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18 dic. 2000

Xenofobia e nazionalismo i mali della nuova Europa

di SLAVENSKA DRAKULIC -

 

VIVO tra la Svezia, la Croazia e l'Austria. Casa mia è l'Europa. Ricordo ancora quando, un paio di anni fa, fu eliminato il controllo alla frontiera tra Austria e Italia. Passammo il confine a Klagenfurt, aspettandoci semplicemente che la polizia non ci fermasse, invece la polizia proprio non c'era, solo garitte vuote. Che sollievo, soprattutto ripensando alla strana sensazione che avevo provato nel 1991, attraversando per la prima volta la nuova postazione di confine tra Slovenia e Croazia. Come europea dell'est so anche che cosa si prova a fare la fila per il check-in all'aeroporto sotto un cartello che recita "extra Ue" o a volte, laconicamente, "altri". Vivendo da una parte e dall'altra dei confini europei, reali e immaginari, e facendo avanti e indietro continuamente, devo dire che appena un anno fa credevo più di adesso nel progetto di costruire un'Europa unita. Certo, era prima delle elezioni in Austria, Norvegia e Svizzera o nella città di Anversa, prima del referendum sull'euro in Danimarca, prima che accadessero incidenti come quello di Malaga, con una banda aizzata da un sito neonazista che per tre giorni da la caccia a dei lavoratori marocchini. Tutta l' Europa è turbata da una serie ben più numerosa di eventi. E' come se davanti agli occhi mi apparisse all'improvviso un'Europa diversa che, a guardarla, mette i brividi. Non si tratta di un "déjà vu", la mia generazione non ha vissuto il fascismo, ma vedo crescere xenofobia, nazionalismo e razzismo ovunque. Inoltre, considerando che provengo dalla Croazia, so perfettamente quando la paura dell'Altro comincia a diventare preoccupante e mi chiedo se quelli di oggi siano incidenti isolati, o piuttosto già segni che il progetto di integrazione europea rischia di perdere slancio. La mia generazione è cresciuta nel convincimento che una guerra con genocidio, campi di concentramento e insediamento forzato di intere popolazioni fosse semplicemente impossibile dopo la II guerra mondiale. Gli insegnanti di storia ci dicevano che l'Europa aveva imparato la lezione e che orrori simili non sarebbero mai più avvenuti. Oggi, dopo la guerra nel mio paese, in Bosnia e nel Kosovo, non credo più che l'Europa abbia imparato la lezione. Ma forse mi sbaglio. Dopo tutto l'ultima guerra non si è svolta proprio in Europa, ma nei Balcani. I Balcani sono Europa? Oggi pare di sì, anche se domani si potrebbe decidere diversamente. Ma se è così, allora che cos'è l'Europa e fin dove arriva? Tornando indietro ai miei giorni di scuola, anche questo era in un certo senso più chiaro. L'Europa era dove non era l'Unione sovietica. I grandi cambiamenti politici degli ultimi dieci anni hanno offuscato questa certezza infantile. L'Europa di oggi non è più una questione di geopolitica o di definizione dei confini ad Est, e neppure di unità economica , quanto piuttosto di attitudini, definizioni, istituzioni, di un certo paesaggio mentale. Non ci sono più cortine di ferro a semplificare le definizioni. Durante gli ultimi dieci anni, i popoli d'Europa sono stati testimoni del crollo del comunismo e della sparizione del comune nemico, dell'accelerazione del processo di integrazione all'interno dell'UE, del suo previsto allargamento ad est come della guerra nei Balcani. Allo stesso tempo il processo di globalizzazione sembra inghiottire il mondo intero. Questi cambiamenti però sono avvenuti troppo velocemente perché la gente potesse capirli, afferrarli completamente. La reazione è stata quella solita all'ignoto, accompagnata da un senso di incertezza e di paura. Il mondo conosciuto si dissolve davanti agli occhi senza che il nuovo abbia preso ancora completamente forma e sia comprensibile. Che cos'è in realtà l'Europa e quanto