti
durante l’esecuzione della misura cautelare diversa dal carcere.
I limiti del vigente ordinamento penitenziario
Si
è detto che il nostro ordinamento penitenziario non è in grado di affrontare
quasi nessuna delle gravi questioni poste da una presenza massiccia di detenuti
stranieri. Cerchiamo ora di dare conto di tale affermazione, e soprattutto di
capire in quali ambiti si sostanzia il mancato rispetto di diritti fondamentali,
riconosciuti in astratto dalla legge. O, se si preferisce, tentiamo di vedere
come si concretizza la denunciata situazione di disparità di trattamento con i
detenuti italiani.
È
ben vero che l’art. 1, comma 2° ord. pen., nel fissare i principi generali
del trattamento, esclude qualsiasi discriminazione in ordine a nazionalità e
razza, ma ciò che viene in rilievo, nel nostro caso, è che non sono certo
volute diseguaglianze di trattamento, imposte per la provenienza geografica,
quanto piuttosto la difficoltà di garantire il rispetto dei diritti che lo
stato di detenzione, pur comprimendo, non esclude del tutto. In questo senso,
occorre cercare se nell’ordinamento penitenziario vi sono norme che possono
offrire qualche spunto significativo.
Un
primo aspetto importante concerne la libertà religiosa e le pratiche di culto:
l’art. 26 ord. pen., infatti, oltre a garantire, in astratto, il diritto per
tutti i detenuti a professare la propria fede, prevede la possibilità, per gli
appartenenti a religioni diverse da quella cattolica, di ricevere, a richiesta,
l’assistenza dei ministri di culto, nonché di celebrarne i riti.
Tale
previsione è poi completata da alcune norme del regolamento di esecuzione:
l’art. 55, che disciplina nello specifico le manifestazioni di professione
religiosa, e l’art. 103, relativo alle modalità di ingresso in carcere dei
ministri di culto diverso da quello cattolico.
Quanto
meno sotto il profilo teorico, quindi, non si dovrebbero verificare
discriminazioni in ordine alla fede religiosa. Il problema, peraltro, è
soprattutto di natura organizzativa: una delle principali pratiche religiose dei
mussulmani, infatti, quale il digiuno rituale durante il periodo del Ramadan –
per rifarsi ad un solo esempio – esige che gli orari della distribuzione dei
pasti siano completamente modificati, con la conseguenza che se la Direzione del
carcere è sensibile al problema, è possibile praticare il digiuno rituale
(come avviene a Torino), altrimenti no. Né esiste la possibilità di richiamare
le citate norme dell’ordinamento o del regolamento penitenziario per ottenere
il rispetto del diritto alle proprie pratiche religiose, in quanto tali norme
sono state pensate esclusivamente nella prospettiva di contatti diretti e
individuali con i ministri di culto, o al massimo di celebrazioni rituali o di
pratiche di culto occasionali, per le quali, in ogni caso, nella prospettiva
della prevalenza delle esigenze della custodia, il reg. es. impone (art. 55,
comma 3°) il limite dell’ordine e della disciplina dell’istituto.
La
libertà di pratiche religiose costituisce, almeno sulla carta, l’unico ambito
garantito esplicitamente. È vero che esiste una norma apposita, nel regolamento
di esecuzione, che concerne proprio i detenuti stranieri, ma essa si limita ad
una previsione generalissima, di difficile concretizzazione. L’art. 33 reg.
es., infatti, dispone che nei confronti degli internati e dei detenuti stranieri
si debba tenere conto delle difficoltà linguistiche e delle differenze
culturali. Sino a che punto si deve tenerne conto? E come? Attivando quali
risorse e meccanismi? E quali conseguenze dirette possono derivare, quali
ricadute sulla vita e sui diritti dei detenuti, dalla tenuta in conto di
differenze e difficoltà di lingua e cultura? La legge non lo dice, finendo per
rimanere lettera morta.
