Convegno “Carcere e Immigrazione”, Firenze,
23 – 24 maggio 1999
Relazione
congiunta di Maria Grazia Grazioso (Direttore
del carcere di Sollicciano)
e di Luigi Pagano (Direttore
del carcere di san Vittore).
Problematiche relative alle attività trattamentali ed alle misure
alternative alla detenzione per i detenuti stranieri
Il carcere conferma, anche per quanto riguarda il
fenomeno dell’immigrazione, la sua connotazione di realtà che recepisce e
riproduce, con moltiplicazione di effetti, le problematiche e gli aspetti
presenti nella nostra società. Così è, per esempio, per la diffusione della
droga, per il dilagare del disagio psichico, e per quelli che, taluni studiosi,
definiscono come fenomeni di neopauperismo.
Per quanto concerne l’immigrazione, i dati
complessivi di riferimento sono di estrema evidenza: infatti rispetto ad una
media, nella popolazione generale, di presenza di immigrati inferiore, secondo
stime attendibili, di poco al 2 %, negli istituti penitenziari la presenza media
degli stranieri è di circa il 24 %.
Tralasciando le considerazioni che tale scarto
macroscopico può stimolare, in particolare circa la funzione del carcere quale
contenitore di marginalità, in questa occasione cercheremo di soffermare la
nostra attenzione sulla domanda : che fare, per questo “quarto” di detenuti
che è portatore di abitudini, di stili di vita, di valori culturali diversi dai
nostri e da quelli dei detenuti tipo, sul quale è ritagliata tutta la normativa
penitenziaria ?
La Legge 354/75 ed il conseguente regolamento di
esecuzione hanno, di sicuro, reso vigenti, attraverso il principio del
trattamento del detenuto, le previsioni costituzionali del 1948, affidando
all’esecuzione penale tanto il compito della custodia del reo, quanto quello
del suo recupero, della sua risocializzazione e del suo reinserimento nel
contesto sociale d’appartenenza.
Le fonti normative di cui sopra hanno comportato una
necessaria revisione e riorganizzazione operativa di tutto un settore
penitenziario che ha dovuto ripensare, in termini non solo custodialistici,
l’intero apparato, riadattando ai nuovi scopi e alla nuova funzione che la
legge attribuiva al carcere.
Ma la metodologia, gli strumenti e gli obiettivi
individuati dal legislatore del ‘75 avevano, come paramento di riferimento, il
detenuto cittadino, colui cioè che una volta scontata la pena sarebbe tornato a
far parte della nostra società; di conseguenza l’impianto normativo, nel suo
complesso, mal si sta adattando ad una realtà che, all’epoca della sua
emanazione, era pressoché sconosciuta.
I detenuti stranieri, ed in particolare gli extra
comunitari, negli anni ‘70, infatti, costituivano, di sicuro, un fenomeno
quasi inesistente.
Ai giorni nostri, invece, questa realtà è diventata
considerevole al punto che in molte strutture penitenziarie del nord e del
centro nord (specie nelle grandi città) costituisce la più alta percentuale
che va dal 40 al 60% della popolazione detenuta presente negli istituti,
comportando ciò tutta una serie di problematiche specifiche e di difficoltà
operative, collegate ad una tendenziale impossibilità di applicazione, per tali
soggetti, dei particolari meccanismi e dei percorsi previsti dalla legge per il
raggiungimento delle sue finalità.
La prima evidente contraddizione la si trova rispetto
ad un fondamentale principio contenuto nell’Articolo 1 comma 2 della normativa
in esame.
Tale norma parla, infatti di una imparzialità del
trattamento, affermando che non deve sussistere nessuna discriminazione “in
ordine e nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni
politiche e a credenze religiose”. Per il detenuto straniero invero, accade
che “ a parità di pena da espiare “ si può invece parlare di un surplus di
sofferenza “legale”. Spesso, in effetti, si determinano mancanze di rapporti
con gli altri detenuti, continui trasferimenti per sfollamento e impossibilità
a telefonare e ad effettuare i colloqui con i familiari, scarsa possibilità di
lavoro qualificato intramurario e la difficile ammissione a misure penali
alternative alla detenzione in quanto inconcepibili per assenza di condizioni
oggettive.
