Intervento
dell’avvocato Marco Paggi,
membro dell’A.S.G.I.
La
mia posizione è chiaramente una posizione di parte, al di là del fatto che
spero di conservare un certo equilibrio, ma è ovvio che mi occupo di questi
problemi “dalla parte dell’im
Io
ritengo di fare il mio dovere nella misura in cui individuo e comunico eventuali
interpretazioni che sono diverse da quelle adottate dall’autorità
amministrativa, ovviamente avendo l’onere di argomentare queste diverse
interpretazioni, se nel caso anche rifacendomi a pronunce dell’autorità
giudiziaria che, nel corso di questi anni, anche se poco note, più volte sono
state emanate in contrasto con quello che era l’avviso dell’autorità
amministrativa. Qui apro una parentesi. Personalmente sono convinto che sia poco
democratico, che sia una sorta di retaggio d’altri tempi, supporre che
l’istituzione operi sempre correttamente e bene e quindi che non abbia mai
sbagliato. Penso che sia una logica di regime, quella in base alla quale
l’istituzione non sbaglia mai: l’istituzione sbaglia “anche”, come
tutti, perché è fatta da esseri umani e questo senza che si arrivi a farle
critiche tanto ardue. Personalmente ritengo che, come avviene in altri paesi che
sono indubbiamente considerati democratici, la possibilità per soggetti terzi
rispetto alle pubbliche amministrazioni di operare anche per ragioni di tutela e
di confrontarsi, se occorre, anche in termini di contrapposizione civile, con le
prassi della pubblica amministrazione, sia funzionale a un regime democratico e
anche al buon funzionamento delle istituzioni.
In
paesi come l’Olanda, ad esempio, esistono associazioni che sono finanziate dal
governo e che si occupano di tutela degli stranieri e che si contrappongono
sempre più raramente alle istituzioni, perché sono considerati fisiologici,
normali, quotidiani; dei tavoli di confronto nell’ambito dei quali si può
ragionare sulla corretta interpretazione delle norme, al punto che il
contenzioso giudiziario diventa rarefatto, proprio perché si previene creando
occasioni di confronto, che nella maggior parte dei casi consentono di arrivare
ad una soluzione pacifica ed economica, anche in termini di tempi e dispendio di
risorse, delle problematiche applicative.
L’iniziativa
odierna è un’iniziativa senz’altro positiva, perché magari rappresenta
soltanto un bicchiere d’acqua, ma è un bicchiere d’acqua in mezzo al
deserto che c’era prima e, rispetto al nulla, anche il poco serve
senz’altro.
Peraltro,
come ha anticipato il Dott. Faramo, ci sarà poi un approfondimento sotto il
profilo della formazione: in effetti, non è semplicemente con un incontro di
mezza giornata o di una giornata, che si può pretendere di esaurire lo scibile
delle problematiche connesse alla presenza degli stranieri all’interno del
carcere.
Anche
perché sarebbe meglio avere un approccio di tipo didattico, cioè non
affrontare tanti problemi, così, a volo d’uccello, come si fa nelle
conferenze; ma affrontarli permettendo a ciascuno dei soggetti partecipanti di
acquisire gradualmente le basi degli istituti giuridici, per poi arrivare
all’esame delle questioni controverse avendo ognuno gli strumenti per
vagliarle in proprio. Questo non è ancora possibile e quindi io oggi mi limiterò
a contrappuntare alcune osservazioni fatte dalla Dott. Serrano, non per spirito
polemico verso di lei, con la quale sono in ottimi rapporti, ma per sottolineare
il fatto che, tra l’istituzione ed il punto di vista non istituzionale ci
possono essere differenze notevoli e nelle pieghe di queste differenze
potrebbero anche esserci margini di operatività per gli addetti istituzionali o
per gli operatori del volontariato. Uno dei problemi che oggi, fuori in
corridoio, mi è stato posto è che, per questi pochi detenuti bravi che si
vorrebbero reinserire, non ci sarebbe la possibilità di fargli avere un
permesso di soggiorno, anche se prima erano clandestini?
Giustamente
è stata messa in evidenza l’ingiustizia di questa impossibilità. Io torno a
dire, come dico normalmente in queste occasioni, che non mi occupo di giustizia
ma mi occupo di diritto, che sono due cose completamente diverse e che,
occasionalmente, possono anche coincidere. Io, quindi, cerco di stare sul
diritto, sia pure facendo considerazioni di ordine pratico e giuridico che
tenderebbero ad allargare i margini di operatività in determinati frangenti.
Una cosa che subito mi sento di osservare: la “sospensione”, o
“congelamento” del permesso di soggiorno. Visto che mi occupo di diritto, vi
dico che, dal punto di vista giuridico, non esiste. Non c’è nessuna norma che
dica “Il permesso di soggiorno è sospeso”. La sospensione è un istituto
che i pubblici impiegati conoscono, perché è, per esempio, una sanzione
disciplinare, oppure una misura cautelare, come la sospensione dal servizio in
pendenza di procedimenti penali per determinati delitti. Quindi, sapete bene che
la sospensione c’è quando è prevista dalla legge e non c’è quando non è
prevista.
Nel
caso del permesso di soggiorno, non è prevista nessuna sospensione del permesso
di soggiorno e invito chiunque a dimostrare il contrario: né il congelamento, né
altri termini, più o meno eufemistici, che dicono la stessa cosa. Il permesso
di soggiorno deve avere, giuridicamente, una sua continuità, oppure una
frattura che sia parimenti prevista dalla legge e basata su provvedimenti
amministrativi espressi.
Ci
può essere il caso dello straniero che non rinnova il permesso di soggiorno, ma
qui non si parla di sospensione, si parla semplicemente dello straniero che ha
l’onere, perché è suo interesse chiedere il rinnovo, di farlo e non lo fa,
per i motivi più disparati, che a quel punto sono irrilevanti.
Lo
straniero che non dimostra di essersi attivato per il rinnovo del permesso di
soggiorno, entro i sessanta giorni dalla scadenza, rientra tecnicamente nella
definizione di clandestino adottata dall’art. 13 ai fini dell’espulsione.
Quindi non c’è differenza giuridica tra il clandestino e l’ex regolare:
colui che è entrato in Italia sottraendosi ai controlli di frontiera nei modi
più disparati e che, comunque, in Italia non ha reso una dichiarazione di
soggiorno nel termine prescritto di otto giorni, o che comunque è privo di un
valido permesso di soggiorno, anche se magari è arrivato in Italia con un visto
d’ingresso valido.