Esiste
anche una seconda parte dell’art. 55, secondo il quale devono essere favorite
le possibilità di contatto dei detenuti stranieri con le autorità consolari
del loro Paese. Si tratta di una previsione davvero un po’ infantile, che
forse potrà risultare utile se mai nelle nostre case circondariali dovesse
finire un cittadino statunitense o svizzero. Ma per un detenuto proveniente
dalla Tunisia o dalla Nigeria, il contatto con le autorità consolari pone
problemi molto peculiari. Essi, infatti, spesso non vogliono tali contatti,
nella speranza di evitare o ritardare eventuali provvedimenti di espulsione, che
presuppongono il riconoscimento della propria identità personale e appartenenza
nazionale, anche attraverso l’intervento dell’autorità consolare. E poi,
anche indipendentemente da tale circostanza, cosa potrebbe fare il console del
Marocco a Torino, per centinaia di detenuti del suo Paese, disseminati nelle
carceri piemontesi? Forse sarebbe stato meglio prevedere che le autorità
penitenziarie debbano, in ogni modo, favorire contatti con le famiglie di
provenienza nei Paesi d’origine, e non con le autorità consolari!
Pur
nella sua debolezza contenutistica, l’art. 55 reg. es. costituisce l’unica
esplicita previsione in tema di detenuti stranieri. Troppo poco davvero,
soprattutto alla luce dell’attuale composizione sociale del carcere. Vediamo
allora quali previsioni della legge risultano inadeguate, a fronte delle
esigenze dei detenuti stranieri.
Innanzitutto,
l’art. 59 reg. es. disciplina le comunicazioni dell’ingresso in istituto, ma
non prevede particolari modalità di rapporto e di informazione (ovviamente
previo consenso del detenuto) con i familiari dello straniero che risiedano nel
loro Paese d’origine.
Ancora,
l’art. 64 reg. es. prevede che i detenuti siano messi a conoscenza delle
principali norme dell’ordinamento penitenziario, del regolamento stesso e del
regolamento interno. Per rendere effettiva una disposizione di questo tipo anche
per i detenuti stranieri, non pare sufficiente disporre la traduzione dei testi
di legge e regolamentari in alcune altre lingue, e neppure la presenza più o
meno fissa di un interprete: almeno per le etnie maggiormente rappresentate,
infatti, appare indispensabile introdurre dei veri e propri mediatori culturali,
in grado di rendere meno drammatico il primo momento dell’ingresso in carcere.
Ma
il problema più grave concerne certamente i colloqui con i familiari e la
corrispondenza telefonica. Spesso, infatti, ai detenuti stranieri non è
consentito di avere colloqui con i parenti sprovvisti di permesso di soggiorno
dato che molte amministrazioni penitenziarie ritengono di non avere altro modo
per accertare l’identità e la parentela. In questo modo, si privano detenuti
di uno dei più elementari diritti, la cui violazione viene comprensibilmente
percepita come particolarmente odiosa e grave, anche perché si inserisce su una
complessiva situazione di abbandono, che costituisce la caratteristica
fondamentale della vita dello straniero extracomunitario in carcere.
Ancora
più complessa la questione della corrispondenza telefonica. Spesso si tratta
dell’unico modo per avere contatti diretti con la famiglia, rimestata nel
Paese d’origine. Il regolamento penitenziario prevede, all’art. 37, che i
contatti telefonici abbiano un ruolo sussidiario nei confronti dei colloqui di
persona con i familiari. Pertanto, proprio nel caso di un detenuto straniero con
la famiglia all’estero, il telefono potrebbe, nei limiti e con le modalità
indicate dal regolamento, costituire un mezzo di comunicazione fondamentale.
Purtroppo, però, anche in questo caso si frappongono alcuni problemi pratici:
come può la direzione accertare che l’utenza telefonica chiamata corrisponda
proprio al parente del detenuto? Considerata la difficoltà di controllare
tramite l’utilizzo di un elenco telefonico, e non avendo a disposizione un
interprete che accerti l’identità dell’utenza chiamata, il diritto di
contattare telefonicamente i propri parenti, impossibilitati a recarsi a
colloquio, non può essere esercitato in alcun modo, quanto meno in molte realtà,
dove ancora non si accetta l’autocertificazione del detenuto.
L’isolamento,
l’esclusione e l’abbandono divengono la caratteristica fondamentale della
vita del detenuto straniero che, non lo si dimentichi, è nella maggior parte
dei casi molto giovane, arrestato o condannato per reati di modesta gravità,
privo di una reale pericolosità sociale o di elevata capacità criminale.