Si può dunque, definire la condizione degli stranieri che si imbattano nell’area penale e penitenziaria di sostanziale attenuazione, ed in alcuni casi di negazione, dei diritti- normativamente sanciti. Il principio di imparzialità, perciò è puntualmente applicato solo formalmente in quanto in nessun Istituto Penitenziario vi sono regole differenti a seconda dell’etnia di appartenenza dei detenuti. Ma proprio in virtù di ciò si finisce, in pratica, per non garantire una uguaglianza di fatto visto che le regole che vengono applicate e le attività che vengono poste in essere pensate e funzionali rispetto ad una popolazione stanziale, appartenente, cioè, al nostro territorio, alla nostra cultura, ai nostri usi e costumi.
Vediamo, ora, quali sono i momenti di maggiore
difficoltà operativa e di maggior crisi ipotizzando un ideale percorso del
detenuto straniero che inizia con l’entrata nell’istituto e termina con la
sua dimissione.
La fase dell’ingresso si caratterizza nella
immatricolazione. In tale operazione la difficoltà principale sorge dalla quasi
totale assenza di documenti di identità. Emergono pertanto spesso dubbi sia sul
nome (gli alias sono numerosi e contraddittori) sia sulla età delle persone e
ciò in considerazione del fatto che spesso il soggetto dichiara false generalità
nella convinzione, o nel tentativo, di ottenere qualche beneficio. In molti casi
per fugare i dubbi sull’età si deve ricorrere all’apposito esame
radiografico del polso atto a dare indicazioni più precise in merito.
All’avvenuta immatricolazione segue la visita
medica di ingresso da parte del Sanitario, il colloquio del presidio nuovi
giunti effettuato dallo psicologo, nonché, ove possibile, il colloquio di primo
ingresso svolto in genere dall’educatore.
In tutti e tre questi momenti la situazione di
maggiore difficoltà è collegata alla non sempre facile comunicazione e
comprensione linguistica da parte sia del detenuto che dagli operatori.
Può infatti succedere, e spesso succede, che il
soggetto non parli o non conosca a sufficienza la nostra lingua con tutte le
logiche conseguenze che da ciò discendono rispetto ai momenti in questione.
Il Sanitario infatti ha difficoltà ad acquistare
dati anamnestici attendibili o ad orientarsi rispetto ad ipotetiche patologie
che potrebbero essere solo simulate o strumentali a richieste di ricoveri in
luoghi esterni di cura.
Lo psicologo ha difficoltà ad usare come corretto
strumento di relazione il linguaggio verbale e , soprattutto, ha problemi
nell’utilizzare sussidi psicodiagnostici quali test proiettivi, in quanto
questi rispecchiano regole culturali ed abitudini diverse da quelle di
appartenenza degli extracomunitari.
Inoltre risulta difficile trovare un terreno comune
anche per il linguaggio non verbale, perché la gestualità è legata a precise
regole di costume, ad esempio la semplice stretta di mano, che nel nostro codice
comportamentale significa rispetto e patto di non aggressione, non può essere
sempre utilizzata sia perché molti stranieri da loro non viene usata come
rituale comunicativo, sia perché nella cultura di alcune razze un contatto
fisico tra eterosessuali è possibile solo tra il marito e moglie in virtù di
precise regole religiose.
Altra difficoltà è il riconoscimento del ruolo, nel
senso che è difficile far comprendere, a chi è al di fuori di determinate
logiche, la professionalità dello psicologo o dell’educatore e pertanto
risulta difficile motivare il soggetto a essere collaborativo e a dare delle
risposte non evasive o se non addirittura menzognere.
In tal senso, dunque, si comprende come il servizio
psicologico messo a disposizione di tali detenuti finisca per essere spesso
privo di qualunque risultato in quanto non solo non è in grado di individuare i
reali rischi per i gesti di aggressività o di autolesionismo, ma non è neanche
in grado di contrastare adeguatamente lo stato d’ansia ed il turbamento
collegabili all’entrata in carcere.
Quanto detto rispetto al presidio nuovi giunti si
manifesta, poi, anche durante la rimanente fase della carcerazione, poiché le
resistenze, non solo linguistiche, ma spesso culturali, permangono nel soggetto.
Tutto ciò, inoltre, vale pure rispetto al colloquio
di primo ingresso con l’educatore, al quale, resta difficile non solo
individuare i problemi esterni lasciati dallo straniero all’atto
dell’ingresso in carcere, ma è altrettanto difficile riuscire a spiegare o
far comprendere al medesimo, le regole che il carcere nonché il tipo di
organizzazione e di vita interna predisposta.