Cosa
significa essersi attivato per il rinnovo del permesso di soggiorno? Significa
essersi presentato normalmente in questura per chiedere il rinnovo entro 60
giorni dalla scadenza del permesso. La qual cosa presupporrebbe che, nel momento
in cui presento la domanda, il modello di dichiarazione di soggiorno corredata
di documenti, tre fotografie e marca da bollo, la questura mi rilascia la
ricevuta, che altro non è che un tagliando che si stacca dalla dichiarazione di
soggiorno, che si rilascia allo straniero con tanto di timbro proprio per dargli
prova dell’avvenuto inoltro della domanda di soggiorno. Se trascorrono i 60
giorni e viene fermato per la strada dalla polizia è tecnicamente clandestino e
viene accompagnato in questura per l’emanazione del provvedimento di
espulsione. Teoricamente potrebbe toccargli la stessa sorte se ritorna allo
sportello dell’Ufficio Stranieri dove aveva chiesto informazioni, perché si
potrebbe sentir rispondere: “Caro signore, sono passati i 60 giorni, lei ce
l’ha la ricevuta? No? Allora si fermi un attimo, perché dobbiamo notificarle
il provvedimento di espulsione.
Questo
può capitare, anzi capita sempre più spesso: se le riviste giuridiche
pubblicano sempre più spesso sentenze che affermano la legittimità di
provvedimenti di diniego del rinnovo del permesso di soggiorno e,
conseguentemente, di espulsione nei confronti di stranieri che non hanno il
rinnovo entro i termini previsti, vuol dire che presso le questure succede
sempre più spesso che, quando uno si presenta in ritardo, non gli rinnovano il
permesso di soggiorno ma gli danno l’espulsione. Che poi, siccome siamo in
Italia, talvolta, sulla parola lo straniero sia messo in condizione di
presentare tardivamente la domanda, che aveva tentato di presentare nei termini
senza disporre di tutti i documenti necessari, succede pure.
Però,
se lo chiediamo alla Dott.ssa Marinelli, lei risponderà che normalmente si
riconosce la buona fede dello straniero che si è attivato comunque e, se anche
si presenta dopo il termine dei 60 giorni, perché gli serviva più tempo per
acquisire i documenti, la domanda viene comunque “valutata”: quindi, certe
volte viene accettata, certe volte respinta.
Ripeto,
se troviamo sentenze che dicono queste cose, vuol dire che questi fatti
succedono, salvo poi che talune questure operino in un modo e talune in un altro
e salvo poi che, rispetto a quello che sa il dirigente dell’Ufficio Stranieri,
l’operatore dello sportello operi in piena conformità. Anche perché
l’operatore è un poliziotto, che ha una preparazione molto più superficiale
rispetto a quella che ha il funzionario dirigente, ovviamente, perché magari,
fino all’altro giorno, ha fatto un servizio di ordine pubblico negli stadi e
quindi riceve, comprensibilmente, un’informazione schematica delle pratiche
che vanno presentate in questura e, quando si presenta un problema che non
rientra pedissequamente in uno dei formulari tende a dire: “Non lo so, torna
quando avrai tutto quello che c’è scritto nel formulario”.
Ecco,
allora, che abbiamo stranieri che non commettono nulla di illecito, cioè
semplicemente gente che non è in grado di dimostrare documentalmente che ha un
alloggio dove paga l’affitto, perché, se abita in una casa dove il
proprietario l’affitto glielo fa pagare in nero, perché non vuole pagare le
tasse e fare la denuncia dei redditi e si rifiuta di fargli un contratto, lui
come fa?
In
teoria, dovrebbe dichiarare sotto la sua responsabilità che vive in quella
casa, che ha le chiavi, che si può chiedere ai vicini di casa che abita lì da
anni; potrebbe anche dimostrare che paga l’affitto, però se non ha il
contratto registrato l’operatore allo sportello gli dice di tornare quando ce
l’avrà.
Non
lo può portare, il contratto registrato; al massimo può fare una causa per
dimostrare che paga l’affitto e, dopo tre anni, portare la sentenza, ma nel
frattempo è diventato clandestino. Problemi di questo genere sono all’ordine
del giorno nelle questure e permettono a voi di non stupirvi quando,
dall’istituzione carceraria, si chiede se un permesso di soggiorno può essere
rinnovato, o meno, e molte volte non si ottiene una risposta.
Ho
fatto questo prologo per spiegare che problemi di applicazione delle norme ci
sono anche fuori della realtà che stiamo considerando adesso; a “maggior
ragione” si pongono anche nel nostro caso, perché non ci si può aspettare
che l’autorità di polizia favorisca l’integrazione degli ex detenuti:
compito dell’autorità di polizia è semmai quello di “sfoltire” il più
possibile. Anche se poi c’è un malinteso: creare dei clandestini non vuol
dire liberare la nostra società dai soggetti devianti, semmai vuol dire il
contrario, cioè spingere o incentivare il mantenimento nella devianza di
particolari soggetti. Anche se poi la maggiore efficienza delle norme
sull’immigrazione potrà consentire un alleggerimento rispetto alle figure
considerate più pericolose. La legge Martelli prevedeva espressamente che,
anche l’autorità carceraria, potesse provvedere in nome e per conto del
diretto interessato per quanto riguarda le pratiche di soggiorno, però a causa
dell’equivoco normativo e interpretativo di cui ho parlato prima, fintanto che
non è intervenuta la sentenza della Corte Costituzionale si riteneva che gli
stranieri non potessero neanche presentare domanda di rinnovo in carcere, perché
sussisteva una circostanza ostativa alla richiesta di rinnovo.
Oggi
invece, anche se il Testo Unico non ci dice nulla, possiamo affermare che lo
straniero sicuramente può chiedere il rinnovo del permesso di soggiorno fino a
che sta in carcere; beninteso, il rinnovo del permesso che aveva già.
Perché
il “famoso” clandestino, arrestato alla frontiera, o comunque arrestato
all’interno del territorio ma privo del permesso di soggiorno potrà, a certe
condizioni, ottenere un permesso per motivi di giustizia finalizzato
all’espiazione della pena e alla rieducazione, ma non potrà certo
stabilizzare, per il solo fatto di essere detenuto, la propria posizione in
Italia. D’altra parte, se bastasse farsi mettere in galera per regolarizzarsi,
lo farebbero proprio tutti: ci sono reggimenti di stranieri che verrebbero in
Italia a prendere a calci negli stinchi i poliziotti, per farsi mettere in
carcere e per potersi poi regolarizzare.
Non
possiamo certo immaginare che questo sia un percorso a regime per regolarizzare
la posizione di soggiorno: quindi, teniamo distinta la condizione di chi era già
regolarmente soggiornante in Italia, con un soggiorno di tipo stabile, perché
se viene arrestato uno che ha il permesso di soggiorno per turismo, per analoghe
ragioni non si può pensare che poi possa stabilizzare la propria posizione in
Italia. Il permesso per turismo è destinato a cominciare e a finire, senza
possibilità né di proroga, né di trasformazione in permesso di soggiorno di
altro tipo; ha carattere transitorio, come quelli per affari, per visita a
parenti, per attività sportive, motivi di culto, etc. Il permesso di soggiorno
di tipo transitorio non può mai trasformarsi in un permesso di soggiorno di
tipo stabile.
