Convegno “Carcere e Immigrazione”, Firenze,
23 – 24 maggio 1999
Relazione dell’avvocato
Lorenzo Trucco, Presidente A.S.G.I. (Associazione
Studi Giuridici sull’Immigrazione).
Un’integrazione coatta
La situazione giuridica italiana relativa al fenomeno
complesso dell’immigrazione, attraversa attualmente una fase estremamente
delicata, in quanto si trova sottoposta ad un cambiamento normativo generale: a
distanza di poco meno di un decennio dalla prima legge organica in materia, la
cosiddetta legge Martelli (L.39/1990), è, infatti, stata emanata la legge 6
Marzo 1998 n.40, poi riassunta nel successivo “Testo Unico delle disposizioni
concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello
straniero” (D.L.25/7/98
n.286). Il correlato regolamento d’esecuzione della predetta normativa, seppur
in ritardo sui tempi indicati, è peraltro in corso d’emanazione, mentre il
disegno di legge organico riguardante norme in materia di protezione umanitaria
e di diritto d’asilo (DDL n.2035542425), già votato da un ramo del
Parlamento, attende la definitiva approvazione da parte del secondo.
È evidente che l’importanza del fenomeno
immigratorio, sotto tutte le sue componenti, sta determinando risposte di tipo
generale a livello normativo, a riprova della grande importanza dello stesso
nella situazione sociale e giuridica italiana. La società multietnica, oggetto
d’innumerevoli discussioni, è ormai comunque, un dato di fatto: l’ultimo
decennio in particolare, ha visto l’accadimento di conflitti costituenti veri
e proprie guerre, o crolli di regimi con conseguenti spostamenti di flussi di
persone, che si sono aggiunti in tal modo alle “normali” spinte emigratorie,
in relazione alle quali ha assunto un ruolo decisivo la sempre maggiore
disuguaglianza di condizioni di vita con paesi molto vicini geograficamente
all’Italia.
Nonostante questo, occorre comunque rimarcare come le
stime più attendibili elaborate dal Ministero dell’Interno indichino nel
numero di circa un milione e mezzo le presenze di stranieri regolari e
irregolari presenti sul territorio nazionale: il dato percentuale in relazione
alla popolazione globale italiana pone il nostro paese in una situazione
inferiore a quella di molti paesi europei.
In questo contesto va inserito il delicato discorso
del rapporto tra immigrazione e criminalità, troppo spesso enfatizzato senza
una corretta metodologia d’esame e approfondimento: lo stesso rapporto del
CENSIS nella ricerca presentata al Senato nell’Aprile del corrente anno
sottolinea come in relazione al fenomeno dell’immigrazione, l’evento di
carattere criminale, piccolo o grande che sia, “gode” di una risonanza che
altre tipologie d’eventi della vita comunitaria non hanno. È proprio per
questo che nel mondo dei media e in quello direttamente comunicante dei discorsi
diffusi questo tipo d’eventi gode di un ruolo che non sarebbe azzardato
definire “privilegiato”, perciò “l’evento criminoso che vede
protagonista l’immigrato spicca più di quello commesso dagli italiani”.
Pur senza addentrarsi in un esame dettagliato dei
dati statistici attribuiti al fenomeno della criminalità straniera, occorre
sottolineare alcuni aspetti significativi. Per quanto concerne le persone
straniere denunciate, in relazione all’anno 1997 (55.502), si rileva come nei
loro confronti siano stati ascritti reati contro il patrimonio o contro
l’economia o la fede pubblica per oltre il 70%, tra cui emergono in
particolare il furto (29,8% dei denunciati), i reati connessi al commercio degli
stupefacenti (oltre il 14%) e il reato di falsità (quasi il 9%).
La maggioranza dei reati ascritti agli stranieri
evince una sorta di produzione criminale “specializzata”, riguardante le
fattispecie criminose indicate, con particolare riferimento ai cosiddetti reati
da strada, o i reati di falsità che appaiono una conseguenza legata
strettamente alla condizione di clandestinità o irregolarità del soggetto. Il
citato rapporto CENSIS mette esattamente in rilievo come la criminalità
espressa dagli extracomunitari è prevalentemente di piccolo cabotaggio e
connessa sostanzialmente con situazioni d’irregolarità e clandestinità (ad
esempio reati di resistenza, oltraggio, falsità), situazioni di bisogno e
marginalità (ad esempio furto, rapina), o situazioni d’inserimento difficile
(ad esempio lesioni e percosse).