Il trattamento penitenziario e le attività intramurarie
Anche
le iniziative trattamentali intramurarie sono piuttosto carenti: alla difficoltà
di immaginare interventi mirati (che «costano», in termini di mediatori,
interpreti, soggetti qualificati e così via) credo si accompagni una certa
rigidità dell’apparato burocratico e amministrativo, scarsamente in grado di
indirizzare su piani diversi gli interventi che sono stati pensati e
disciplinati per i detenuti italiani. Provo a fare un solo esempio: quello dei
corsi di alfabetizzazione. I corsi di istruzione a livello di scuola
dell’obbligo (come li chiama il regolamento di esecuzione all’art. 39) sono
stati pensati non tanto per i detenuti analfabeti (viste le percentuali di
alfabetizzazione nel nostro Paese), quanto piuttosto, sul modello delle 150 ore
per i lavoratori, per far conseguire la licenza elementare, ma soprattutto media
inferiore, a chi ne fosse privo. Ora, con la massiccia presenza di stranieri, si
impone la necessità di alfabetizzare, nella nostra lingua, detenuti che possono
avere gradi diversi di conoscenza scritta della loro lingua d’origine (alcuni
sono analfabeti, mentre altri possono essere in possesso del diploma di scuola
superiore) e differente padronanza (almeno orale) dell’italiano. È molto
difficile riconvertire le nostre sezioni di scuola elementare verso tale
obiettivo. Forse è impossibile, perché richiede competenze, abilità ed
esperienze che non si inventano da un giorno all’altro. E allora bisognerebbe
affiancare, in maniera del tutto autonoma, ai corsi di scuola dell’obbligo per
italiani, anche modelli modulari di alfabetizzazione per stranieri, che partano
dall’esperienza «esterna», sviluppatasi in questi anni nella società
libera, per consentire un primo intervento «trattamentale» realmente efficace.
Insisto su questo aspetto, perché un minimo di integrazione linguistica,
scritta e parlata, costituisce, anche in carcere, il punto di partenza
ineludibile per qualsiasi altro intervento. Dalla possibilità di comprendere
quali siano i propri diritti e doveri, sino all’effettivo svolgimento di
attività lavorative e professionali intramurarie, ogni ambito della vita
carceraria impone, com’è ovvio, un minimo di possibilità di parlare, di
ascoltare, di essere compresi.
L’accesso alle misure alternative e ai benefici penitenziari
Alcune
recenti ricerche svolte da studenti della Facoltà di Scienze Politiche
dell’Università di Torino hanno dimostrato come le stesse domande di accesso
ai benefici da parte di detenuti extracomunitari siano pochissime. Quelle poche,
poi, vengono ovviamente decise sulla base della giurisprudenza «ordinaria» del
Tribunale, ma il dato inquietante è la assoluta difficoltà di accesso allo
stesso organo giudicante.
Le
ragioni sono evidenti: da un lato, infatti, gioca un ruolo decisivo il minor
godimento del diritto di difesa tecnica, strumento indispensabile per sapere
(addirittura) quali misure si potrebbero richiedere e per presentare istanze che
non si scontrino con un'inesorabile pronuncia di inammissibilità (perché
presentate prima dei termini imposti dalla legge, o al di fuori dei requisiti
fattuali imposti per ogni singola misura o beneficio).
Dall’altro,
la totale carenza di risorse esterne, di carattere familiare, sociale e così
via, costituisce un pregiudizio insanabile per l’accesso a qualsiasi beneficio
extramurario, si tratti di un semplice permesso premio, che presuppone
un’abitazione (meglio se di carattere familiare) dove poter controllare il
detenuto, oppure della misura alternativa della semilibertà, che prevede tra i
presupposti di fatto la possibilità di svolgere una regolare attività
lavorativa.
La
stessa esperienza, che ho appena iniziato, come esperto qualificato presso il
Tribunale di Sorveglianza di Torino ha confermato, sia pure per ora a livello
meramente epidermico, tali risultanze: i detenuti stranieri sono veramente i
grandi assenti in sorveglianza, nonostante si tratti, come detto, di soggetti
spesso caratterizzati da una pericolosità sociale relativa.
