Il
N.A.G.A., di Milano, è un’associazione che si occupa dell’assistenza
sanitaria alle persone emarginate: dai Campi Nomadi, ai Centri di Permanenza
Temporanea, al carcere di San Vittore, incontra e cura gli “invisibili”
della nostra società
Da
un bisogno, che una società distratta dimentica, può nascere un’associazione
di volontariato. L’associazione diventa, così, testimonianza visibile di un
problema negato: la salute dei clandestini. L’equazione è semplice: siccome i
clandestini non esistono, non esiste nessun problema, neanche quello della loro
salute. Non può star male una persona che non esiste! Ed, invece, le migliaia
di persone che si sono rivolte all’associazione sono vive, vere, tanto vere
che stanno male.
Il
N.A.G.A. ha tentato di dare risposte a chi non può porre domande, impegnandosi
sul male del corpo e dell’anima dell’altro: ha dovuto sperimentare
accoglienza, modalità d’incontro,
e le incomprensioni, i compromessi, gli insuccessi accumulati in questi anni,
sono diventati la sua ricchezza.
Nel momento in cui ha curato e sperimentato non ha
mai dimenticato che il dovere del volontariato è quello di porre domande a chi
non vuole dare risposte (Stato, Regione,
Comune, A.S.L., Istituzioni), anche dicendo ad “alta voce” che i diritti
dell’uomo (quello della salute in
questo caso) vanno sempre al di sopra d’ogni confine, razza, religione, etnia,
appartenenza ad un gruppo politico.
Com’è nata l’attività del N.A.G.A. in carcere
L’attività del N.A.G.A. in carcere ha avuto inizio
nella primavera del 1992, con la partecipazione all’organizzazione del
Convegno “Carcere e Lavoro”, che si è tenuto a S. Vittore il 20 ‑ 21
novembre 1992. Durante i lavori di tale convegno è stato presentato il progetto
Ekotonos, il cui obiettivo fondamentale era di creare, in particolare per i
detenuti del secondo raggio, tossicodipendenti, una possibilità di dialogo tra
interno ed esterno del carcere, delle occasioni d’incontro e di discussione
sui temi della salute, del lavoro, delle alternative alla detenzione, della
cultura, etc.
Il progetto Ekotonos è tuttora in corso, anche se
durante gli anni ha subito variazioni, alcune fisiologiche, altre non ricercate,
ed è portato avanti dalle associazioni del volontariato, in collaborazione con
la direzione del carcere e con i detenuti stessi.
Inizialmente
l’intervento del N.A.G.A. prevedeva la realizzazione di corsi da svolgersi al
secondo raggio, per gruppi di 10‑15 detenuti stranieri ed alla presenza di
mediatori culturali del Naga o della cooperativa Kantara, su argomenti quali
l’igiene, l’educazione sanitaria e la prevenzione della diffusione
dell’infezione da H.I.V. Oltre a questi incontri se ne tenevano altri di
“geografia delle esperienze”, il cui obiettivo era quello di permettere che
i partecipanti potessero esprimere i contenuti fondamentali delle loro culture
di provenienza, ritrovando anche il senso d’appartenenza e il gusto di
comunicare e di conoscere esperienze e, attraverso questo percorso, migliorare
la convivenza tra culture ed abitudini tanto diverse.
Attraverso queste prime esperienze, gli operatori del
N.A.G.A. si sono resi conto della necessità di superare i limiti del secondo
raggio ed estendere l’intervento a tutti gli stranieri presenti all’interno
del carcere e che le richieste più pressanti erano sempre legate a bisogni
molto concreti e a problemi impellenti: dal recupero delle proprie cose o dei
propri documenti, alla necessità di un avvocato o al bisogno di far giungere
notizie alle famiglie.
Dall’estate del 1993 è stato, pertanto,
organizzato, in collaborazione con le associazioni “Stop Razzismo” e
“Villa Amantea”, l’attività di segretariato sociale, che ha dato la
possibilità d’incontrare singolarmente i detenuti che ne facevano richiesta
(nella sala per i colloqui con i giudici e gli avvocati), per ascoltare le loro
esigenze e, se possibile, affrontare con loro i problemi più urgenti. Tale
attività è stata inizialmente piuttosto lenta e difficoltosa, anche a causa
delle complesse prassi burocratiche che sempre accompagnano le attività in
carcere e la soluzione escogitata è stata quella d’incontrare i detenuti nel
raggio di detenzione, in orari e giorni stabiliti con la direzione.