L’unica
eccezione è quella del matrimonio con cittadina o cittadino italiani: in questo
caso non ci sono problemi perché, comunque, ci sarebbe un diritto soggettivo a
entrare in Italia, quindi a maggior ragione c’è a rimanerci. In tutti gli
altri casi dobbiamo tenere distinta la posizione di chi aveva un permesso di
soggiorno prima di essere detenuto da quella di chi non ce l’aveva.
Mi
fermo un attimo sul problema della competenza dell’Ufficio Matricola: l’art.
5, comma 2, del Testo Unico prevede che il permesso di soggiorno deve essere
richiesto, secondo le modalità previste nel Regolamento di Attuazione, al
Questore della provincia in cui lo straniero si trova entro otto giorni
lavorativi dal momento dell’ingresso nel territorio dello stato. È rilasciato
per le attività previste dal visto d’ingresso o dalle disposizioni vigenti:
come vedete, il permesso di soggiorno è sempre corrispondente al visto
d’ingresso, non può mai essere diversa. Il Regolamento di attuazione può
prevedere speciali modalità di rilascio, relativamente ai soggiorni brevi per
motivi di turismo e questo perché i tempi delle questure per il rilascio dei
permessi sono lunghi e spesso superano quelli della durata stessa del soggiorno
prevista nel visto d’ingresso.
Il
visto Shengen prevede tre mesi, non prorogabili, ma chi arriva in Italia e,
entro otto giorni, si presenta in questura e chiede il permesso di soggiorno,
riesce ad ottenere la ricevuta della dichiarazione di soggiorno, ma il permesso
normalmente non è pronto in tre mesi, per cui in questura gli dicono: “Gira
pure con questo, non farti neanche vivo per cercare il permesso di soggiorno,
perché non lo faremo neppure”.
Questo
dal punto di vista pratico, poi il Regolamento di attuazione probabilmente
disciplinerà la possibilità, per questi soggiorni brevi, di provvedere in via
alternativa con la semplice dichiarazione di soggiorno.
Il
Regolamento di Attuazione può prevedere speciali modalità di rilascio anche
per soggiorni per motivi di giustizia, di attesa di emigrazione in altro stato e
per l’esercizio della funzione di ministro del culto, nonché per soggiorni in
ospedali, case di cura, istituti civili e religiosi e altre convivenze.
Tra
le “altre convivenze” potremmo certo annoverare l’istituzione
penitenziaria, che nella legge martelli era espressamente considerata. D’altra
parte, non credo fosse necessaria una norma espressa, perché se uno è in
galera e non può venire fuori, si deve presupporre che tutti gli adempimenti
amministrativi che è suo diritto, o dovere, svolgere, li debba svolgere
attraverso l’Ufficio Matricola, perché questo ufficio è il terminale
amministrativo della vita di ogni detenuto.
Se
un italiano può fare, attraverso l’Ufficio Matricola, tutte le sue pratiche
amministrative; ad esempio, se vuole sposarsi, è attraverso questo ufficio che
chiede le pubblicazioni; se vuole un certificato, lo chiede attraverso
l’Ufficio Matricola.
Lo
stesso è per lo straniero, non c’è ragione di pensarla diversamente: questo,
nella misura in cui determinati adempimenti per lo straniero sono un diritto, o
addirittura un dovere, che non ha alcun modo di esercitare se non attraverso
l’Ufficio Matricola. Poi, purtroppo, la cattiva informazione, non dovuta
peraltro a malafede o a cattiva volontà, ha fatti sì che fino ai giorni nostri
sia stato trascurato il problema delle competenze specifiche relative agli
stranieri. Come ho detto prima, tra l’Ufficio Matricola e le celle ci sono
svariati cancelli e poi non è neanche detto che l’ufficio venga a sapere
dell’esistenza di certi problemi, perché se lo straniero chiede alla guardia
che sta in corridoio, il cui compito non è certamente quello di fare da ufficio
informazioni, può darsi che si senta rispondere “non so, ma provo a chiedere
all’Ufficio Matricola”, come pure “non mi risulta che lei debba fare
queste cose”.
Parimenti,
senza fare torto agli agenti, è successo con operatori come assistenti sociali,
educatori, volontari, che addirittura entravano in carcere per occuparsi
soltanto di stranieri. Quindi con persone che, pur avendo tutta la buona volontà
di questo mondo, non avevano la possibilità di dare informazioni corrette da
questo punto di vista.
Questo
perché neanche le questure non avevano un’idea precisa e si sono chiarite le
idee solo con la sanatoria, quando solo arrivate, poche, le domande di
regolarizzazione e le questure si sono regolate navigando “a vista” ed hanno
risposto come hanno ritenuto di rispondere. Non dobbiamo vergognarci di niente,
perché la realtà non è una cosa vergognosa e non è neanche colpa degli
operatori se è andata così. Non sto facendo polemica, sto solo spiegando perché,
finora, la casistica è stata così rarefatta e, d’altra parte, l’incontro
odierno ha anche lo scopo che la casistica non sia più rarefatta, ma sia tutta
quella sia deve essere considerata e in modo appropriato. Finora, appunto, è
successo che queste pratiche arrivavano per caso all’Ufficio Matricola, con il
risultato che le questure hanno potuto dire: “Caro signore, la sua domanda di
rinnovo del permesso di soggiorno, solo oggi presentata, dopo che lei è
detenuto da cinque anni, e dopo che il suo iniziale permesso di soggiorno per
lavoro è scaduto da quattro anni, la sua domanda è tardiva e, quindi, si nega
il rinnovo del permesso di soggiorno.
Il
termine esatto è di sessanta giorni dopo la scadenza del permesso, o di trenta
giorni prima della sua scadenza?
C’è
un termine, di trenta giorni prima della scadenza, che è un termine
ordinatorio, cioè si consiglia allo straniero di chiederlo prima di avere la
speranza di ricevere un nuovo permesso entro la scadenza di quello vecchio. Il
fatto di non avere un permesso pronto, ma solo la ricevuta, può essere un
problema per tanti aspetti della vita dello straniero, perché se io vado a
chiedere la residenza anagrafica, l’iscrizione all’U.S.S.L., l’iscrizione
al Collocamento, ho una serie di problemi perché non ho il permesso di
soggiorno pronto come documento.
Quindi,
in pratica, si consiglia allo straniero di chiedere il rinnovo del permesso
trenta giorni prima della sua scadenza, ma il termine veramente perentorio,
quello che comporta come sanzione possibile l’espulsione, è quello dei
sessanta giorni dopo la scadenza. Con questo non sto dicendo che lo straniero può
chiederlo al 59° giorno, anzi che devono normalmente chiederlo al 59° giorno
dopo la scadenza: quando faccio consulenza, dico: “Trenta giorni prima che il
vostro permesso scada presentatevi in questura con tutti i documenti e, dopo
aver attentamente valutato che ci siano tutti i requisiti per chiedere il
rinnovo, perché quelli che non ci sono vanno trovati. Quindi abbiamo un termine
ordinatorio, a trenta giorni prima della scadenza, ed uno perentorio, a sessanta
giorni dopo la scadenza del permesso di soggiorno.
