Commento alle circolari ministeriali in materia di immigrazione, a cura dell’A.S.G.I. (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione).

 

Varato ed entrato in vigore il regolamento d’attuazione delle norme sull’immigrazione e la condizione giuridica dello straniero. Incertezze e preoccupazioni relativamente alle condizioni per il rinnovo dei permessi di soggiorno.

 

Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale (Suppl. Ord. n.190/L dd.03.11.1999, è entrato in vigore il regolamento d’attuazione delle norme sull’immigrazione (Dpr. 32.08.1999, n.394).Diventano finalmente operative, pertanto, anche quelle disposizioni contenute nella legge sull’immigrazione che non avevano potuto finora trovare effettiva attuazione per la mancanza delle indispensabili norme regolamentari, tra cui ad esempio quelle del rilascio della carta di soggiorno o al riconoscimento dei titoli di studi esteri al fine dell’esercizio delle attività professionali.

Nonostante il lungo iter richiesto per la sua approvazione, il regolamento non esaurisce peraltro il quadro normativo indispensabile per una completa e uniforme implimentazione della legge sul territorio nazionale che possa scongiurare il verificarsi di trattamenti differenziati e discrezionali da parte degli uffici amministrativi locali (questure innanzi tutto) in contrasto con i principi costituzionali di certezza del diritto e buon andamento della Pubblica Amministrazione (Articolo97). Lo stesso regolamento rinvia in diverse occasioni a successivi decreti ministeriali (di solito da emanarsi a cura del Ministero dell’Interno) per chiarire dubbi e contraddizioni, colmare lacune, ancora presenti nel quadro normativo anche dopo e nonostante il varo del regolamento (riferiamo sopra dell’emanazione della prima circolare relativa al regolamento). Non può dirsi, pertanto, pienamente soddisfatto il principio costituzionale della riserva di legge rafforzata in materia di condizione giuridica dello straniero (Articolo10.2: ”La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali”), vista l’entità dello spazio di manovra concesso, di fatto, all’esecutivo.

Tali considerazioni critiche ben si adattano alla questione dei rinnovi dei permessi di soggiorno, peraltro decisiva per la effettiva realizzazione di quei fini solidaristici e obiettivi d’integrazione che il Parlamento e il Governo hanno proclamato essere a fondamento dell’iniziativa di riforma legislativa. Alle condizioni e ai requisiti per il rinnovo dei permessi di soggiorno di lunga durata per motivi di lavoro, il regolamento, infatti, dedica una sola disposizione, quella contenuta nel comma 2 dell’Articolo13, che sostanzialmente vincola la proroga del soggiorno alla dimostrazione dell’autosufficienza economica, cioè alla “disponibilità di reddito, da lavoro o da altra fonte lecita, sufficientemente al sostentamento proprio e dei familiari conviventi a carico, che può accertarsi d’ufficio sulla base di una dichiarazione sostitutiva (autocertificazione)”. Sorge innanzi tutto la questione del livello minimo di reddito richiesto ai fini del rinnovo del permesso di soggiorno, non avendo né il legislatore, né l’esecutivo intesi finora   specificarlo con precisione, al contrario di quanto invece avvenuto ai fini del ricongiungimento familiare o della richiesta di rilascio della carta di soggiorno, dove si fa riferimento all’importo dell’assegno sociale, duplicato o triplicato a seconda dei familiari a carico. Anche la recente circolare del Ministero dell’Interno relativa all’emanazione del regolamento d’attuazione della legge sull’emarginazione, non può far altro che rimarcare la perdurante mancata emanazione della direttiva del Ministero dell’Interno circa i criteri per la verifica dei mezzi di sostentamento ai fini dell’ingresso e del rinnovo del soggiorno, prevista dall’Articolo4 comma 3 del TU (D.Lgs. n. 286/98).