I maggiori
problemi dei detenuti stranieri
La percentuale di detenuti stranieri all’interno
del Carcere di S. Vittore è decisamente alta, le zone di provenienza sono
prevalentemente il Nord ‑ Africa, il Centro e Sud America, l’Est Europa,
l’Africa Subsahariana. Sono, generalmente, piuttosto giovani: hanno dai 20 al
35 anni d’età. Molti di loro sono recidivi. La consistente presenza di
stranieri a S. Vittore è dovuta solo in parte ad un’effettiva loro
partecipazione a situazioni criminose. Anche altri fattori determinano un numero
così elevato di presenze, a cominciare dalla loro irregolarità
(frequentissima) che, di per sé, li rende “criminali” o, meglio,
criminalizzabili; senza dimenticare che, tanto ragioni culturali quanto necessità
oggettive, li portano a vivere in gruppo e “in strada”, a vivere cioè
situazioni in qualche modo a rischio, o precarie, oltre che altamente visibili
per le autorità e le forze dell’ordine; queste, dal canto loro, trattando gli
stranieri (oggi! ieri erano i “drogati”, i “barboni” etc., ma lo
stereotipo del senso comune non muore mai)
come categoria generale, quasi si trattasse di un unico, gigantesco e
spaventoso individuo, invece che di una realtà
multiforme e complessa e non esitano ad arrestare indiscriminatamente un
individuo o un altro, indipendentemente da ogni evidenza contraria. Per
affermare che spesso la “colpa” è proprio
quella d’essere stranieri, ed è difficile uscirne illesi. Quanto alla
questione dell’irregolarità, oltre ad essere, di fatto, un fattore
determinante nel massiccio afflusso di stranieri in carcere, è poi forse la
principale responsabile del loro mancato deflusso dal carcere: è
1’irregolarità che non consente di usufruire degli arresti domiciliari,
nell’attesa di giudizio, né delle misure alternative, dopo la condanna.
Il problema principale e più sentito, non appena
entrati in carcere, è la lingua (soprattutto per chi è in Italia da poco tempo): comunicare con le forze
dell’ordine, con le autorità giudiziarie e ancor, più con gli avvocati
diventa di primaria importanza ed è spesso tutt’altro che semplice. In
secondo luogo, gli stranieri si trovano totalmente “sganciati” da tutto ciò
che è fuori; spesso senza famiglia e amici in Italia, o con famiglia e amici a
loro volta irregolari, è difficilissimo o impossibile, per loro, instaurare
contatti con l’esterno (e viceversa) anche quando le esigenze siano di denaro
o d’effetti personali o di disperati tentativi di trovare un avvocato che
segua il proprio caso.
Il bisogno di denaro riporta immediatamente ad altre
due questioni fondamentali: la prima riguarda il funzionamento della struttura
carceraria stessa, quantomeno discutibile sul piano dell’igiene e
dell’offerta di beni di prima necessità, cose che non garantisce, come invece
dovrebbe, ad un livello adeguato, obbligando così i detenuti più poveri a fare
delle sgradevoli rinunce anche sul piano dei più elementari bisogni.
L’altra è legata alla gravosa questione della
difesa: la difficoltà o impossibilità di pagarsi un difensore di fiducia si
presenta, tale quale, con il difensore d’ufficio che (sempre che non trovi il
modo di sottrarsi al dovere d’ufficio), prende generalmente l’incarico della
difesa con scarso interesse, partecipazione, attenzione al caso. A questo
proposito è difficilissimo, in mancanza di documenti, o per la scarsa
collaborazione da parte di alcuni Consolati, attestare la propria indigenza per
ottenere il patrocinio a spese dello Stato.
Infine, l’istituzione, che qui si veste da
personale carcerario o da autorità giudiziaria, è troppo spesso incapace ed
ignorante, di fronte al processo che vede la popolazione straniera crescere
sempre più varia e numerosa: diversità religiose, culturali, linguistiche,
etc., sono ancora troppo frequentemente trattate con acritica ostilità o del
tutto ignorate, la qual cosa non facilita certo le umane relazioni in generale,
né tantomeno addolcisce quelle, già per loro natura disumane, interne al
carcere.
Un aspetto problematico di rilievo, per i volontari
che all’interno del carcere svolgono l’attività del segretariato sociale,
riguarda le motivazioni che sostengono tale impegno.