Quindi,
se ci accorgiamo che è appena scaduto, lo possiamo ancora rinnovare?
Lo
prendiamo per i capelli fino al 59° giorno, solo che non è simpatico dover
correre per raccogliere i documenti necessari all’ultimo momento.
Senza
lavoro, si può rinnovare il permesso di soggiorno?
Il
caso specifico dei documenti non è stato preso in considerazione dalla
normativa, perché dal punto di vista elettorale si è ritenuto di non dover
individuare una sezione specifica alle norme sugli stranieri detenuti.
Questo,
purtroppo, spiega perché non abbiamo una normativa capillare e perché certi
problemi dobbiamo tentare di risolverli in via interpretativa, la qual cosa è
scandalosa perché quasi tutti i problemi giuridici che abbiamo in Italia per i
cittadini vengono normalmente e spesso risolti in via interpretativa. Il Testo
Unico ci dice che lo straniero che, al momento del rinnovo del permesso di
soggiorno, si presenta sprovvisto del lavoro, può rinnovare l’iscrizione al
Collocamento per almeno un anno, dopodiché non ci dice che cosa succede.
Verosimilmente, però, c’è da capire che, a regime, potrà essere rifiutato
il rinnovo del permesso di soggiorno. Questa, però, è una norma di carattere
generale che non tiene conto della casistica, che non è poi solo la casistica
dei detenuti.
Proviamo
ad immaginare un caso molto semplice: una straniera che si presenta per il
rinnovo del permesso di soggiorno e non sta lavorando, ma spiega: “Non lavoro,
perché mi sono coniugata con un cittadino italiano; lui lavora ed io accudisco
i figli”. In questo caso si dovrà applicare pedissequamente la norma e
rifiutare il rinnovo del permesso di soggiorno? Credo proprio di no.
Altro
principio generale del nostro ordinamento è la forza maggiore, perché le cose
impossibili non le può fare nessuno: se uno che è detenuto e, con tutta la
buona volontà, non trova lavoro, non può essere sanzionato per questo
soltanto. D’altra parte è anche vero che l’espulsione, come conseguenza di
condanna definitiva per delitti, non è più competenza dell’autorità di
polizia, in base a quella giurisprudenza della Corte Costituzionale ed oggi alla
formulazione del Testo Unico. Di conseguenza, o lo dice l’autorità
giudiziaria, che questo signore se ne deve andare fuori, oppure questo signore
in astratto ha diritto di rinnovare il suo permesso di soggiorno. Se non ha
potuto lavorare per circostanze di forza maggiore è chiaro che, quantomeno fino
al termine della pena, dovrà essere prorogata la posizione di soggiorno.
Questa
è un’interpretazione: se poi, un domani, interviene una circolare del
Ministero dell’Interno, perché io qui voglio spiegare che le norme non sono
mai assolutamente pacifiche ed anche le opinioni, che siano mie, della
dottoressa Serrano, o anche del ministro, non sono mai neanche loro
assolutamente pacifiche: questa è la realtà con la quale dobbiamo fare i
conti, anche se non è comodo.
Se
un domani viene fuori una circolare del Ministero degli Interni che dice: “Gli
stranieri detenuti non possono rinnovare il permesso di soggiorno se non
dimostrano di lavorare all’atto della domanda di rinnovo o se, concesso il
termine di iscrizione al Collocamento per un anno, non iniziano un rapporto di
lavoro nemmeno entro questo termine”, intanto questa è una disposizione
ministeriale che vincola gli uffici gerarchicamente sottoposti e, quindi, le
questure, di fronte a una circolare del genere, di sicuro non rinnovano il
permesso di soggiorno.
Poi
bisognerà vedere se quella posizione ministeriale è una posizione legittima,
cioè conforme ad una corretta interpretazione delle norme e, questo, non lo
stabilisce più il ministero, ma lo stabilisce la magistratura e non sarebbe la
prima né l’ultima volta che, rispetto a posizioni assunte in maniera
convintissima da parte dei vari ministeri, la magistratura dica: “Ci dispiace
tanto, ma il ministero ha sbagliato”.
In
questa situazione, nella quale non ci sono disposizioni che impediscono
espressamente il rinnovo, di fronte invece a disposizioni che lo consentono come
uno strumento a regime, io non posso che propendere per l’obbligo, per gli
uffici, di recepire materialmente la domanda di rinnovo e di trasmetterla alla
questura, fermo restando che comunque non è l’Ufficio Matricola che decide
sul rinnovo del permesso o sul rifiuto di rinnovarlo, né può decidere sulla
sussistenza dei presupposti per la domanda di rinnovo. In altre parole, se lo
straniero si presenta e decide di inoltrare una richiesta di rinnovo,
l’Ufficio Matricola, a mio avviso, non ha alternative, la prende e la manda
all’ufficio competente.
Ma
se questo straniero non lavora, come gli viene rinnovato il permesso di
soggiorno?
Il
fatto che non abbia lavoro, in carcere, quindi per causa di forza maggiore, non
impedisce il rinnovo e, a maggior ragione, non è impedito nel momento in cui
c’è una misura alternativa che prevede il lavoro, perché appena possibile lo
straniero si è attivato per lavorare, quindi sulla rinnovabilità non avrei
dubbi. Qualche problema in più ci può essere , e lo riconosco, sul titolo in
base al quale può essere rinnovato il permesso: se aveva un permesso per lavoro
e poi è stato detenuto, lo può rinnovare per motivi di lavoro, oppure per
motivi di giustizia, ma comunque valido per svolgere attività di lavoro
subordinato.
La
prassi, finora invalsa da parte delle questure, è stata quella di rinnovare, o
di rilasciare, questi permessi di soggiorno in funzione dell’espiazione della
pena, per motivi di giustizia. Questo permesso di soggiorno per motivi di
giustizia, in realtà, non è previsto dalla legge: la legge prevede un permesso
di soggiorno per motivi di giustizia finalizzato all’esercizio di tutela
giurisdizionale, in senso attivo e passivo, quindi come imputato, come parte in
causa o come parte civile. Non è previsto, invece, per questa casistica. Se
poi, comunque, quel permesso di soggiorno gli consente di lavorare finché è
sottoposto a misura e poi gli consente di riprendere il vecchio permesso di
soggiorno quando cessa la misura, se anche la questura è contenta, che non lo
chiami permesso per motivi di giustizia, ma lo chiami pure permesso per motivi
di divertimento, che fa lo stesso.