In assenza d’ulteriori disposizioni amministrative, atteggiamenti diversificati e non uniformi a livello locale potrebbero sorgere rispetto alla corretta interpretazione da dare al riferimento alle fonti di sostentamento “lecite”, soprattutto nei casi di autocertificazione di rapporti di lavoro irregolari o “in nero”. IL lavoro “irregolare” o “in nero” alle dipendenze di un datore di lavoro non può essere considerato alla stregua di una attività illecita per il lavoratore che, quale parte “debole”, viene anzi tutelato dal Codice Civile in base alla previsione che “se il lavoro è stato prestato con violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro, questi ha in ogni caso diritto alla retribuzione” (articoli2098-2126).

Di conseguenza, è lecito attendersi che il Ministero dell’Interno darà istruzioni alle questure di consentire l’autocertificazione anche dei rapporti di lavoro irregolari eventualmente intercorsi tra gli stranieri e i rispettivi datori di lavoro, al fine della dimostrazione dei mezzi di autosufficienza economica in sede di rinnovo dei permessi di soggiorno. Con ciò tenendo conto anche della forte incidenza che il mercato del lavoro “informale” continua ad avere tra la popolazione immigrata “regolare”, stimata attorno al 30% secondo il recente rapporto presentato dalla Commissione per le politiche di integrazione degli stranieri, presieduta dalla prof.ssa Zincone. Ancor più problematico e suscettibile di rendere precaria la condizione di molti immigrati “regolari” è il modo con cui nella legislazione e nelle successive norme regolamentari di attuazione ha trovato collocazione il principio per cui la perdita del posto di lavoro non deve implicare l’automatica revoca del permesso di soggiorno del lavoratore migrante, senza che a quest’ultimo venga concesso un periodo di tempo minimo per trovare una nuova occupazione ( principio stabilito dall’articolo 8 della Convenzione OIL n.143/1975, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge del 10 Aprile 1981 n.158). Con l’Articolo22.9 del TU viene prevista la possibilità per il lavoratore straniero rimasto disoccupato di mantenere l’iscrizione alle liste di collocamento per il periodo di residua validità del permesso di soggiorno e, comunque, per un periodo non inferiore ad un anno.

É di immediata comprensione l’importanza che dunque assume innanzi tutto la durata dei permessi di soggiorno, per i quali la legge, fissando soltanto i limiti massimi (due anni per quelli per motivi di lavoro e di famiglia, con la possibilità di una durata doppia in caso di rinnovo), lascia ampi margini di discrezionalità alle questure o alle deliberazioni ministeriali. In tal senso, il Ministero dell’Interno è già intervenuto con la circolare dd.10 maggio in materia di regolarizzazione, che ha previsto una diversa durata del permesso di soggiorno per motivi di lavoro, a seconda della situazione di regolare occupazione dell’interessato (due anni) ovvero del suo stato di disoccupazione (un anno), per cui occorre ora chiedersi se tale orientamento possa ritenersi estendibile anche a “regime”. Con gli articoli36 e 37 del regolamento di attuazione, l’esecutivo ha voluto concretizzare in modo piuttosto rigido e restrittivo il principio dell’iscrizione a termine nelle liste di collocamento del lavoratore licenziato o dimesso, stabilendo la possibilità del rinnovo del permesso di soggiorno, eventualmente venuto in scadenza successivamente alla perdita del posto di lavoro, solo per il periodo necessario al concorrere del termine citato di un anno dall’avvenuta iscrizione alle liste, entro il quale l’interessato dovrà adoperarsi per trovare una nuova occupazione regolare, pena l’impossibilità dell’ulteriore rinnovo del permesso di soggiorno e la conseguente intimazione a lasciare il territorio italiano. La costante precarietà della condizione dell’immigrato è accentuata dalla previsione per cui la stipula di un contratto di lavoro a tempo determinato comporterà il rilascio del permesso di soggiorno della stessa durata del contratto di lavoro e comunque non inferiore a 12 mesi dalla data del rilascio del precedente soggiorno. C’è innanzi tutto da chiedersi se la previsione della necessità della stipula di un contratto di lavoro regolare quale condizione per il rinnovo del permesso di soggiorno, a prescindere dalle altre fonti di mantenimento, sia compatibile con le già citate norme interne e internazionali a tutela del lavoratore in casi di prestazione irregolare.