Infine, sempre rispetto alla gestione generale del
detenuto straniero in ambito penitenziario, è di fondamentale importanza
affrontare l’aspetto che riguarda l’adeguata e specifica preparazione del
personale penitenziario nel suo complesso e specie di quelle professionalità
che maggiormente devono entrare in relazione col detenuto in questione.
Il personale, infatti, dovrebbe essere messo in
condizione non solo di comprendere i bisogni dei soggetti extracomunitari ma
anche di decodificare situazioni e comportamenti nonché interagire con essi
rispetto alle finalità istituzionali da raggiungere..
In pratica le varie figure operative presenti
all’interno del carcere dovrebbero, attraverso un opportuno momento di
formazione e quindi di riflessione, poter abbattere stereotipi per attivare ed
armonizzare i necessari interventi.
Esistono rimedi attuabili a quanto fino ad ora
evidenziato? In primo luogo si può ricorrere a definire accordi con gli EE.LL.,
con le associazioni di volontariato, ed in generale con il terzo settore, volti
a fornire la disponibilità di interpreti nelle varie lingue. Questi ultimi
dovrebbero intervenire, come supporti, nei momenti di bisogno e attraverso la
loro opera si dovrebbero acquisire utili elementi di conoscenza nonché fornire
al detenuto quelle necessarie informazioni rispetto alle regole ed alle
possibilità che la vita intramuraria offre.
E’ necessario, inoltre, pensare di inserire figure
di mediatori culturali nonché puntare su una regolare presenza di operatori che
dovrebbero provenire dalla stessa regione geografica degli immigrati ; ciò,
infatti, consentirebbe tanto di procedere nella traduzione dei messaggi
significativi tra l’istituzione e lo straniero e viceversa, quanto porterebbe
a mettere il soggetto in contatto con i servizi e le opportunità che il carcere
offre: lavorative, culturali e ricreative.
Ai mediatori culturali, quindi, andrebbero affidati
compiti:
- di interpretariato:
- di letture e decodificazione di comportamenti,
abitudini, e modi di fare;
- di verifica di prospettive
postpenitenziarie;
- di formazione professionale (valorizzando eventuali
capacità per la produzione di artigianato tipico dei paesi di origine);
- di orientamento al lavoro per quelle professionalità
la cui richiesta sul mercato è particolarmente evidente.
La mediazione per come rappresenta è certamente
necessaria per sdrammatizzare l’inclusione dello straniero nel contesto e
consentire una corretta relazione fra l’immigrato e l’ambito ove viene ad
inserirsi. Ambito inteso anche come mondo di relazioni e quindi contesto
comunicativo fatto di operatori e detenuti.
Mediazione anche come traduzione per l’immigrato
dei contenuti e dei significati di riferimento della cultura del Paese che lo
ospita.
Il collegamento e la collaborazione con le risorse
del territorio, elementi indispensabili per la realizzazione degli interventi di
mediazione accennati, risentono, però, della non omogeneità con cui le agenzie
locali affrontano le problematiche derivanti dalla detenzione straniera.
Si assiste in tal senso ad esempi di proficua e
consistente cooperazione attivata in alcune realtà locali e viceversa a
evidenti carenze di iniziative e disponibilità per altre.
Sarebbe, pertanto auspicabile un intervento, da
attivarsi anche mediante la “Conferenza permanente” Stato- Regione, che
tendesse a regolamentare e promuovere in maniera più uniforme impegni
reciproci.
Sarebbe altresì, utile, poter disporre, ed in tal
senso il D.A.P. si sta attivando, di un opuscolo tradotto nelle varie lingue
contenente l’estratto delle fondamentali norme dell’ordinamento
penitenziario e del regolamento di esecuzione. Attraverso di esso, infatti, si
faciliterebbe all’extracomunitario l’inserimento in un ambiente certamente
particolare come il carcere, limitandone la possibilità di incorrere in
ulteriori momenti critici o in sanzione disciplinari a causa della non
conoscenza delle regole.
Una ulteriore situazione di difficoltà operativa,
nella gestione del detenuto straniero, è quella attinente alla ubicazione del
soggetto. Infatti a causa della posizione processuale e dei sovente divieti di
incontri posti dall’Autorità Giudiziaria, nonché per le varie rivalità oggi
esistenti tra i diversi gruppi e per le resistenze e rifiuti posti in atto dagli
altri ristretti, ci si trova a gestire, con sempre maggior frequenza,
conflittualità e contrasti spesso molto problematici e critici.
Altro punto dolente nella vita quotidiana
penitenziaria degli extracomunitari é quello relativo all’alimentazione.
