Studi e proposte, in materia di
regolarizzazione degli immigrati, dell’A.S.G.I. (Associazione Studi Giuridici
sull’Immigrazione) e di Magistratura Democratica,
del dicembre 1998.
I fenomeni migratori sono guidati non da scelte soggettive ma da ragioni economico ‑ sociali profonde e radicate. Ciò li rende incomprimibili con politiche di blocco, come dimostrano la storia e l'esperienza internazionale (e, da ultimo, quella degli Stati Uniti, dove l'impiego delle più moderne tecnologie militari non ha scalfito l'immigrazione irregolare dal Messico, nonostante confini assai più controllabili dei nostri.
Il
processo in atto di ridistribuzione della popolazione nel pianeta è
inarrestabile, segue leggi e dinamiche economiche che sfuggono ai singoli paesi
interessati, conduce inevitabilmente a società multietniche assai diverse da
quelle attuali. Ciò non condanna i singoli Stati all'impotenza ma definisce
ambito e contenuti del loro intervento: teso non a edificare argini impossibili
e illusori ma a governare il fenomeno in una prospettiva di gradualità e
integrazione. La logica dei divieti (oggi assai diffusa ancorché difforme da
quella imperante del mercato) produce solo clandestinità ed emarginazione, esse
sì ‑ e non l'immigrazione in sé - fonte di criminalità e di diffusa
insicurezza. L’esperienza europea di questi anni dimostra, inoltre, che le
politiche di blocco degli ingressi legali, oltre, ad essere del tutto
inefficaci, finiscono per creare, nei fatti, società caratterizzate da
componenti stabili di clandestini, privi di diritti ed esposti per questo a ogni
tipo di sfruttamento. Un intervento legislativo teso a governare (anziché a
esorcizzare per finalità di illusoria rassicurazione sociale) l'immigrazione
risponde, dunque, non solo a ragioni di solidarietà (pur da non sottovalutare)
ma anche alla esigenza di costruire società e città vivibili e democratiche.
Si tratta di un progetto complesso e costoso ma realizzabile se perseguito con
coerenza e realismo.
L'ingresso
Le
possibilità di ingresso legale in Italia vanno estese e razionalizzate, anche
alla luce del fatto che la loro attuale limitazione in termini prossimi alla
zero non è servita a contenere l'immigrazione ma solo ad alimentare la
clandestinità.
Ciò
impone anzitutto una disciplina innovativa in punto ingressi per ragioni di
lavoro, superando il sistema della legge del 1986, ancorato all'anacronistico
principio dell'incontro "a distanza" tra domanda ed offerta e della
limitazione del visto ai casi di accertata mancanza di manodopera locale e di
contestuale dimostrata qualificazione professionale ad hoc dei richiedenti. La
totale ineffettività di tale procedura (per la macchinosità e per le
caratteristiche stesse del mercato del lavoro nel nostro paese) ha avuto come
esito il mantenimento a livelli minimi dei rapporti di lavoro regolari e
l'incremento a dismisura del lavoro nero e della irregolarità. Un
atteggiamento realistico di governo del fenomeno impone di cambiare strada
istituendo, a fianco del visto per lavoro, un visto per ricerca di lavoro con
contestuale previsione di: (la) quote di ingresso a tale titolo determinate
annualmente
(con l'avvertenza che la capacità del sistema di arginare gli ingressi
clandestini è legata alla significatività quantitativa delle quote previste);
(1b) accordi di cooperazione con i paesi di provenienza (oggi quasi
inesistenti anche per la loro non appetibilità da parte dei Governi
interessati), agevolati dal fatto che il 90% della immigrazione in Italia
proviene da soli 10 paesi e dalla esperienza di altri Governi europei; (1c)
autorizzazione alla permanenza in Italia "a termine" (es. per 6 mesi),
con successivo rilascio di carta di soggiorno per lavoro, anche autonomo, o
intimazione a lasciare il paese (in caso di mancato inserimento lavorativo);
(1d) facilitazioni a futuri reingressi in caso di puntuale adempimento delle
prescrizioni e dei termini.
Ricongiungimento
familiare e condizione dei coniugi e congiunti di cittadini italiani esigono,
a loro volta, una nuova disciplina fondata sul riconoscimento del diritto alla
unità del nucleo familiare. Ciò è richiesto dagli articoli 29‑31 della
Costituzione, da numerose convenzioni internazionali (tra cui la Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali
del 4‑11‑1950, ratificata dall'Italia con 1. 4‑8‑1955 n.