Un elemento in particolare assume un valore decisivo,
e va considerato come presupposto imprescindibile per ogni tipo d’analisi: i
reati sono commessi principalmente dai soggetti stranieri che si trovano sul
territorio nazionale in condizioni d’irregolarità o clandestinità. Il dato
assume valore ancor più pregnante se lo si confronta con la presenza dei
detenuti extracomunitari negli Istituti di Pena, laddove si raggiungono
percentuali dell’80 %.
Per quanto concerne, in particolare, la situazione
relativa agli ingressi degli stranieri in carcere, si assiste ad un’innegabile
e forte tendenza all’aumento. Il dato storico evidenzia come i detenuti
stranieri nel 1980 fossero 9.160 (9,9 % del totale della popolazione detenuta)
mentre nel 1998 diventano 28.731 (35,5 % del totale), anche se tale dato va
necessariamente correlato con le presenze degli immigrati stranieri sul
territorio nazionale, in quanto i regolari passano da 298.749 del 1980 a
1.240.721 del 1997.
Le cifre ora indicate meritano la massima attenzione,
proprio al fine di evitare, stante la delicatezza e complessità della
situazione, facili equazioni o ingiustificabili generalizzazioni.
Alcune considerazioni d’ordine generale si
impongono per accedere ad una lettura più profonda del fenomeno. Non bisogna,
infatti, dimenticare che ci si trova di fronte ad un soggetto generalmente
debole, in fascia d’alta emarginazione e proveniente da società
d’emarginazione ove il degrado è sempre maggiore, quando non provenga
addirittura da zone di conflitto generalizzato.
L’ingresso in carcere è inoltre determinato varie
volte da un’applicazione molto maggiore dell’istituto della custodia
cautelare, mancando spesso quegli elementi d’inserimento sociale, quale nucleo
familiare, residenza, attività lavorativa, che frenano l’irrogazione di tale
istituto nei confronti di soggetti italiani, a parità di reati contestati.
L’istituto degli arresti domiciliari ad esempio, o lo stesso obbligo di firma,
sono applicati in misura assai meno consistente proprio per le ragioni sopra
indicate. In sostanza, nei confronti dell’imputato straniero frequentemente
non vi sono misure intermedie, ma la scelta è solo tra il carcere e lo stato di
libertà.
Anche la concessione, per la seconda volta, del
beneficio della sospensione condizionale della pena, pur in presenza delle
condizioni previste dalla legge, avviene con molta minore frequenza rispetto a
corrispondenti situazioni relative ad imputati italiani, proprio perché
l’assenza di una situazione legale stabile costituisce un forte freno alla sua
applicazione.
Di pari rilevanza è la circostanza che proprio in
relazione alla debolezza del soggetto, alla scarsità di mezzi economici che si
traducono in una minore tutela difensiva, questi è portato ad optare per riti
alternativi: in particolare l’istituto della applicazione della pena su
richiesta delle parti, (il cosiddetto patteggiamento) risulta assai frequente,
anche come mezzo veloce di definizione del processo.
E questo appare ancor più confermato dalla tipologia
dei reati più frequentemente contestati agli stranieri, che, come sopra
ricordato appaiono mediamente d’entità ridotta. Sono questi i cosiddetti
reati di strada, che peraltro hanno la conseguenza di mettere in contatto nella
vita quotidiana la popolazione con piccoli furti, scippi, borseggi e truffe, che
determinano quella enfatizzazione dell’allarme sociale così spesso
sottolineato da parte dei media.
Se si considera la relativa stabilità del generale
dato della popolazione detenuta, appare veritiera la sussistenza del fenomeno
della “sostituzione”, con inserimento degli stranieri ai livelli più bassi
della gerarchia criminale: conferma in tal senso sembra provenire anche dal
crescente numero dei tossicodipendenti stranieri, il cui ingresso in carcere nel
1997 ha costituito una percentuale intorno al
27 % del totale dei tossicodipendenti nuovi entrati.
Si osservi inoltre come, proprio per il fenomeno
della precarizzazione sociale e dalla mancanza di permesso di soggiorno, oltreché
della volontà in molti casi di rendersi irreperibili, vari processi avvengono
in condizione di contumacia dell’imputato, con tutte le conseguenze che ne
derivano: prima fra tutte l’impossibilità del difensore, non munito di
speciale procura a hoc, di impugnare la sentenza. È da rilevare inoltre che la
frequenza di procedimenti con imputati irreperibili è determinata anche dalla
precarietà estrema delle abitazioni, spesso in comune con altri stranieri,
senza indicazioni precise che consentano l’effettuazione di regolari notifiche
degli atti giudiziari.