Viene, in genere, lamentata la mancanza di cibi adeguati tanto alle diversi
abitudine e tradizioni alimentari quanto ai diversi obblighi connessi al credo
religioso. Il problema non è di semplice soluzione.
In sostanza anche ove fosse ipotizzabile effettuare
variazioni alle tabelle vittuarie, risulterebbe poi del tutto farraginoso e
complesso riuscire a organizzare concretamente una separata preparazione e/o
distribuzione del vitto per tali soggetti.
Per ovviare a quanto appena rappresentato, si
potrebbe ipotizzare la creazione di
appositi spazi idonei a consentire il mantenimento delle loro tradizioni e nel
contempo fornire momenti di interrelazione
e scambio con gli altri gruppi etnici e con la nostra cultura.
Ulteriore difficoltà è costituita dalla scarsa
possibilità di soddisfare le pressanti e continue richieste di lavoro
intramurario.
Lo straniero si trova spesso solo
ad affrontare la carcerazione ed in tal senso necessiterebbe di una, sia
pur limitata, occupazione lavorativa capace di potergli
fruttare un minimo
di reddito da utilizzare per la propria sussistenza in carcere e per
affrontare spese legali e di giustizia. La normativa
vigente detta i criteri per l’ammissione alla attività lavorativa intramurale:
occorre assicurare tali possibilità
prima ai condannati e agli internati e successivamente ai ricorrenti ed
appellanti.
Da ultimo agli imputati. Poiché la maggior parte
degli immigrati risulta essere imputata, è difficile assicurare in tempi brevi
a costoro un’attività lavorativa. Si consideri, inoltre, che in questi ultimi
anni si è assistito, per scarse risorse finanziarie, ad un progressivo
taglio sulle tabelle dei posti di lavoro all’interno dei penitenziari
il che ha reso ancor più problematica la situazione.
Sembra, invece, essersi risolta la questione della
attribuzione del codice fiscale
anche in assenza dei documenti di identità grazie alla recente circolare del
Ministero delle Finanze del 15/01/1999 sollecitata dal nostro DAP che ha in materia regolamentato la procedura
con circolare del 12/4/1999 (vedasi allegati).
Rispetto al
principio normativo volto a garantire la libertà di professare la propria fede
e di praticarne il culto, merita osservare che negli II.PP. è istituzionalmente
presente solo il Cappellano cattolico mentre per le altre religioni si può
ricorrere, su richiesta dell’interessato, all’assistenza del ministero del
proprio culto. Di fatto, dunque, anche sul piano della pratica religiosa vi è
un diverso trattamento e ciò si fa ancora più marcato e discriminante ove si
consideri che non tutte le confessioni religiose, come ad esempio quella
islamica, hanno ministri di culto riconosciuti dal Ministero dell’Interno e di
conseguenza, in tali casi, non è possibile garantire quella assidua, costante
assistenza religiosa richiamata dal principio generale enunciato dalla norma.
Occorre altresì precisare che in alcuni città,
esponenti della religione musulmana, benché sollecitati dalle Direzioni degli
Istituti Penitenziari, hanno rifiutato di fornire assistenza religiosa ai
soggetti detenuti in quanto secondo il loro costume la violenza della legge
avrebbe comportato automaticamente la violenza della norma coranica.
Nonostante con gli sforza e tutti i necessari
supporti via vai ricercati e introdotti nel carcere, i risultati operativi
rispetto agli obiettivi ideati dal legislatore del 75 sono stati nei confronti
dei detenuti stranieri, alquanto scarsi e pochissimi sono stati i soggetti che
hanno potuto usufruire di situazioni favorevoli sotto il profilo della
risocializzazione e del reinserimento sociale.
Relativamente ad alcuni dei più importanti aspetti
della detenzione, quelli cioè legali ai rapporti con i familiare e con
l’esterno, va detto che lo straniero quasi mai ha la possibilità di
effettuare colloqui visivi e telefonici con i suoi familiari poiché questi in
genere risiedono all’estero.
E’ da evidenziare che oggi sono intervenute alcuni
modifiche normative che cerano di agevolare tali contatti, ma la situazione
permane, comunque, nella sua complessità.
1.
La legge 296/93 ha modificato la disciplina sull’ascolto e la
registrazione delle telefonate per cui attualmente per consentire il
collegamento telefonico basta che l’utenza sia confermata come appartenente al
nucleo familiare, da parte della rappresentanza consolare.
2.