Il
problema potrebbe essere quello di un eventuale rifiuto, alla scadenza del
permesso di soggiorno per motivi di giustizia, del rinnovo del permesso di
soggiorno per motivi di lavoro, perché si dice: “No, tu adesso ce l’hai per
giustizia, non posso più dartelo per lavoro”. Il problema potrebbe essere
quello del titolo, quindi, perché alcune questure potrebbero dire: “Lei,
adesso, ha un permesso per motivi di giustizia, quindi glielo rinnoviamo per
motivi di giustizia, se ha le condizioni, altrimenti non possiamo più
cambiarlo. Per questo, dicevo che non esiste un permesso di soggiorno per motivi
di giustizia: perché, alla fin fine, la dichiarazione di soggiorno è un atto
proprio della persona, in fondo c’è la sua firma, e quella persona può
scriverci quello che vuole. Talvolta si assiste anche alla correzione
“d’ufficio”, della dichiarazione di soggiorno, da parte della questura,
che modifica il motivo originariamente indicato dall’interessato e, questo,
francamente, non mi sembra lecito.
Perché
io chiedo un permesso di soggiorno per questo titolo, sulla base di questi
documenti, ed ho diritto ad avere dalla questura una ricevuta che testimoni che
ho fatto la domanda e la questura ha il dovere di darmi una risposta, scritta e
motivata, in ordine alle ragioni per le quali s’intenderebbe rifiutare quel
titolo richiesto.
Quindi
io chiedo, se prima avevo un permesso per motivi di lavoro, la proroga per
motivi di lavoro, perché lo stesso permesso si chiede e si proroga anche allo
straniero disoccupato. Nella prassi delle questure, invece di scrivere
“permesso di soggiorno per motivi di lavoro”, in certe questure, si scrive
“in attesa di occupazione”.
La
questura non me lo vuole dare per lavoro: si prenderà la briga di fare un
provvedimento scritto e motivato, in lingua conosciuta, avvertendomi sulle
modalità e i termini di impugnazione, io poi deciderò quello che sarà da
decidere. Perché? Perché se io chiedo un permesso di soggiorno per motivi di
giustizia, si potrebbe perfino pensare che ho rinunciato al soggiorno per
lavoro: è un ragionamento perverso, questo, ma per pensarle tutte, si deve
pensare anche a questo. Quindi, io credo che, a questo mondo, ognuno fa la sua
parte: lo straniero chiede il rinnovo del suo permesso di soggiorno, quello che
aveva già, poi la questura decide se rinnovarglielo, o meno.
Certo,
se la questura decide di rinnovarlo per motivi di lavoro, ciò non toglie che,
quando saranno scadute le condizioni di soggiorno per motivi di giustizia, io
abbia più argomenti per chiedere di ripristinare il permesso per motivi di
lavoro. Quindi io consiglierei di chiederlo sempre per il motivo per il quale
era stato rilasciato in precedenza.
Quanto
può durare “l’attesa di lavoro”?
L’attesa
di lavoro, per un soggetto libero e che quindi può andare a cercarsi un lavoro,
può durare al massimo un anno. Se lo straniero al momento del rinnovo del
soggiorno, è occupato, nessun problema, il rinnovo avviene senza questioni; se
invece è disoccupato, gli si rinnova comunque il permesso di soggiorno per un
periodo non superiore ad un anno, perché per un anno può rimanere iscritto al
Collocamento, se poi non trova lavoro si capisce, anche se non c’è scritto
nel Testo Unico e, forse, sarà scritto nel Regolamento di Attuazione, che potrà
essere rifiutato il rinnovo del soggiorno, salvo che non sussistano poi altre
condizioni.
Il
problema interpretativo che rimane aperto è per le convivenza tra marito e
moglie, per chi ha figli, per chi vive di rendita, perché ci può essere anche
quello che ha avuto un infortunio sul lavoro, quindi non lavora più perché non
può più lavorare e prende la pensione dall’I.N.A.I.L.
Il
permesso di soggiorno viene dato per motivi di giustizia quando lo straniero,
normalmente, ha già ottenuto una misura alternativa alla detenzione, cioè su
provvedimento del Magistrato di Sorveglianza. Io, finora, non ho visto permessi
di soggiorno per motivi di giustizia rinnovati durante la detenzione, perché
non si riteneva, sbagliando, fosse necessario garantire una continuità del
permesso di soggiorno anche durante la detenzione. Si riteneva avvenisse questo
“congelamento”, che nessuna norma di legge prevede, né per i detenuti in
attesa di giudizio, né per i detenuti definitivi.
A
meno che ci sia la misura di sicurezza dell’espulsione già irrogata in
sentenza, perché allora, se con sentenza lo straniero è sottoposto ad
espulsione, salvo riesame da parte delle autorità competenti, in quel caso sì:
l’unico titolo che potrebbe avere è il soggiorno per motivi di giustizia.
Se
c’è un caso in cui il soggiorno per motivi potrebbe essere azzeccato è
quello del detenuto condannato con sentenza definitiva che ha disposto la misura
dell’espulsione e quindi che, fino a un provvedimento di segno opposto del
Magistrato di Sorveglianza, non potrebbe rinnovarlo per il titolo precedente.
Tenete comunque conto che, nella maggior parte dei casi, la misura
dell’espulsione non viene inserita in sentenza, per due motivi: il Magistrato
non si cura tanto di questo aspetto afflittivo ed i magistrati, come del resto
le questure, come tutti quanti, hanno ritenuto fino a poco tempo fa che
l’espulsione dello straniero fosse competenza dell’autorità amministrativa
e non dell’autorità giudiziaria e questo spiega perché, nelle sentenze
vecchie soprattutto, anche di fronte a reati gravi, oggettivamente: io non so,
di fronte a un pluriomicidio io ci schiafferei senz’altro l’espulsione a
fine pena, salvo possibilità di riesame.
Poi
è chiaro che la misura di sicurezza dell’espulsione non c’è mai quando si
tratta di sentenze patteggiate, perché il patteggiamento non ammette mai
l’applicazione di pene accessorie e di misure di sicurezza, quindi il
patteggiamento di sicuro non presenta questo problema, come non presenterà il
problema del riesame da parte del magistrato di sorveglianza.
Possiamo
immaginare il percorso “virtuoso” di quei pochi immigrati che prima avevano
un permesso di soggiorno, vengono incarcerati, dimostrano un buon comportamento,
ottengono la misura alternativa, quindi ottengono il permesso di soggiorno per
motivi di giustizia per svolgere un lavoro subordinato e, normalmente, il
rapporto di lavoro subordinato ha validità fino al termine del permesso di
soggiorno. Perché occupare lavoratori immigrati sprovvisti di valido permesso
di soggiorno, o comunque di valida autorizzazione al lavoro, è un illecito, non
gravissimo, ma comunque un illecito, da parte del datore di lavoro.
D’altronde,
il contratto di lavoro non potrebbe avere una validità temporale superiore al
fine pena, in quanto si sorregge, come contratto a tempo determinato, proprio
sulla funzione rieducativa della pena. Quindi, il datore di lavoro sarebbe, non
solo legittimato, ma tenuto, in linea teorica, a risolvere il rapporto di lavoro
alla scadenza, perché non ci sono possibilità lecite di mantenerlo in atto.