848, e la Convenzione per la protezione dei diritti dei lavoratori migranti e
dei membri delle loro famiglie del 18‑12‑1990) e da ragioni di
utilità pratica, essendo dato di comune esperienza il più agevole inserimento
di chi ha riferimenti familiari sul territorio. Quanto al ricongiungimento
familiare, una normativa razionale deve proporsi come obiettivi: (2a) la
previsione di procedure semplificate in punto documentazione necessaria (con
possibilità di utilizzazione, a differenza della disciplina attuale, anche di
documenti rilasciati o legalizzati dalle rappresentanze consolari straniere in
Italia) e tempi di definizione con introduzione di ipotesi di
silenzio‑assenso; (2b) l'individuazione di sistemi di verifica non
burocratica della esistenza di condizioni di vita accettabili per il nucleo
una volta ricongiunto (preferibilmente demandandone l'accertamento agli enti
locali, anche al fine di consentire la predisposizione di misure atte a
facilitare l'inserimento del nucleo nel contesto sociale); (2c) il
riconoscimento, a tal fine, anche delle unioni di fatto ove vi siano figli
minori; (2d) individuazione del preminente interesse del minore in tutte le
valutazioni inerenti l'attuazione del diritto alla unità del nucleo familiare.
Quanto ai coniugi e parenti di cittadini italiani, la strada maestra per una
nuova disciplina è, come rilevato dal Consiglio di Stato nel parere
8‑11‑1995, quella della normativa in tema di diritto di soggiorno di
cittadini comunitari (dl. 26‑11‑1992 n. 470), anche per evitare che
i cittadini italiani con congiunti extracomunitari siano sottoposti, quanto al
ricongiungimento, a un trattamento deteriore rispetto ai cittadini degli altri
Stati membri dell'Unione europea.
È
infine imprescindibile, per quanto riguarda il settore degli ingressi, una
disciplina del diritto di asilo coerente con l'Articolo 10 comma 3 Costituzione,
che lo ricollega a criteri di natura oggettiva (assenza di libertà democratiche
nel paese di origine) più ampi di quelli soggettivi della Convenzione di
Ginevra del 1951 (timore fondato di persecuzione individuale). Si tratta, in
particolare, di introdurre il cd asilo umanitario, previsto da diverse
legislazioni europee (ed adottato dall'Italia con alcuni provvedimenti ad hoc
nei confronti di cittadini somali ed ex yugoslavi), per chi nel paese
d'origine è in situazione di rischio per uno stato di guerra civile, di
aggressione esterna, di grave turbativa nell'ordine pubblico o di diffusa
violazione dei diritti umani. La disciplina dell'asilo politico e di quello
umanitario dovrà prevedere: (3a) l'attribuzione della competenza al
riconoscimento
di entrambi gli status ad una unica Commissione centrale a composizione non
esclusivamente burocratica come quella attuale (anche al fine di evitare che la
decisione sulla concessione dell'asilo umanitario sia demandata, come ora
avviene,
ad organi periferici di polizia con conseguenti gravi quanto inevitabili
disparità
di trattamento); (3b) una procedura che consenta l'assistenza di un legale o di
un rappresentante di organizzazioni per la difesa dei diritti dell'uomo sin dal
momento dell'ingresso in Italia (anche attraverso l'istituzione di centri di
assistenza presso i principali punti di frontiera); (R) la effettiva
possibilità di ricorso giurisdizionale contro l'atto amministrativo di
respingimento alla frontiera; (M) la ricorribilità nel merito contro i
provvedimenti adottati dalla Commissione centrale.
Il soggiorno
La
disciplina del soggiorno deve abbandonare il carattere di strumento di tutela
dell'ordine pubblico (affidato alla polizia) ed assumere quello di precisazione
dei diritti e dei doveri che fanno capo a chi vive stabilmente nel territorio
dello Stato. Non si tratta di un principio rivoluzionario ma del fondamento
delle società liberali, affermato dalla Costituzione francese del 1793, il
cui Articolo 4 attribuisce l'esercizio dei diritti di cittadino, oltre ai nati
in Francia, ad "ogni straniero che, domiciliato in Francia da un anno, vi
viva del suo lavoro, o acquisti una proprietà, o sposi una cittadina francese,
o adotti un bambino o mantenga un vecchio o sia giudicato dal Parlamento avere
ben meritato nei confronti dell'umanità". Questa impostazione rimanda a
una normativa duttile e realistica, capace di riconoscere anche le situazioni
di fatto sviluppatesi positivamente, ed ancorata a alcuni punti fermi.
Il
permesso di soggiorno (tipica misura di polizia, tesa a controllare situazioni
transitorie) deve essere sostituito con una carta di soggiorno, documento
attestante la regolarità della presenza dello straniero nel territorio dello
Stato.