può espandersi ad est restando ancora Europa? La Turchia è Europa? E la Russia allora? Non sono interrogativi astratti. La base del problema è come questi cambiamenti influenzeranno la vita degli europei, il loro lavoro, il reddito, l'istruzione, la lingua e così via. Sempre più persone hanno la sensazione di stare perdendo la possibilità di controllare la propria vita. Pur vaga che sia, cioè, questa preoccupazione ha già effetto sulla vita politica di alcuni paesi e potrebbe presto portare a mutamenti sostanziali nel paesaggio politico europeo. Sfruttare la paura è un meccanismo semplice e ben noto. Come individui ci si può sentire persi e confusi, spazzati via dalla velocità e dalla grandezza degli eventi storici. Tutto a un tratto ecco qualcuno che ti offre un rifugio, un senso di appartenenza, una garanzia di sicurezza. Siamo dello stesso sangue, apparteniamo alla stessa terra, il nostro popolo innanzitutto, così recita la retorica. Ad orecchie spaventate, parole fuori moda come sangue, suolo, terra, noi, loro, suonano consolatrici. Sembra che la nuova, più scura immagine dell'Europa abbia iniziato ad emergere con la vittoria della Fpoe di Joerg Haider in Austria un anno fa. La verità è però che quel successo elettorale ha reso l'ansia solo più visibile. Haider è quello che ha avuto più successo, ma ci sono altri, come Umberto Bossi, Chrisoph Blocher, Karl Hagen, Edmund Stoiber, Filip Dewinter, Pia Kjersgaard o Jean-Marie LePenn che stanno recuperando bene. Recentemente in Belgio il partito ultranazionalista Vlaams Blok, ottenendo il 10% dei voti nelle elezioni politiche ha celebrato la più grande vittoria dell'estrema destra in Europa da quando la Fpoe è entrata a far parte della coalizione di governo in Austria. E' chiaro, insomma, che i partiti dell'ultradestra hanno crescente successo in tutta Europa. Ciò che emerge non è necessariamente ancora una volta un'immagine di camicie brune e nere, ma un'immagine di preoccupazione crescente tra la gente. I partiti di destra, sfruttano quest'ansia facendo montare la paura con la retorica populistica, ma è anche vero che sono gli unici ad avere il polso della situazione, a riconoscere questo sentimento di angoscia. L'ansia si sta estendendo anche all'Europa post-comunista. All'entusiasmo dei primi anni dal crollo del comunismo si è sostituita la delusione. Ancora una volta l'Europa unita sembra lontana, oggi ci sono altri muri, diversi da quello di Berlino, le condizioni di ingresso nell'Ue sono difficili da soddisfare. Questo non fa che aprire spazi ai nazionalisti e agli anti europeisti i quali sostengono che non si dovrebbe rinunciare con troppa facilità alla sovranità nazionale appena riconquistata. Non sorprende che sia uno Slobodan Milosevic ad usare questo linguaggio, ma anche democratici come Vaclav Klaus, ex primo ministro ceco, si esprimono apertamente contro l'Ue. Il successo dei partiti nazionalisti di destra, xenofobi e antieuropei, e dei leader populisti si presenta come un pericolo sia nell'Europa dell'ovest che in quella dell'est. Se continuano ad estendere la loro influenza sfruttando preoccupazioni e paure su cui nessun altro vuole impegnarsi, possono davvero minare il processo di integrazione. I loro leader dicono alla gente che perderà la sovranità nazionale, la sua cultura, la sua lingua e così via, che l'identità nazionale, culturale e sociale è a rischio. Non solo gli stranieri porteranno via tutti i posti di lavoro ma, ciò che conta di più, la società stessa sarà resa irriconoscibile. Nel linguaggio della destra il termine società multiculturale significa disintegrazione culturale e suona minaccioso agli orecchi della gente. Non è importante se preferiamo definirlo egocentrismo politico, nazionalismo regionale o nuovo regionalismo, il risultato è ovunque lo stesso: omogeneizzazione, avvio di meccanismi difensivi, politiche