Che poi il datore di lavoro se la senta di rischiare, perché non soggetto a
sanzioni gravissime, è un altro paio di maniche.
Questo
percorso virtuoso, però, non riusciamo ad immaginarlo nel caso dei clandestini,
cioè di chi è stato incarcerato senza aver prima un regolare permesso di
soggiorno. In questo caso, cosa si può fare perché la domanda che molti
operatori mi pongono è questa: abbiamo un detenuto che è un modello d’uomo,
un ragazzo bravissimo, magari incarcerato per reati banalissimi, che ha tanta
voglia di fare, ma lo stesso magistrato di sorveglianza dice: “Cosa gli dò a
fare una misura alternativa, se poi gli dò soltanto delle illusioni, perché
quando è finita la pena lui se ne deve andare, perché è clandestino e quindi
soggetto ad espulsione.
Io
non ho la possibilità di tirare fuori conigli dal cilindro e fare un miracolo,
però mi viene in mente una possibilità, che per il momento suggerisco
sottolineando che si tratta solamente di una possibilità, soggetta a verifica,
quindi di un percorso eventualmente sperimentale.
Ci
sono due ipotesi, nelle quali è prevista la possibilità di convertire il
permesso di soggiorno ad altro titolo, in permesso di soggiorno stabile per
lavoro.
Voi
sapete che, annualmente, il Governo dovrà adottare un provvedimento di
programmazione dei flussi migratori, che dovrà stabilire sostanzialmente,
ripartendo per aree territoriali, quanta gente potrà, e a quali condizioni,
venire in Italia per motivi di lavoro, oppure per ricerca di lavoro, altro
istituto che comincerà ad operare per il 2000.
L’autorizzazione
per motivi di lavoro viene data sul presupposto che qui in Italia ci sia un
datore di lavoro che abbia già deciso di assumere quello straniero, e che
quindi chiede di essere autorizzato ad avviarlo al lavoro.
Questo
è un modello, è quello che abbiamo conosciuto fino ai nostri giorni, che è
stato migliorato dal testo unico perché la procedura per l’autorizzazione
alla chiamata dall’estero è stata semplificata. L’istituto alternativo è
quello, totalmente nuovo e ancora non collaudato, dell’autorizzazione
all’ingresso in Italia per ricerca di lavoro, cioè lo straniero non arriva in
Italia già munito di un contratto di lavoro, viene in Italia per cercare
lavoro, a condizione però che vi sia un garante qui in Italia, che può essere
un privato cittadino italiano, ma anche uno straniero regolarmente soggiornante,
oppure può essere un ente pubblico, o un’associazione che sia riconosciuta.
Il
Regolamento di Attuazione ci dirà quali requisiti siano previsti a carico di
questi soggetti perché siano considerati garanti affidabili. Anche perché un
singolo cittadino potrà garantire per una persona e dovrà spiegare i validi
motivi per cui vuol fare venire quella persona: magari è il fratello, magari è
un connazionale di un suo dipendente, che potrebbe dare garanzie di una buona e
corrispondente prestazione lavorativa.
Mentre,
invece, un’associazione deve dimostrare che ha i soldi per farsi garante di un
certo numero di persone e deve anche spiegare i motivi per cui intende inserire
nel mondo del lavoro queste persone. Potremmo immaginare, ad esempio, che a
Chiampo, o ad Arzignano, nella zona delle concerie, non si trovano lavoratori
italiani da anni: è una realtà nella quale nelle fabbriche lavorano tutti
immigrati. Anche i capireparto cominciano ad essere immigrati; solo gli
amministrativi e gli imprenditori sono italiani.
Allora
si può creare un’emergenza ed il Comune di Chiampo può sentire il bisogno,
nell’interesse degli imprenditori locali, di promuovere una garanzia
all’ingresso per inserire queste persone nel mercato del lavoro locale.
Questo
istituto della chiamata con garanzia dev’essere ancora collaudato, nella
programmazione dei flussi per l’anno 1999 non è stato contemplato perché
mancava ancora il Regolamento di Attuazione; ora che il regolamento sta per
uscire possiamo immaginare, per il 2000, oltre alla quota d’ingresso per
lavoro subordinato, quindi i contratti già autorizzati dall’estero, anche una
quota d’ingresso per ricerca d’occupazione in Italia, con un garante in
Italia.
Bisognerà
considerare poi la possibilità di trasformare i permessi di soggiorno a
termine, ad esempio per svolgere lavoro stagionale. Stando in Italia, lo
straniero potrebbe convertire il permesso di soggiorno temporaneo in uno per
lavoro subordinato a tempo indeterminato, se trova un’opportunità di lavoro
compatibile con i criteri di programmazione dei flussi.
In
altre parole, se io, quando trovo questo posto di lavoro stabile, ci sono ancora
posti disponibili nel tetto massimo assegnato alla mia provincia per le
assunzione dall’estero, posso ottenere questa autorizzazione e trasformare,
direttamente qui in Italia, il soggiorno da tempo determinato a tempo
indeterminato.
Analoga
previsione è stabilita per convertire il permesso per motivi di studio in
permesso per motivi di lavoro subordinato a tempo determinato. Cioè, se io sono
qui in Italia per motivi di studio e trovo un posto di lavoro, se questo posto
è compatibile con il tetto massimo delle autorizzazioni che possono essere
rilasciate per ingressi dall’estero, non ho bisogno di tornare nel mio paese
per prendermi il visto d’ingresso: posso andare direttamente in questura con
l’autorizzazione dell’Ufficio del Lavoro e fare la conversione.
C’è
da chiedersi se questa possibilità potrebbe essere prevista per la conversione
del permesso di soggiorno da motivi di giustizia a motivi di lavoro subordinato,
nella misura in cui il datore di lavoro proposto ottenesse l’autorizzazione
preventiva, compatibilmente con il decreto di determinazione dei flussi.
Qui
io la risposta non ce l’ho: magari potrebbe anche piacere che questo percorso
virtuoso potesse concretizzarsi anche in una sorta di premio a chi si è dato da
fare per inserirsi, con la possibilità di soggiornare stabilmente in Italia per
lavoro, anche perché si spiega che difficilmente uno che è stato anni qui in
Italia e che ha perso ogni contatto con il suo paese abbia qualche motivo per
tornare a casa sua. Però, al di là dei miei gusti, non c’è una risposta
nella normativa; testualmente non troviamo una soluzione normativa. Ci saranno
da attendere le famose circolari ministeriali per capire se questa possibilità
c’è e magari la stessa amministrazione penitenziaria potrebbe porre il
problema interpretativo alla istituzione di competenza, vale a dire al Ministero
dell’Interno.
Al
momento, per prudenza, dovrei dire: “Cari signori, del clandestino arrestato,
al termine del percorso virtuoso, non rimarrà nulla; tornerà clandestino come
prima”.