Si rileva inoltre la durata dei procedimenti relativi
ad imputati stranieri sia di frequente limitata ad un unico grado di giudizio, e
spesso con applicazione di riti alternativi, in particolare il patteggiamento.
Su tale ultima scelta incide anche l’uso frequente di false generalità, che
possono in un primo momento determinare un incompleto accertamento del
certificato penale, con applicazioni anche improprie del beneficio della
sospensione condizionale della pena.
Per quanto attiene al problema in generale
dell’istituto del diritto della difesa la delicatezza del medesimo è evidente
e la posizione dello straniero non fa che enfatizzare un problema reale
esistente anche in relazione ai cittadini italiani. La legge 30/7/1990 n°217,
relativa alla istituzione del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti,
che ha riformato l’istituto precedente del gratuito patrocinio, ha portato
sicuramente ad un miglioramento della situazione. Peraltro, per quanto concerne
gli stranieri, la relativa applicazione è ancora assolutamente scarsa, anche
perché vi sono alcuni ostacoli che appaiono al momento difficilmente
superabili. L’articolo 1 comma 6 della legge citata prevede l’applicazione
delle disposizioni in esso contenute solo nei confronti dello straniero
“residente”: questo significa che gli irregolari, non potendo avere una
residenza, ne sono esclusi, con la conseguenza che la maggior parte degli
imputati stranieri, essendo per lo più privi del permesso di soggiorno e
comunque di assai scarsa capacità economica, rimangono privi di una forma
efficace di difesa.
Vi è inoltre da rilevare come, anche per gli
stranieri regolarmente soggiornanti e residenti sul territorio della stato, le
difficoltà siano ugualmente assai elevate posto che, a seguito
dell’intervento della sentenza della Corte Costituzionale n° 219 del
1.6.1995, è necessaria la produzione d’attestazione dell’autorità
consolare competente della quale risulti che l’autocertificazione relativa
alla mancanza di redditi prodotti all’estero non è mendace.
Stante la nota situazione riguardante le autorità
consolari dei paesi maggiormente rappresentati, nonché la brevità dei termini
processuali, è facile comprendere l’uso assai ridotto di tale istituto da
parte dei cittadini stranieri. Rimane l’amara considerazione
dell’inapplicazione di una legge emanata per tutelare le categorie più deboli
di soggetti, ma che proprio a questi risulta di fatto inapplicabile. E questo è
tanto più grave laddove si consideri il ruolo sempre più importante e delicato
della difesa in ordine al nuovo sistema di procedura penale, laddove la
delicatezza delle scelte. Anche in relazione ai riti alternativi, richiederebbe
una tutela sempre maggiore.
La fase di esecuzione della pena merita sempre
maggiore attenzione. Anche in questo caso, proprio in relazione alla definitiva
delle sentenze nei confronti dei soggetti stranieri che è raggiunta in tempi
piuttosto rapidi, si enfatizzano problematiche già esistenti per i soggetti
italiani, cui peraltro si aggiungono alcune contraddizioni di fondo.
Se, infatti, le misure alternative alla detenzione
rappresentano una vera e propria conquista di civiltà, e hanno portato al
superamento del concetto di rigidezza della condanna inflitta, è altrettanto
vero che tali misure presuppongono nella quasi totalità un vero e proprio
inserimento del detenuto nel tessuto sociale: ma è purtroppo tale presupposto
che viene a mancare assai spesso nei confronti dei soggetti stranieri, la cui
maggioranza (le stime più accreditate indicano, come ricordato, una misura
vicino all’80 %) è priva di permesso di soggiorno, e dunque impossibilitata a
fornire elementi, primo fra tutti il lavoro, che possono determinare l’accesso
a misure alternative alla detenzione. Di conseguenza, la liberazione anticipata
rimane in buona sostanza quella maggiormente applicata ai soggetti stranieri.
Analogo problema si pone nei riguardi della
L.27.5.1998 n.°165 la cosiddetta legge Simeone, che ha portato su di un piano
ulteriore l’applicazione dei concetti base della legge Gozzini.
Il meccanismo automatico di sospensione della
esecuzione delle pene di entità non superiore ai tre anni, o quattro nel caso
di reati collegati con lo stato di tossicodipendenza, si presenta chiaramente
come un avanzamento sul piano della civiltà giuridica, ma rischia di essere
vanificato nei suoi scopi in relazione ai soggetti stranieri. Costoro, infatti,
spesso divengono irreperibili per le ragioni sovraesposte e dunque non
presentano alcuna istanza nei trenta giorni previsti dalla legge, con il
conseguente effetto della esecutività della pena.