La legge sull’autocertificazione che permette, sempre attraverso il
riscontro Consolare, di poter consentire colloqui anche in assenza di
certificazione anagrafiche. In ogni caso i colloqui e le telefonate vengono
effettuate in bassa percentuale a causa di difficoltà di collegamenti con
l’estero, di mancanza di fondi e di accertamenti delle parentela. Vero è che
con circolare n° 3478/5928 dell’8 luglio 1998 è stato precisato che anche
gli stranieri possono godere della facoltà di autocertificazione, ma ammesso
che ciò sia legittimo anche per gli irregolari, cosa di cui si può dubitare i
controlli che si dovrebbero operare successivamente e a campione sono spesso, in
pratica, inattuabili.
In merito al problema delle telefonate si auspica che
la modifica del regolamento di esecuzione in fase di realizzazione, recepisce
l’esigenza di una maggiore liberalizzazione dell’uso delle telefonate in via
generale e quindi, di fatto, faccia superare il problema stesso.
Per quanto riguarda la tematica dell’osservazione
della personalità del detenuto straniero, tematica direttamente collegata alle
possibilità trattamentali dello stesso, occorre misurarsi con l’obiettiva
difficoltà di acquisire dati sul contesto di appartenenza.
Pur cercando di incrementare il contatto con i
congiunti, non si è certo in grado di effettuare la prevista indagine
socio-familiare di cui all’articolo 27 Reg. Esec. E di conseguenza
l’osservazione e l’anamnesi del soggetto rimangono necessariamente
incomplete. Non si può inoltre, non osservare che il detenuto straniero mostra,
senza dubbi, una maggiore difficoltà di adattamento alle norme penitenziarie
con conseguenti condotte che spesso sfociano in deferimenti all’A.G. ed in
provvedimenti di carattere disciplinare che certamente non contribuiscono ad un
miglioramento della posizione intraumaria del soggetto.
Anche in virtù di ciò difficilmente è possibile
applicare nei confronti del detenuto extracomunitario le C.D. misure alternative
(permessi premio, affidamenti, semilibertà vengono concesse occasionalmente per
mancanza dei presupposti o dei requisiti previsti). In sostanza il detenuto
straniero finisci per scontare una maggiore permanenza media rispetto agli altri
detenuti a parità di pena da espiare.
I soggetti di cui trattiamo non hanno, quasi mai,
punti di riferimento esterni o se li hanno sono quelli C.D. “in nero” o
contigui alle aree criminali. Di conseguenza né in fase di iter processuale né
in quella esecutiva riescono ad ottenere misure diverse dalla detenzione. Gli
istituti alternativi del codice di procedura e dell’ordinamento penitenziario
sono loro sostanzialmente preclusi compresa la liberazione anticipata, e ciò,
paradossalmente, a causa delle pene spesso troppo basse. Neppure i
tossicodipendenti, ed ormai il 70% dei detenuti tossicodipendenti sono stranieri
e quasi tutti appartenenti all’aria magrebina, hanno alcuna possibilità perché
non vengono presi in carico dai servizi e, conseguentemente, non possono
beneficiare della normativa particolare vigente.
Una lettura di questo genere porta ad evidenze
inquietanti: le misure alternative che vengono concesse sulla base della
mancanza di pericolosità sociale e sulla possibilità di trovare su punti di
appoggio esterno, vengono in sostanza negate agli stranieri per mancanza di
condizione oggettive e quindi il sillogismo si completa nel senso che si tengono
in carcere persone non particolarmente pericolose, ma solo perché mancano di
lavori, di famiglia, di case. In pratica lo stato di precarietà in cui sono
costretti rappresenta il discrimine per la permanenza in carcere.
La sensazione è che, per tali soggetti, il carcere
sia divenuto un megacentro di accoglienza. E’ solo il caso di far notare, per
apparente paradosso, che il carcere offre, poi tutta una seria di servizi spesso
inesistente nella realtà esterna. E’ certamente necessario ed indispensabile
che gli EE.LL. si assumano l’onere di predisporre punti di appoggio ed
assistenza ove i detenuti stranieri in permesso o in misura alternativa e che
assumano l’onere finanziario delle spese collegate a trattamenti terapeutici.
Una volta in carcere anche lo straniero, dovrebbe
poter beneficiare di tutti quegli interventi psico-socio-riabilitativi previsti
dalla normativa per i detenuti in generale ed utili per la loro
risocializzazione ed il loro reinserimento sociale. Ma come già accennato per
gli operatore dell’area educativo-trattamentale, operare con il detenuto
straniero non è facile.