Salvo
che, per motivi di varia natura, non si ritenga di applicare, con perfetta
analogia a dire il vero, una disposizione che è prevista per situazioni
esattamente simili, cioè situazioni in cui si può convertire il soggiorno da
un titolo all’altro: questo lo staremo a vedere; si può ipotizzare questa
interpretazione ma, finché non sarà avvalorata quantomeno da circolari
ministeriali, non sarà spendibile. Si potrà tentare qualche caso pilota ed,
eventualmente sulla base di questo, ci sarà magari la circolare che determinerà
la disciplina generale.
Adesso
dovrei tentare di fare alcune altre considerazioni rapide su quelli che sono
altri problemi del detenuto straniero.
Il
problema che più spesso si pone, dopo quello del rinnovo del permesso di
soggiorno, è la mancanza dei documenti: non abbiamo un sacco di “alias”, o
sedicenti, e questo è un problema serio perché, anche a questo riguardo,
l’ordinamento giuridico non ci fornisce una risposta puntuale, quindi si
naviga un po’ a vista.
La
cosa che mi consola è che, perfino i ministeri, inventano delle soluzioni che
dal punto di vista giuridico potrebbero essere discutibili ma, quando le fa il
ministero, vanno sempre bene. Per esempio, c’è una circolare del Ministero
delle Finanze, del 15 gennaio 1999, sulla possibilità di attribuire il numero
di codice fiscale ai detenuti extracomunitari sprovvisti di un documento di
riconoscimento: è un passo in avanti, perché il ministero dice: “Di questa
gente non abbiamo documenti internazionalmente riconosciuti, però è stata
identificata sommariamente nel corso del procedimento penale: anche se non sarà
il suo nome vero, un nome ce l’ha, quindi ci regoleremo su questo e daremo un
codice fiscale basato su esso e sulla dichiarata data di nascita.
Come
conclusione pratica ha un valore, perché senza codice fiscale è impossibile
esperire altri adempimenti; diceva la dottoressa Serrano che non è prevista
l’iscrizione al Collocamento degli stranieri detenuti; invece il motivo
dell’interessamento del Ministero delle Finanze è stato proprio che le
amministrazioni penitenziarie hanno fatto presente che, senza il codice fiscale,
non potevano procedere all’iscrizione al Collocamento.
Quindi
lo straniero detenuto può iscriversi al Collocamento, intendendosi come sede
competente la direzione dell’Impiego della provincia in cui è situato
l’Istituto di pena; può stipulare validamente contratti di lavoro subordinato
lavorando direttamente per l’istituzione carceraria, anche se le opportunità
sono molto limitate; come pure può stipulare regolarmente contratti di lavoro
all’esterno. Questo sia per i regolari sia per i clandestini perché il
problema si poneva espressamente per questi ultimi.
Ci
può essere invece un problema per quanto riguarda i titoli di studio: molti
stranieri detenuti partecipano a corsi di alfabetizzazione, o di
scolarizzazione, o di formazione professionale.
Il
problema mi è stato posto da un direttore didattico, che al termine
dell’esame per il rilascio della licenza di scuola media, aveva uno studente
di cui non conosceva le generalità precise e non sapeva come rilasciargli
l’attestato. Un problema al quale non ho una soluzione, perché la mia
interpretazione può essere anche legalmente valida, ma se la facesse il
ministero sarebbe una cosa, se la faccio io ha una portata diversa.
Se
il ministero delle Finanze ha detto che si può rilasciare un titolo di studio
ai sedicenti, la questione per ora non è ancora stata affrontata. Il problema
non si era mai nemmeno posto, finché un insegnante della Commissione l’ha
sollevato: fino ad allora, i titoli di studio erano stati rilasciati
tranquillamente anche ai sedicenti.
Dal
punto di vista strettamente legale, non dovrebbero esserci problemi a rilasciare
un diploma ad un sedicente, perché il diploma non è un certificato d’identità,
quindi non fa fede in ordine all’identità del soggetto. Se poi la persona usa
quel diploma per dimostrare che si chiama con il nome sopra riportato, lo fa
impropriamente, e chi trova valore identificativo in quel diploma lo farà
impropriamente.
Il
diploma serve invece a provare il fatto storico che quella persona ha compiuto
un percorso di studi e, se un domani volesse far rettificare il nome sul
diploma, risponderebbe del reato di dichiarazione di false generalità, come
succederebbe per qualsiasi cittadino italiano.
Allo
straniero, il diploma potrebbe servire per i motivi più disparati, ad esempio
con quest’ultima sanatoria c’era la necessità di avere la prova della
presenza in Italia prima del 27 marzo ‘98 e alcune persone si sono
regolarizzate portando come prova dei documenti falsi.
Perché
tizio, che si è preso un permesso di soggiorno falso e ha lavorato in regola
per anni, con quel permesso di soggiorno poi ha potuto dimostrare la propria
presenza ed accedere alla sanatoria presentando il passaporto falso e,
ovviamente, rispondendo davanti alla legge della ricettazione e del falso, con
tutte le attenuanti del caso, perché si è autodenunciato spontaneamente,
quindi ottenendo il patteggiamento.
Altro
problema è la cosiddetta autocertificazione, su cui c’è poco da inventare,
perché può essere autocertificato solo ciò che è già a conoscenza degli
enti pubblici nazionali. Quindi io posso autocertificare la mia residenza a
Padova, se risiedo a Padova, a prescindere dalla mia cittadinanza; posso
autocertificare la mia nascita, se questa è registrata all’anagrafe di
Padova, posso autocertificare la mia laurea ottenuta in una Università
italiana.
Non
posso autocertificare di essere residente in un certo comune dell’Egitto o
dell’Iran; non posso autocertificare uno stato uno stato di famiglia che non
risulta in Italia, quindi non posso autocertificare di avere moglie e figli in
Iraq; non posso autocertificare di avere o non avere redditi di un certo tipo
nel mio paese di provenienza, perché queste sono risultanze che non sono
riscontrabili presso gli uffici obbligati alla loro tenuta in Italia.
C’è
una forma di autocertificazione che era prevista da una circolare del Ministero
di grazia e giustizia, che parrebbe contraddetta dal Regolamento di Attuazione
del Testo Unico, ma che si effettua nella prassi: una sorta di
autocertificazione che si richiede allo straniero che chiede di essere ammesso
al gratuito patrocinio per i non abbienti.
Il
gratuito patrocinio riguarda la tutela in sede penale e, per estensione espressa
dalla norma prevista dall’art. 13 del Testo Unico, la tutela avverso il
provvedimento di espulsione. Il problema riguarda la dimostrazione dei
presupposti per il gratuito patrocinio, perché se uno è sedicente, non può
certificare che è privo di redditi, di beni patrimoniali, o di rendite, nel
proprio paese di origine. Normalmente lo straniero dovrebbe dimostrare, con una
dichiarazione fatta all’autorità del suo paese e autenticata da questa
autorità, di avere i presupposti per essere ammesso al gratuito patrocinio. In
altre parole si traspone l’autocertificazione presso l’autorità del paese
che detiene i dati autocertificati.