Da
un lato, il rischio è quello di slittare verso un intervento puramente
assistenziale, lasciandosi prendere la mano dall’emergenza e dalla consistenza
(qualitativa e quantitativa) delle esigenze immediate del detenuto, evitando
quindi la fatica di ridefinire continuamente il contesto generale, più
complesso, all’interno del quale collocare la
propria azione.
Dall’altro lato c’è il rischio di percepire
l’inutilità degli interventi, se essi non incidono in qualche modo sulle cause che determinano le situazioni di disagio,
le discriminazioni, le negazioni e la violazione dei diritti.
La difficoltà sta appunto nell’acquisire la
consapevolezza che si devono definire obiettivi, modalità e strumenti, che
vanno oltre la quotidianità e la concretezza del rispondere ai bisogni immediati.
All’inizio, la motivazione del perché si entra in
carcere per questo tipo di popolazione detenuta, non è ben definita: il
detenuto extracomunitario va aiutato perché, per una serie di motivi, ha meno
risorse di quello italiano; ci può essere un po’ di curiosità per un mondo
(il carcere) sconosciuto; può essere utile per futuri ambiti professionali, per
compassione, etc.
In seguito, emerge però una realtà drammatica,
complessa, che rende il semplice aiuto non più sufficiente e che esige di
modificare il modo di porsi di fronte alle problematiche carcerarie. Il rischio
che si profila è quello di un semplice rafforzamento dell’identità
dell’associazione (far vedere che si fa questo, quello, etc.) e la
gratificazione personale.
L’attività, fine a se stessa, non porta neppure ad
un’umanizzazione del carcere, se non a quella di risolvere al momento un
problema immediato e limitato e di poter instaurare un rapporto più
continuativo che con le altre figure istituzionali.
Il volontariato carcerario dovrebbe tenere conto di
due elementi: da un lato, il dibattito sempre più ampio sul rispetto dei
diritti individuali e, dall’altro, un disagio comunque diffuso che porta la
società esterna a reagire in modo negativo, pretendendo un sistema carcerario
più punitivo. L’istituzione carceraria, invece, ha come fine la
riabilitazione personale per permettere poi un reinserimento nella società.
Partendo da questi presupposti, il Gruppo Carcere del
N.A.G.A. si è già mosso nell’individuare impegni futuri sotto l’aspetto di
una maggiore conoscenza delle dinamiche sociali, di un coordinamento con altre
realtà e con il tentativo di modificare la percezione negativa che la
collettività ha del detenuto, straniero o italiano che sia.
L’insufficiente conoscenza della lingua,
l’ignoranza giuridica, l’indigenza economica si accompagnano quasi
inevitabilmente alla sostanziale negazione del diritto alla difesa ed al
prolungamento della detenzione per l’impossibilità di accedere a misure
alternative, quali l’arresto domiciliare e l’accesso a comunità
terapeutiche nel caso dei tossicodipendenti.
Altra gravosa questione è quella della difesa d’ufficio: la difficoltà
o l’impossibilità di pagarsi un difensore fa sì che, per molti casi,
l’avvocato nominato d’ufficio assuma generalmente la difesa con scarso
interesse e partecipazione, con la conseguenza di fatto dell’annullamento di
questo diritto.
La
nomina dell’avvocato d’ufficio, che, di fatto, poi non difende lo straniero
indigente nella misura in cui non è in grado di dimostrare la propria indigenza
(mancata applicazione della legge sul patrocinio a spese dello Stato), comporta
la possibilità di procedere nel processo senza una reale difesa. Pertanto, una
legge fatta allo scopo di proteggere un diritto, in realtà va contro quel
diritto stesso.
Una
maggiore presa di coscienza, da parte dei detenuti, dei propri diritti, che
potrebbe essere ottenuta attraverso incontri di informazione che forniscano
notizie, consigli ed assistenza indiretta sulle possibilità offerte e sulle
tutele previste, dalle disposizioni legislative, regolamentari, etc.;
Un aiuto diretto, di tipo legale, attraverso la
creazione di un gruppo di avvocati che prestino la propria assistenza in modo
volontario e gratuito;
Un intervento di tipo politico, per sensibilizzare
l’esterno del carcere sul problema dei diritti negati ai reclusi
extracomunitari e per rimuovere gli ostacoli normativi alla parificazione dei
diritti e delle possibilità offerte ai normali detenuti. Tale intervento
dovrebbe realizzarsi anche attraverso il coordinamento con altri gruppi di
associazioni.