Tale
natura del documento comporta: (1a) la definizione per legge delle condizioni e
modalità di rilascio, riservando alle circolari i soli aspetti operativi; (1b)
l'attribuzione della competenza per i rinnovi, dopo il rilascio iniziale
contestuale all'ingresso, agli enti locali (analogamente a quanto avviene per
i documenti anagrafici).
Tipologia
e caratteristiche dei titoli di soggiorno vanno ridefinite e razionalizzate.
Vanno inoltre previsti: (2a) il soggiorno per lavoro autonomo a prescindere da
condizioni di reciprocità quantomeno dopo tre anni di residenza in Italia e
comunque in ipotesi particolari (come quella di coniuge straniero di cittadino
italiano); (2b) la convertibilità del soggiorno da uno ad altro titolo (e
quindi da ricerca lavoro a lavoro, da turismo a ricongiungimento familiare, da
studio a lavoro, etc.); (2c) la durata illimitata (senza necessità di periodici
rinnovi) della carta di soggiorno dopo cinque anni dal primo rilascio.
Una
efficace disciplina del soggiorno non può prescindere dal principio di
effettività,
che impone di tenere conto di eventuali intervenute sanatorie di fatto di
irregolarità all'atto dell'ingresso in Italia (secondo il principio generale
dell'ordinamento che ricollega, per esempio, effetti prescrittivi anche al
puro decorso del tempo). Ciò comporta la previsione di una possibilità
permanente di regolarizzazione del soggiorno in caso di: (3a) esistenza dei
presupposti di legge all'atto della richiesta (anche se carenti al momento
dell'ingresso); (3b) protratta permanenza in territorio nazionale in assenza
di reati o di altri comportamenti illegali pericolosi per la collettività.
Questa previsione è resa necessaria dai caratteri della immigrazione, in cui
margini di illegalità iniziale sono, come si è detto, fisiologici e diventano
particolarmente acuti nelle situazioni in cui le possibilità di ingresso legale
sono ridotte al minimo; è peraltro evidente che la sua sfera di effettiva
applicazione sarà più o meno estesa a seconda della efficacia delle politiche
prescelte e degli strumenti adottati per garantirne l'osservanza. Ciò, oltre
ad evitare il ricorso periodico a leggi di sanatoria, consentirebbe di non far
pagare l'eventuale fallimento delle politiche in materia soltanto agli
immigrati. Un ulteriore vantaggio di questa disciplina sarebbe dato dalla
riduzione delle spinte all'illegalità determinate dal forzato protrarsi nel
tempo delle situazioni di irregolarità.
Il
possesso di valido titolo di soggiorno (temporaneo o definitivo) deve comportare
il diritto di libera circolazione all'estero, con conseguente possibilità di
uscita dall'Italia e successivo rientro senza necessità del cd "visto di
reingresso".
Respingimento alla frontiera e allontanamento
Ogni
politica di governo della immigrazione deve prevedere strumenti idonei a
contenere in limiti fisiologici gli ingressi clandestini e ad allontanare dal
territorio dello Stato chi vi soggiorni illecitamente ovvero commetta gravi
reati. Ciò peraltro può funzionare solo se costituisce un aspetto residuale
della politica dell'immigrazione e se incontra la collaborazione (sia nel
contenimento degli ingressi sia nel rimpatrio) dei paesi di provenienza. Usare
espulsioni e allontanamenti come strumenti ordinari di governo del fenomeno
migratorio (e non delle sue patologie) significa andare incontro a un sicuro
fallimento. Allo stesso modo l'idea che prevedere tante ipotesi di espulsioni
valga a ridurre il numero dei clandestini o degli irregolari (ancorché
emotivamente tranquillizzante) è del tutto infondata. È vero esattamente il
contrario: solo limitando drasticamente la misura a pochi casi, gravi e ben
definiti, è possibile darle effettività creando un rapporto accettabile tra
espulsioni decretate ed espulsioni eseguite; in caso contrario, come risulta
dall'esperienza di questi anni, il meccanismo espulsivo è nei fatti inattuabile
(sia per i costi che per le risorse necessarie) in maniera razionale con la
conseguenza che gli allontanamenti avvengono in maniera casuale e perlopiù nei
confronti di chi è meno abile (e pericoloso).
Il
primo strumento di intervento, preventivo e dunque più efficace e meno
doloroso,
è il cd respingimento alla frontiera di chi non è in possesso di
documentazione valida per l'ingresso (comprensiva del visto, quando richiesto).