Anche qualora gli standard minimi della Convenzione OIL si ritengano formalmente rispettati, si può scorgere in siffatta regolamentazione una concezione riduttiva dell’immigrato, la cui permanenza legale viene esposta sostanzialmente alle variabili contingenze del ciclo economico. Nel caso dei lavoratori immigrati invalidi civili, accanto a queste considerazioni di “inopportuna politica”, si possono muovere motivi di illegittimità costituzionale, nel momento in cui essi vengono assoggettati ai medesimi meccanismi lavorativi che possono condurre al mancato rinnovo del permesso di soggiorno e all’intimazione a lasciare il territorio nazionale, con l’unica variante del riferimento alle liste del collocamento obbligatorio (legge n. 482/68 ora sostituita con L. 12.03.1999, n. 68) in vece di quelle ordinarie. Così facendo, risulta completamente ignorato il principio stabilito dall’Articolo8 par. 1 della Convenzione OIL n.97/1949, ratificata e resa esecutiva in Italia, che comporta il divieto di rimpatrio o di allontanamento del lavoratore migrante che risulti incapace di ottenere un’occupazione in ragione di una malattia o di un infortunio (invalidità) contratti successivamente all’ammissione nel Paese di immigrazione.

Le regole previste dal regolamento di attuazione mal si adattano all’effettiva situazione del mercato del lavoro in Italia e alla grossa incidenza che il lavoro in “nero” o “informale” continua ad avere tra la popolazione immigrata “regolare”, nonché alla diffusione di quelle forme di lavoro interinale, in affitto, di breve durata o con caratteristiche perlomeno ambigue come le prestazioni d’opera. Un’applicazione rigida di tali regole è suscettibile di far rientrare nella clandestinità una fascia consistente di immigrati, con conseguente vanifica degli obiettivi prefissati con il varo della legge sull’immigrazione e dei relativi principi ispiratori della medesima: la prevenzione ed il contrasto dell’immigrazione clandestina ed il rafforzamento delle opportunità di integrazione e dei diritti di cittadinanza degli immigrati regolari; obiettivi posti alla base della politica governativa con il documento programmatico approvato con D.P.R. 5 agosto1998.Sotto questo profilo, le norme contenute nel regolamento mal si conciliano con l’esigenza di una interpretazione normativa non rigida e letterale, bensì sistematica e costituzionalmente orientata, attenta alla volontà espressa dal legislatore e alle istanze solidaristiche di cui s’ispira la legge n. 40/98, nonché alle prerogative costituzionali dell’individuo. A tal riguardo, va sottolineato la recente formazione di una giurisprudenza, ordinaria e amministrativa, volta a escludere l’applicazione di forme di automatismo riguardo alle ipotesi di diniego al rinnovo del permesso di soggiorno dello straniero (almeno nelle ipotesi di tardività nella presentazione della domanda (Cassazione, 1 sez. Civile, sentenza 28.05/23.06.1999, n. 6374; Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 30.03/20.05.1999; per un esame di tal giurisprudenza si rinvia al numero 3/1999 della rivista “Diritto, Immigrazione e Cittadinanza”, Franco Angeli editore). Tale giurisprudenza suggerisce invece l’esigenza di “bilanciamento dei valori in gioco” tra il rispetto delle norme formali in materia di soggiorno ed il concreto esame della condotta dello straniero, della dignità e moralità delle sue abitudini di vita, dello spessore dei suoi legami sociali sviluppati con il paese di immigrazione in relazione anche della durata della sua permanenza, pena la violazione del principio di uguaglianza costituzionale, che esclude trattamenti uniformi in relazione a fattispecie diversificate ed un trattamento irragionevolmente discriminatorio tra cittadini e stranieri. Ancora una volta, dunque, forte è il rischio del riprodursi del fenomeno tipicamente italiano per cui importanti processi di riforma legislativa nel campo sociale vengono vanificati dalla palese discrasia tra gli obiettivi e i principi di fondo proclamati, i contenuti concreti delle norme e le effettive prassi e regole applicative.           

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