I problemi
continuano nel momento di realizzare il reinserimento sociale
La
mancanza del permesso di soggiorno, di una residenza, di supporti familiari,
comportano la difficoltà di accedere alle misure alternative quali ad esempio
affidamento ai servizi sociali, semilibertà, lavoro esterno, permessi premio,
etc.
Il
procedimento di espulsione come misura di sicurezza, costituisce una doppia pena
impedendone il reinserimento, in quanto rende clandestino anche chi prima
dell’ingresso in carcere non lo era.
Occorre
promuovere e finanziare progetti di reinserimento orientati alla costruzione di
reti di sostegno prevedendo anche la cosiddetta residenza legale. In tale senso
sono già partite delle iniziative come l’Agenzia per il Lavoro, ma occorre
potenziarle e renderle accessibili anche agli stranieri.
Sarebbe normale, a questo punto, pensare che esista il
permesso di soggiorno, ma forse è meglio specificare che alla fine del processo
di reinserimento, il permesso di soggiorno deve essere rilasciato modificando
quelle norme legislative che attualmente lo impediscono.
Quali prospettive, per gli stranieri detenuti ed ex detenuti?
Tre
sono le aree verso le quali vanno orientati gli interventi, ovviamente con
interlocutori, strategie e strumenti differenziati: l’area della prevenzione,
quella della detenzione e quella del reinserimento. La carenza di opportunità
sociali, quali il diniego istituzionale di lavorare (mancanza di permesso di
soggiorno) spinge l’immigrato a ricorrere a mezzi illeciti. Lo straniero è di
fatto criminalizzato, questo comporta una maggior visibilità nei confronti
delle forze dell’ordine, con maggior facilità di arresti generalizzati,
indipendentemente dalle reali responsabilità del singolo individuo (arresti di
gruppo, arresti per motivi per i quali gli italiani non sarebbero arrestati).
Cosa bisogna fare, per evitare tutto questo:
prevedere un permesso di soggiorno per ricerca del
lavoro;
investire in politiche sociali, anziché in politiche
repressive.
In
quest’ambito una proposta potrebbe essere quella di offrire all’immigrato,
all’atto del rilascio del permesso di soggiorno per ricerca lavoro, la
possibilità di un corso di formazione e un lavoro socialmente utile a tempo
determinato.
Il bilancio dell’attività del N.A.G.A.
Il NAGA ha assunto, in questi anni, alcune
caratteristiche che hanno portato un importante contributo nella discussione sul
ruolo del volontariato in Italia:
Prassi dal
basso: continuare
ad agire a contatto diretto con l’altro, insieme all’altro, nelle situazioni
più disagiate (carcere, cascine occupate, Centri di permanenza Temporanea,
etc.). Portare avanti, in prima persona, alcune lotte per i diritti: quello
della salute prima di tutto, promuovendo, insieme con altre associazioni,
l’applicazione degli articoli riguardanti la sanità, delle ultime leggi
sull’immigrazione.
Non
ammortizzatore sociale, ma voce: i convegni “il colore della salute” e “la
salute senza colore” sono stati due momenti importanti per dare voce agli
immigrati. Nel primo si è affermato che gli immigrati sono persone sane, che
arrivano nel nostro paese alla ricerca di un lavoro e non sono gli “untori”.
Nel secondo si sono messe le basi di una rivendicazione del diritto alla salute.
Spazio di
sperimentazione: anticipare i tempi, pensare soluzioni, provare soluzioni, come ad
esempio il “medico di campo” per i nomadi (figura di medico itinerante che
si avvicina sempre più al bisogno delle persone all’interno della sua comunità
e che quindi entra in rapporto con la cultura dell’altro).
Progettazione
del sociale:
ad esempio è stato creato il primo corso di mediatore culturale, con momenti
d’incontro e di formazione.
Aspetto
culturale: attraverso
ricerche, cercare di capire percorsi sanitari dell’altro, nomade o immigrato,
e modalità d’incontro con le strutture sanitarie (ricerche sui percorsi
sanitari dei nomadi, ricerche sull’uso dei servizi da parte degli immigrati)
Testimonianze: con
la prassi quotidiana dimostrare che è possibile incontrare l’altro facendo
diventare questo un momento di scambio e arricchimento reciproco e non solo un
momento assistenzialistico.
Il futuro che aspetta il N.A.G.A. sarà quello di
costituire sempre più una sentinella sul diritto alla salute e di continuo
“faro” sui bisogni nascosti; sarà quello di favorire sempre più il
percorso “dall’emergenza all’accoglienza” e favorire la rappresentatività
interetnica nella nostra società.