Conclusioni
L’attuale
situazione penitenziaria dei detenuti stranieri si caratterizza per una forte
diseguaglianza di trattamento, sotto diversi profili: dalle maggiori «opportunità»
di ingresso, alla grande difficoltà di attivare proposte di intervento mirato
(scolastiche, professionali e così via) idonee a rompere l’isolamento nel
quale essi si trovano, sino al minimo accesso ai benefici penitenziari
extramurari, passando per la scarsa opportunità di esercitare i diritti
fondamentali di contatto (personale o telefonico) con i parenti.
E'
una situazione complessa, nella quale intervengono diversi fattori, dalla
inadeguatezza di una normativa che non è assolutamente in grado, nonostante
risalga a non molti anni fa, di «riciclarsi» in un carcere la cui composizione
sociale è cambiata troppo radicalmente, alla scarsa duttilità delle strutture
amministrative penitenziarie, che non costituiscono certo, come insegna la loro
storia, un’istituzione particolarmente agile ed attenta ai segnali che
provengono dalla società libera.
Anche
le forze sociali, politiche e di volontariato, sensibili ai problemi dei
cittadini stranieri, non sembrano avere colto sino in fondo l’importanza delle
questioni che si giocano all’interno del carcere, nella complessa relazione
tra flussi migratori, clandestinità, marginalità, criminalità e controllo
sociale. Forse non è ancora sufficientemente chiaro che questa relazione è
fortemente e direttamente influenzata dalle dinamiche che all’interno del
carcere si sviluppano e si amplificano, per cui, alla fine, la stessa situazione
di devianza e di delinquenza finisce per essere alimentata da un processo
perverso.
Vorrei
allora concludere con due brevi considerazioni. La prima è che, oggi più che
mai, e soprattutto per quanto riguarda i detenuti stranieri, il carcere finisce
per essere una sorta di «polmone» di devianza e criminalità, in grado di
drenare nuove forze sul mercato criminale, o quanto meno di acutizzare
situazioni di disagio e di marginalità che non troveranno alcuna altra
possibilità di inserimento sociale. L’esclusione e l’isolamento nel quale i
detenuti stranieri sono oggi inevitabilmente tenuti è il miglior terreno di
coltura per una futura ulteriore emergenza criminale, che giustifichi un nuovo,
ancora più elevato allarme sociale e di conseguenza nuovi provvedimenti
restrittivi, in una spirale inarrestabile.
Chi
abbia davvero a cuore il problema della sicurezza dei cittadini, allora, e non
ne faccia lo strumento più basso di propaganda politica d’accatto, a buon
mercato, deve convincersi che un pezzo importante della battaglia per il
rispetto della legalità si decide proprio in carcere, dove si gioca l’ultima,
importante possibilità di ricuperare un terreno comune tra detenuti (stranieri)
e società libera, un terreno comune di incontro, di confronto, di rispetto, che
può costituire l’unica base per realizzare, domani, una convivenza pacifica e
rispettosa della legalità.
La
seconda e ultima considerazione muove proprio dal tema della legalità. Non è
forse legittimo, pur senza nascondere le esigenze di controllo sociale legate
alla criminalità degli stranieri, pensare che la disparità di trattamento cui
essi sono soggetti, renda almeno parzialmente ingiusta la loro detenzione, priva
di giustificazione per quella parte di pena che essi scontano in condizioni
drammatiche di abbandono e isolamento, solo per non poter accedere, per
difficoltà delle quali non hanno alcun responsabilità, ad alcun beneficio
extramurario?
È
possibile uscire almeno in parte dalla logica che identifica le esigenze di
sicurezza dei cittadini con i meccanismi di esclusione e di neutralizzazione,
destinate a produrre solo ulteriore disagio sociale, marginalità, devianza,
criminalità?
Forse
alla base della risposta negativa, che tuttora stiamo dando più o meno
consapevolmente, vi è una considerazione molto triste, che cioè non valga la
pena di impegnarsi, di cambiare la legge, e poi lo stato delle cose, per
cittadini che non hanno futuro nel nostro Paese: sono nella quasi totalità
irregolari o clandestini, dovranno (dovrebbero) essere tutti espulsi e allora
perché preoccuparsi tanto?