Il
problema è, da un lato, che le ambasciate dei paesi di maggiore immigrazione
collaborano poco, hanno tempi e un grado di efficienza che è sconsolante.
Peggio ancora quando si tratta di detenuti, perché le autorità consolari
dovrebbero interessarsi dei propri connazionali, in teoria dovrebbero prestare
ogni collaborazione utile alla identificazione, dovrebbero rapportarsi allo
straniero come terminale amministrativo per tutti gli adempimenti, ma tutto
questo non lo fanno e non mandano neanche i propri delegati presso le carceri
per incontrare i detenuti. Magari, lo fanno alcuni stati tra quelli con un
avanzato grado di civiltà, come ad esempio la Gran Bretagna, ma altri non lo
fanno. Questo, comunque, è un problema che non può essere risolto dalle
autorità italiane perché dipende dalla autorità di paesi diversi, che godono
di tutte le garanzie di indipendenza e sovranità.
D’altra
parte, questa indisponibilità ed inefficienza si sposa spesso con
l’indisponibilità dello straniero a chiedere la collaborazione delle autorità,
perché meno è noto e meno è identificato e meglio è per lui.
In
effetti, ci sarebbe l’obbligo della comunicazione, da parte dell’autorità
di pubblica sicurezza, alla autorità consolare del paese di provenienza, di
ogni sentenza passata in giudicato, la qual cosa di certo non allieta lo
straniero, perché molto spesso comporta delle conseguenze, di ordine
amministrativo e pratico, al momento del rientro nel paese d’origine.
Per
questo, se possibile, la maggior parte degli stranieri evita di avere contatti
con l’autorità consolare, a meno che sia proprio indispensabile.
Da
un lato questo, dall’altro il fatto che le autorità consolari comunque non
vengono in carcere e rendono oltremodo difficoltosa la certificazione di
determinate circostanze che potrebbero essere utili ai fini del gratuito
patrocinio, o anche della identificazione.
Il
problema della identificazione non è più attualissimo, perché la nuova
disciplina dell’espulsione prevede l’istituzione, che già è operativa, dei
centri di permanenza temporanea per espellendi. Prima dell’entrata in vigore
del Testo Unico, l’espulsione avrebbe dovuto, teoricamente, essere eseguita al
momento dell’uscita fisica dello straniero dal carcere, mentre ora può essere
rimandata e lo straniero nel frattempo tenuto nei centri di permanenza, finché
tramite l’autorità di polizia del suo paese non ne sia accertata
l’effettiva identità.
A
questo punto le autorità consolari hanno l’obbligo di rilasciare un visto
d’identità che consente di far transitare lo straniero dalle frontiere,
facendone accettare la presa in carico da parte delle autorità del paese in cui
è espulso, oppure in cui deve transitare per raggiungere la destinazione
prevista.
Un’altra
cosa che lo straniero detenuto può fare è quella di chiedere l’iscrizione
all’anagrafe e lo può fare sempre che disponga di un valido titolo di
soggiorno. D’altra parte, ci può essere un interesse ad ottenere
l’iscrizione anagrafica; per esempio, per quanto attiene all’iscrizione al
Servizio Sanitario Nazionale: gli stranieri regolarmente soggiornanti hanno
diritto d’iscriversi al Servizio Sanitario Nazionale e, quando sono iscritti,
hanno diritto alle stesse tutele e alle stesse prestazioni che sono erogate ai
cittadini italiani.
Il
Testo Unico, inoltre, stabilisce che gli stranieri regolarmente soggiornanti
hanno diritto a tutte le provvidenze in materia di sicurezza e assistenza
sociale, quindi è possibile che uno straniero regolarmente soggiornante un
giorno diventi invalido civile e possa richiedere la pensione di invalidità
civile.
Questo
problema esiste anche perché, tra i detenuti, ci sono persone che diventano
matte, o lo erano già da prima: la equiparazione tra gli italiani e gli
stranieri regolarmente soggiornanti permette di affrontare questo problema a
regime.
In
base all’art. 35 del Testo Unico, anche gli stranieri non iscritti al Servizio
Sanitario Nazionale è prevista l’assistenza sanitaria, anche se limitata ad
alcuni tipi di prestazioni: la prevenzione e la cura delle malattie infettive
diffusive, come la tubercolosi e l’A.I.D.S., per esempio; l’assistenza al
parto e alla gravidanza, compresa l’interruzione volontaria della gravidanza;
gli interventi ospedalieri urgenti o, comunque, essenziali.
In
queste ultime parole c’è una forte ambiguità, perché è veramente
difficilissimo capire quali siano le cure “comunque essenziali”. Io non sono
un medico, ma credo che nemmeno un medico saprebbe definire, in astratto, non
nei casi concreti, quali tipologie di cure possano essere definite essenziali e
quali no.
Uno
straniero clandestino che si presenti al pronto soccorso e dica: “Oggi come
oggi sto bene, però ho un tumore e tra due mesi potrei essere morto. Le cure di
cui ho bisogno sono essenziali, oppure no?” Io non lo so, ma mi piacerebbe che
qualcuno lo decidesse, altrimenti tutto è lasciato alle scelte del momento, da
parte dei sanitari, decisioni che possono cambiare a seconda delle condizioni in
cui si presenta lo straniero, indipendentemente dai suoi problemi di salute.
Magari, uno arriva accompagnato dalle suore, che dicono di ricoverarlo perché
è un bravo ragazzo; un altro arriva dal carcere, e riceve una diversa
accoglienza.
Lo
straniero clandestino detenuto, formalmente, non è iscritto al Servizio
Sanitario Nazionale perché oggi è a Padova, domani può essere a Verona,
dopodomani a Bolzano, quindi dal punto di vista contabile non grava su alcuna
A.S.L., però ha ugualmente diritto alle prestazioni del Servizio Sanitario
Nazionale, perché questo è previsto dalla legge.
Il
problema si pone, semmai, per quella fascia indeterminata di casi, neanche tanto
ristretta, che sta tra i casi clinici di lievissima entità, per i quali le
strutture pubbliche non sono tenute a curare i clandestini, ed i casi di
maggiore gravità, nei quali sono sempre tenute a farlo.
Se
tra gli immigrati, detenuti o meno, si diffonde la convinzione che in ospedale
non gli danno l’assistenza che gli serve, potremo avere delle persone, che
magari avrebbero pure diritto alla assistenza sanitaria, che non si rivolgono più
all’istituzione sanitaria, per cattiva informazione e, magari, potremo avere
più A.I.D.S. in giro.
Un
altro problema che si pone fuori, ma più difficilmente si pone in carcere, è
quello dell’individuazione dell’età dei soggetti: molto spesso, quando
arrivano in carcere, la verifica è già stata fatta, ma l’accertamento
antropometrico non gode di affidabilità scientifica assoluta: l’unico
accertamento che la garantirebbe sarebbe quello del D.N.A., ma nessuno può
costringere nessuno a sottoporsi a questo esame.