Al riguardo non v'è che da sottolineare la necessità: (la) che le condizioni
legittimanti l'ingresso siano rigorosamente stabilite per legge e non rimesse in
parte significativa alla discrezionalità degli uffici di frontiera; (1b) che il
respingimento avvenga, ove richiesto, con atto scritto e motivato (al fine di
evitare abusi e di consentire all'interessato di presentare ricorso, pur se si
tratta di ipotesi assai remota date le difficoltà e la scarsa utilità
pratica).
L’allontanamento
dal territorio dello Stato non esige di necessità una esecuzione coatta. Ove lo
straniero privo di titolo di soggiorno (ab initio o per cause sopravvenute)
sia compiutamente identificato e non sussistano ragioni di ordine pubblico
ostative va prevista la previa notifica di una ingiunzione a lasciare l'Italia.
Tale procedura (analoga, sia detto per inciso, a quella prevista dall'Articolo
656 comma 2 c.p.p. persino per l'esecuzione delle pene detentive brevi), oltre
ad essere più civile e meno costosa, consente: (2a) la possibilità di
dimostrare l'eventuale esistenza di un titolo di soggiorno o di chiederne il
rilascio ove ne sussistano i presupposti in precedenza indicati; (2b) la
possibilità, per chi vi ottemperi spontaneamente, di ottenere senza
preclusioni temporali nuovo visto di ingresso (ipotesi per nulla scolastica
soprattutto nel caso di ingresso per ricerca lavoro e per visita a familiari).
Requisiti
fondamentali di ogni disciplina della espulsione devono essere la semplicità e
la chiarezza, finalizzate a consentirne l'agevole comprensione e la uniforme
interpretazione. In questa ottica i tipi di espulsione (salvo ipotesi rilevanti
ma quantitativamente marginali, come quella a richiesta dell'interessato
sottoposto a pena o misura cautelare ovvero quella "per imperiosi motivi di
sicurezza nazionale" di cui all'Articolo 13 del Patto internazionale sui
diritti civili e politici, ratificato dall'Italia con legge 25 ottobre 1977 n.
881) sono riducibili a due: (a) quella amministrativa, conseguente a gravi
irregolarità nell'ingresso e nel soggiorno e a inottemperanza della ingiunzione
a lasciare lo Stato; (b) quella giudiziaria, conseguente a condanna per gravi
delitti (da costruire come misura di sicurezza al fine di consentire l'esame in
concreto e non presunto della pericolosità). Razionalità ed equità
impongono di: (3a) evitare sovrapposizioni tra diversi tipi di espulsione; (M)
limitarne l'adozione ai casi di violazioni (amministrative o penali) di
particolare gravità, ricorrendo negli altri casi a sanzioni analoghe a quelle
riservate ai cittadini; (3c) prevedere che il divieto di rientro conseguente a
espulsione sia temporaneo o permanente a seconda della gravità dell'illecito.
Le categorie protette
Ragioni
umanitarie (sancite dalla normativa internazionale) e di equità inducono ad
accordare una tutela particolare, anche in presenza di situazioni legittimanti
l'espulsione, ad alcune categorie di stranieri presenti sul territorio
nazionale.
Devono
considerarsi "categorie protette", insuscettibili di espulsione se non
nel caso di gravi ragioni di ordine pubblico, sviluppando le indicazioni già
contenute nell'Articolo 7 sexies comma 9 del n. 489/1995, gli stranieri che:
(la) hanno ottenuto asilo politico o umanitario (o hanno in corso la relativa
procedura); (1b) sono in possesso di carta di soggiorno a tempo indeterminato o
comunque regolarmente residenti da più di cinque anni; (1c) convivono con
parenti entro il quarto grado o con il coniuge cittadini italiani ovvero sono
genitori di minore cittadino italiano anche non convivente; (1d) versano in
condizioni di salute che esigono cure specialistiche particolari (a cui è
assimilata la gravidanza e almeno un anno successivo al parto); (le) i minori
degli anni 18 (per i quali cfr. il successivo punto 2).
Una
considerazione del tutto particolare, in termini di protezione, deve essere
riservata ai minorenni (e non soltanto agli infrasedicenni come previsto in gran
parte dei progetti di riforma e nei recenti decreti legge), in attuazione delle
numerose convenzioni internazionali che attribuiscono loro una sorta di
cittadinanza universale, con conseguente obbligo per il paese ospitante di
garantire la fruizione dei diritti fondamentali. Ciò comporta non solo il
divieto di procedere alla loro espulsione, al pari delle altre categorie
protette, ma anche specifici obblighi in positivo dello Stato. In particolare va
previsto per i minorenni comunque presenti in territorio italiano: (2a) il
rilascio di una carta di soggiorno valida sino alla maggiore età (con
possibilità di sua conversione al compimento del diciottesimo anno, secondo le
modalità indicate sopra, sub 11); (2b) l'accesso alla assistenza sanitaria e
alla istruzione obbligatoria in condizioni di parità con i coetanei italiani;
(2c) l'intervento di tutela, in caso di assenza dei genitori, dei servizi
assistenziali degli enti locali anche per valutare l'utilità educativa del
ricongiungimento con genitori o parenti nel paese d'origine.