Il rischio effettivo è quello di avere due sistemi
paralleli con applicazioni molto diverse tra soggetti stranieri e soggetti
italiani, anche se la norma appare neutra dal punto di vista dei principi
generali.
Parimenti delicata appare la situazione degli
imputati e detenuti stranieri minorenni: anche per costoro la fruizione dei
procedimenti speciali e specifici istituiti previsti dalla procedura loro
relativa appare assai difficoltosa, sempre per la generale precarietà della
loro posizione.
È peraltro da sottolineare che il T.U.286/98
riguardante la disciplina dell’immigrazione preveda speciali disposizioni a
favore dei minorenni, in particolare stabilendo il divieto di espulsione dei
medesimi e con ciò permettendo, quantomeno in teoria, la stabilizzazione sul
territorio tramite con la fruizione di un permesso di soggiorno.
È assolutamente basilare riaffermare il contenuto
centrale del valore della pena ai sensi dell’articolo 27 della Costituzione,
per cui la funzione rieducativa, e dunque di recupero ed inserimento del
soggetto, deve avere un valore assolutamente primario e decisivo. Un elemento
che si presenta come primario in relazione alla situazione dei detenuti
stranieri è sicuramente quello dell’isolamento dei medesimi, all’interno
del carcere e riguardo del mondo esterno.
Le ragioni sono molteplici: oltre a quelle evidenti
attinenti alla lingua, si rileva come, soprattutto nella fase esecutiva, i
contatti con l’esterno siano assai scarsi, e la presenza del difensore, che
spesso durante la fase di cognizione è l’unico tramite in tal senso, risulti
perlopiù irrilevante. È evidente allora come il ruolo degli operatori possa
essere assolutamente decisivo nel rompere tale isolamento, tanto più se si
considera che il nucleo familiare del detenuto straniero è spesso inesistente,
per ragioni attinenti alla giovane età dello stesso, nonché alla
caratteristica di buona parte di immigrazione che vede un solo soggetto del
nucleo muoversi: a ciò si aggiunga l’impossibilità giuridica di un
ricongiungimento familiare in assenza di permesso di soggiorno, reddito e
alloggio adeguati. Occorre pertanto la valorizzazione massima e la facilitazione
di tutte le forme di collegamento con l’esterno che possano in qualche modo
supplire alla mancanza del nucleo familiare. In tal senso il colloquio
telefonico può costituire un elemento rilevante, anche se spesso nella realtà
ostacoli pratici ne impediscono la fruizione, nonostante siano state emanate
disposizioni amministrative in merito.
È importante sottolineare come il documento
programmatico triennale previsto dalla L.40/98 relativo alle politiche
migratorie e predisposto dalla Presidenza del Consiglio faccia esplicito
riferimento alle categorie di persone straniere che “non hanno alcun punto di
riferimento in Italia, quindi necessitano di quel tanto in più rispetto agli
italiani, che normalmente è fornito dalla solidarietà della famiglia”.
Ribadisce il documento che “potrebbero essere utili quindi misure che
garantiscano il gratuito patrocinio per i detenuti stranieri, la traduzione dei
capi di imputazione e del regolamento carcerario”.
Le norme di carattere generale contenute nella legge
sull’Ordinamento Penitenziario devono rivestire un contenuto reale e non solo
di astratto principio: l’articolo 13 della Legge n° 354/75 prevede che “il
trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni della
personalità di ciascun soggetto”, mentre il successivo articolo 15 dispone
che “il trattamento del condannato e dell’internato è svolto avvalendosi
principalmente dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività
culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo
esterno ed i rapporti con la famiglia”.
L’articolo 33 del Regolamento di Esecuzione (D.P.R.
n.° 431/76) riguarda esplicitamente i detenuti e gli internati stranieri e
prevede espressamente che “nell’esecuzione delle misure privative della
libertà nei confronti di cittadini stranieri, si deve tenere conto delle loro
difficoltà linguistiche e delle differenze culturali. Devono essere favorite
possibilità di contatto con le autorità consolari del loro paese.
Di particolare rilevanza appaiono le disposizioni in
materia di religione e di culto, laddove all’articolo 26 è previsto che gli
“appartenenti a religione diversa dalla cattolica hanno diritto di ricevere,
su loro richiesta, l’assistenza dei ministri del proprio culto e di celebrare
riti”. In tal senso sono sicuramente da apprezzare recenti disposizioni a
livello di circolare che hanno agevolato anche la somministrazione dei pasti ad
orari che si adattassero alla pratica religiosa del “Ramadan” islamico,
favorendo altresì l’ingresso in istituto dei relativi rappresentanti
religiosi.