isolazioniste. D'altra parte in stati di recente formazione, come la Croazia, si può facilmente osservare come si costruisce un'identità nazionale e come si inventano i simboli di questa identità, in gran parte traendoli da miti e reinterpretazioni storiche. E' semplicemente una prova di quanto sostenuto dalla moderna antropologia, che le identità nazionali, cioè, non rappresentano un insieme di caratteristiche culturali, storiche e sociali eterne e preconfezionate. In altre parole, ciò che giudichiamo un supporto fondamentale per l'individuo non è altro che una costrutto culturale, che è inventato, non "naturale". Ma alla retorica populista arcaica di Franjo Tudjman non interessa sapere che un'identità si costruisce sempre in relazione agli Altri, vuole solo escludere questi Altri, cioè i Serbi. Eppure sulla base delle esperienze di emigrati, coppie miste, e abitanti di località di confine, gli antropologi dimostrano che è possibile identificarsi con più di una nazione e di una cultura. Una volta in Germania ho incontrato in treno un Gastarbeiter turco che si lamentava perché "Quando sono in Germania mi considerano un turco, ma quando torno in vacanza in Turchia non mi trattano come uno di loro, mi considerano uno straniero, un tedesco.Mi sembra sempre di dover scegliere tra le due cose, e non mi piace". "Beh, lei che cosa si sente, che cosa pensa di essere?", gli ho chiesto. Mi ha risposto: "Tutte e due le cose." Lui non aveva problemi di identità, altri sì. In realtà in una cultura improntata al nazionalismo l'identità è fatta di confini, terra e sangue e si è costretti a scegliere una nazione. Ma forzare la gente a fare una scelta talvolta dà risultati inaspettati. Alcuni anni fa, sorse una disputa tra i due nuovi stati di Croazia e Slovenia, circa due piccoli villaggi dell'Istria. Alle domande dei giornalisti sloveni gli abitanti dei villaggi rispondevano di sentirsi sloveni, mentre dicevano di sentirsi croati se a porre la domanda era un giornalista croato. Questo naturalmente creò una certa confusione e i giornalisti cercarono di capire perché. Alla fine qualcuno disse loro che semplicemente sbagliavano a porre la domanda imponendo un'alternativa, o croati o sloveni. Gli abitanti di quei villaggi sentono profondamente la loro identità, ma non la definiscono in termini nazionali, bensì regionali: sono istriani. In effetti in occasione di un censimento tenutosi nel 1991 circa il 20% degli abitanti in quella regione si dichiararono istriani, quando in base ai formulari, avrebbero dovuto definirsi "altri". Questo episodio rappresentò una sorta di dimostrazione anti-nazionalista contro il governo di Franjo Tudjman e il messaggio era chiarissimo: per gli istriani nazionalità e identità non coincidono necessariamente. Ricordo il primo censimento del 1981 in Jugoslavia quando circa il 10% della popolazione si dichiarò Jugoslava. L'analisi successiva dimostrò che quella era la voce della generazione post-bellica, della giovane popolazione urbana. E' stata questa la nascita della nazione Jugoslava? Non credo. Credo che le persone siano ancora ben consapevoli delle loro identità etniche. A quanto ne so, si è trattato semplicemente di aggiungere un'identità ad un'altra, un'identità Jugoslava comune aggiunta a quella serba, croata o bosniaca. Visto il mio modo di vivere, la prospettiva di un'Europa unita ma diversificata mi arricchisce e mi rende più libera. Ma per creare un'Europa così bisogna convincere la gente che ha qualcosa da guadagnare e non da perdere. Siamo al punto in cui sembra ovvio perdere, in cui la paura supera la speranza di fronte al futuro. Chi ha paura dell'Europa? Bronislaw Geremek, l'ex primo ministro polacco ha già dato una bella risposta a questo interrogativo dicendo: "L'Europa ha paura di se stessa!" (Traduzione di Emilia Benghi)

L'autrice è una scrittrice croata