Anche sotto l’aspetto degli interventi scolastici,
formativi e culturali, in genere, la situazione per il detenuto extracomunitario
non è sempre agevole. La scuola si è certamente adatta alle diversi realtà ed
alle diverse esigenza che questi esprimono ed in molti casi rappresenta il primo
importante momento di autentica comunicazione e scambio con gli operatori
istituzionali.
Tramite la scuola il detenuto impara o affina la
lingua, si avvicina ai nostri costumi e alle nostre regole, comprende o inizia a
comprendere una diversa realtà sociale.
Lo straniero detenuto nelle maggior parte dei casi ha
una scolarità bassissima se non è addirittura analfabeta. Spesso non conosce
la stessa lingua ufficiale dei paesi d’origine esprimendosi abitualmente nel
dialetto della regione di provenienza.
I corsi scolastici di alfabetizzazione per detenuti
stranieri appositamente istituiti già da alcuni anni all’interno di varie
realtà penitenziarie si sono nella, maggior parte dei casi, rivelati
utilissimi: da un lato, infatti, si è promossa l’attività di
alfabetizzazione strictu sensu, finalizzata all’apprendimento delle nozioni
essenziali per la conoscenza della lingua italiana; e dell’altro si sono
attività corsi di apprendimento dell’italiano attraverso lo svolgimento di un
programma di cultura generale.
Nell’ambito della scuola lo straniero instaura
rapporti anche con gli altri detenuti di diversa nazionalità ed in tal senso
comincia ad assumere un atteggiamento più aperto e collaborativo.
Un aspetto collegabile in qualche modo alla scuola è
quello relativo alla formazione professionale. I corsi istituiti nel carcere
sono in genere previsti e programmati in virtù delle esigenze di una
popolazione locale nonché in virtù della necessità che il nostro mercato del
lavoro richiede. E’ evidente quindi che ancora una volta le attività in
questione penalizzano le diversità degli stranieri che potrebbero essere invece
coinvolti e maggiormente interessati a formazioni di altro genere come quella al
maggior sfruttamento delle risorse naturali dei loro paesi; ad attività
artigianali collegate alle materie prime disponibili nei loro territori ecc.
Inoltre una formazione, collegate ai bisogni dei luoghi di origine potrebbe, in
pratica, fornire e stimolare anche l’idea di un eventuale rimpatrio al termine
della pena. Varie realtà penitenziarie si sono attivate rispetto
all’elaborazione di specifici interventi e progetti a favore dei detenuti
stranieri (vedi allegati).
Grazie al contributo ed alla collaborazione dei vari
EE.LL. sono stati ideati e realizzati progetti di vario tipo ed anche di un
certo rilievo, come iniziativa culturali in lingua madre, spettacoli musicali
ecc. Volti ad affrontare ed in qualche modo tamponare alcune delle problematiche
esposte. Diverse Regioni hanno già stipulato in materia specifica protocolli di
intesa con l’Amministrazione Penitenziaria che definiscono precisi impegni
reciproci. E’ questa la strada da percorrere, cercando di renderla quanto più
possibile, uniforme rispetto all’applicazione in tutto il territorio
nazionale.
E’ auspicabile altresì che anche le autorità
Consolari, siano adeguatamente sensibilizzate e chiamate ad effettuare
interventi operativi a favore dei propri connazionale durante l’esecuzione
della pena.
Con amarezza si è dovuto però constatare che
tutt’oggi le richieste avanzate dalle Direzioni rimangono spesso pressoché
insoddisfatte.
Per concludere si potrebbe dire che, da un punto di
vista strettamente antropologico il carcere, è diventato uno spazio
transnazionale ove culture diverse convivono, talvolta si confrontano, tal altra
si scontrano. Una comunità multietnica, quindi, ed inoltre a “intenso
contatto umano”, ove è necessario, non fosse altro che per le esigenze di
pacifiche convivenze, operare per la creazione di un contesto comunicativo _-
ove possa trovare spazio la mediazione - in cui ci sia: disponibilità
all’ascolto; legittimazione dell’altrui punto di vista; consapevolezza che
la comunicazione è in termini culturali, negoziazione permanente e scambio
paretico.
Sono queste le condizioni perché in carcere trovi
sempre maggiore spazio la predisposizione all’apprendimento, inteso come
dialettica di pluralità ed interazione di segmenti di complessità, per una
gestione delle situazioni conflittuali ispirata al superamento degli
atteggiamenti autoaffermativi ed autoreferenziali.
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