Si osservi ancora come l’articolo 56 del
Regolamento di Esecuzione favorisca la possibilità di espressioni differenziate
per quanto concerne i programmi delle attività culturali, ricreative e
sportive, a riprova del fatto che spesso non è la mancanza di disposizioni
normative a frenare una maggiore integrazione, ma la loro mancata o
insufficiente applicazione.
L’importanza del lavoro all’interno
dell’istituto di pena è eclatante: nei confronti di un soggetto detenuto che
è per lo più illegale sul territorio, con un legame precario e che ha
conosciuto nella grande maggioranza dei casi forme di lavoro in nero, il valore
del lavoro assume carattere decisivo di reale forma di “rieducazione”, con
la conseguente necessità della rimozione di ogni ostacolo burocratico.
In considerazione del fatto più volte rimarcato, ma
che anche costituisce veramente uno dei punti nodali relativi al fenomeno degli
stranieri detenuti, e cioè alla situazione di irregolarità della grande
maggioranza medesimi, appare evidente come un reale ed effettivo discorso di
inserimento sociale non può prescindere dalla possibilità di usufruire di un
permesso di soggiorno, anche se la questione si presenta assai delicata e si
scontra con il contrario dato normativo. La rigidezza, infatti, del sistema
previsto dalla L.40/98 non lascia spazi sul punto: è peraltro presente
l’importante disposizione di cui all’articolo 18 del T.U. (D.L.25/7/98 n.°286),
relativa al soggiorno per motivi di protezione sociale, riguardante lo straniero
che tenda a sottrarsi ad associazioni criminali. In presenza di accertate
situazioni di violenza o grave sfruttamento, lo straniero può, previo parere
favorevole o proposta del Procuratore della Repubblica, ottenere un permesso di
soggiorno della durata di sei mesi ma rinnovabile per periodi maggiori, che dà
la possibilità di svolgere attività lavorativa e a determinate condizioni può
essere convertito in un normale permesso di soggiorno. Trattasi evidentemente di
disposizione relativa a situazioni particolari, ma sicuramente lo spirito della
norma ha colto l’esigenza fondamentale di favorire l’integrazione e la
regolarizzazione.
D’altra parte è innegabile come vi sia una
stridente contraddizione tra il favorire giustamente l’attività lavorativa
dello straniero anche fuori dell’istituto penitenziario in regime di misura
alternativa, e il trovarsi di fronte, da parte dello stesso, ad un decreto di
espulsione al termine finale della pena per mancanza del permesso di soggiorno.
Si sottolinea inoltre la difficile e scarsa
applicazione alla popolazione straniera detenuta delle norme sulla
regolarizzazione recentemente intervenute, nonostante siano state date in sede
ministeriale disposizioni in merito, e nonostante la generale brevità delle
pene da scontare e i lunghi rinvii per la produzione della documentazione
necessaria potessero rendere applicabile in maniera più diffusa tale importante
normativa.
Occorre infine fare un breve osservazione sui Centri
di permanenza e temporanea assistenza istituiti con la L.40/98 e riguardanti
come noto, le persone colpite da provvedimento di espulsione e nei cui
confronti, non sia possibile eseguire con immediatezza il provvedimento mediante
accompagnamento alla frontiera. Trattasi di situazioni del tutto nuove rispetto
all’ordinamento giuridico italiano, prevedendo la privazione totale della
libertà della persona seppur per un periodo limitato (20 giorni, prorogabili al
massimo di altri 10 giorni), in assenza della commissione di un fatto
costituente reato.
L’articolo 14 comma 2 del Testo Unico prevede
espressamente che il trattenimento in tali centri avvenga con modalità tali
“da assicurare la necessaria assistenza ed il pieno rispetto della sua dignità”:
peraltro le esperienze al riguardo sono piuttosto contraddittorie e di livello
sicuramente basso (visto ad esempio quanto avvenuto in Sicilia lo scorso anno, o
la vicenda del Centro di Trieste chiuso dopo poco tempo per le assai deteriorate
condizioni generali).
L’esperienza degli altri paesi europei sul punto insegna che occorre porre la massima attenzione rispetto a questa particolare forma di “detenzione”, altrimenti si corre il serio rischio di fornire a persone che non sono formalmente detenute, condizioni generali di vita e di rapporti inferiori di molto allo standard riscontrato negli istituti di pena.