La stabilizzazione e i diritti
L'esperienza
italiana degli ultimi anni ha evidenziato che l'aliquota degli immigrati
regolari (o regolarizzati con la sanatoria di cui all'Articolo 9 legge n.
416/1989) incorsi in reati o costretti in condizioni di assoluta marginalità è
estremamente limitata, a differenza di quanto accade per irregolari e
clandestini. Di qui un potente incentivo a politiche tese a favorirne
l'inserimento sociale e la stabilizzazione. 1 costi economici (pur rilevanti)
di queste politiche costituiscono investimenti necessari per la società del
futuro. L'impegno economico deve accompagnarsi ad un analogo impegno culturale
per realizzare sin d'ora una società multiecnica fondata sulla eguaglianza e
sulla parità di diritti (con esclusione di un diritto speciale dello
straniero).
Il
perseguimento della stabilizzazione e del positivo inserimento sociale dello
straniero richiede: l'affidamento di un ruolo di primo piano nel governo della
immigrazione agli enti locali fin dalla fase del primo ingresso con attribuzione
di una specifica competenza, supportata da corrispondenti risorse finanziarie,
per l'istituzione di servizi di prima accoglienza e orientamento idonei ad
agevolare l'ambientamento e l'informazione dello straniero; il trasferimento
agli enti locali delle competenze in materia di rilascio della carta di
soggiorno, quantomeno a partire dal primo rinnovo; il riconoscimento del
diritto alla residenza (presidiato da idonei strumenti per renderlo effettivo)
in caso di possesso di valido titolo di soggiorno, temporaneo o definitivo; una
modifica della disciplina della cittadinanza tesa ad agevolarne l'acquisizione.
Il
riconoscimento dello straniero come soggetto di diritti comporta il suo accesso
paritario alle prestazioni dello Stato sociale e l'erogazione di queste con
modalità
utili ai fini di una completa integrazione (a cominciare dall'inserimento di
operatori extracomunitari negli uffici e servizi pubblici). Condizione per tale
accesso è il possesso di valido titolo di soggiorno (non richiesto per le
prestazioni sanitarie necessarie, che devono essere assicurate a tutti sia per
ragioni umanitarie che per garanzia della incolumità pubblica).
Ulteriore
portato di questa impostazione è il godimento da parte dello straniero
immigrato dei diritti civili indipendentemente dalla esistenza di condizioni di
reciprocità (la cui ragion d'essere viene meno di fronte alla dimora stabile
sul territorio nazionale ed alla profonda differenza degli ordinamenti
nazionali).
Complementare
a quanto enunciato nei punti precedenti è la previsione della partecipazione
degli stranieri regolari alla gestione della comunità locale, anche con
riconoscimento dell'elettorato attivo e passivo in sede amministrativa. Ciò è
compatibile con l'assetto costituzionale (posto che l'Articolo 48 Cost.
prevede che tutti i cittadini sono elettori ma non che essi soltanto possono
esserlo) e conforme a quanto previsto per i cittadini dell'Unione europea
residenti in Italia dall'Articolo 11 legge 6 febbraio 1996 n. 52 (che ha
recepito la direttiva 94/80/ CE del Consiglio europeo).
Vanno
infine assicurate allo straniero adeguate garanzie di tutela giurisdizionale e
di difesa anche nei profili specifici della loro condizione. In particolare:
(5a) lo straniero che si trova (o assume di trovarsi) legalmente nel territorio
dello Stato "deve avere la possibilità di far valere le proprie ragioni
contro la sua espulsione sottoponendo il proprio caso all'esame della autorità
competente" (Articolo 13 Patto citato); (5b) tale controllo va potenziato,
esteso al merito e preferibilmente attributo, anziché al giudice
amministrativo, a quello ordinario (con procedimento simile alla opposizione
contro l'ordinanza applicativa di sanzioni amministrative prevista dalla legge
n. 689/1981); (5c) va assicurata, nel processo penale, l'effettività della
difesa con possibilità di accesso al patrocinio a spese dello Stato e
previsione
di traduzione degli atti fondamentali del processo in lingua comprensibile
all'interessato.
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